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Autore: Virpheraho    24/04/2014    2 recensioni
“La cosa più grande è che Amore non fa ingiustizia né la subisce da parte di un Dio né contro un Dio, né da parte di un uomo, né contro un uomo; né egli soffre per violenza, seppure prova qualche sofferenza, perché la violenza non si attacca ad Amore; né quando agisce, agisce con violenza, perché ognuno volentieri in tutto serve Amore...”
(Simposio - XVII)
Una fanfiction scritta molto tempo fa, penso ormai tre anni fa, e di cui voglio darvi lettura. Non l'ho rivista e per me resta comunque un pezzo caro che voglio condividere con voi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Ho avuto la pazza voglia di scrivere qualcosa, perché da matto quale ora sono voglio tornare felice e vivere, vivere ancora.
Non voglio parlare con nessuno, né tanto meno interloquire con un inutile pezzo di carta preso chissà dove.
Ho la necessità di sfogarmi, di sentirmi il respiro tornare, di guardarmi intorno, di sentirmi normale.
La paura, la paura mi assale, ogni giorno, ogni notte, in questo preciso istante la mano mi trema e rischio di sbafare d’inchiostro il foglio... non ho la forza di combatterla. Non ho la forza di combattermi, di guardarmi allo specchio, sereno, e sentirmi in pace con me stesso.
La guerra nel mio io è cominciata. Le mie armi sono in condizioni pietose:
Il mio animo è contorto su se stesso.
La mia coscienza, sporca.
La mia integrità, fuggita.
Il mio ego, svanito nel nulla cosmico.
Mi sento frastornato, rinchiuso in una bolla impenetrabile dall’esterno. Perché nessuno mi ha capito veramente.
Nessuno che mi abbia mai chiesto: “Sirius, cos’è quel sorriso falso e smorto?”
Nessuno che mi abbia mai compreso, eccetto Remus. Ma è inesatto ciò che ho detto – o meglio, scritto – ci siamo capiti, l’un l’altro.
Né io avevo la forza di confidarmi a lui, né lui la aveva di confidarsi a me. Ci siamo guardati, poi il silenzio ha preso banco e, dopo tanto, troppo tempo, ci siamo sorrisi.
La sua angelica aura d’intelletto e la lealtà che mi ha sempre ispirato mi ha fatto tacere per lunghissimi attimi. Io, che non sto mai zitto, tacere davanti ad uno dei miei migliori amici. Di solito Codaliscia e Ramoso sono sempre con noi, ma una forza magnetica ci ha staccati da loro ma ci ha uniti per caso. Tornavo dalla Guferia e il cerchio di pietre era vicino, quando lo vidi. Sentivo il cuore pompare il sangue velocemente e con forza sulle tempie.
Il petto si contraeva ritmicamente, scandendo quasi una parata militare che dava inizio alla battaglia.
“Un infarto – pensa – no, non può essere. È lui...colpa mia, pena mia...amore mio.”
Ci avviciniamo, fino ad essere l’uno davanti all’altro e nascosti dietro un dolmen. E qui arriva il silenzio. Ma fu uno di quelli che dice molto più di ogni parola, o gesto, o cavolata varie che può fare chi cade nelle trame di Amore.
Fui io a compiere il primo gesto. Alzai le braccia, timidamente, fino a toccargli il volto, sfigurato dalle cicatrici, ma che comunque amo.
Poi fu il suo turno.
Avvicinò la faccia, sfiorandomi dolcemente il naso con il labbro superiore.
Gli potei vedere ogni singolo poro della pelle: ogni tratto del suo viso adesso era per me familiare. Dal piccolissimo neo, quasi invisibile, che ha sulla guancia sinistra ai segni di piccolissima ferita, traccia di una terapia fatta per alleviare i dolori e le pulsioni che un lupo mannaro può avere.
Mi morse il labbro, chiudendo gli occhi. Feci lo stesso anch’io, dandogli un bacio sul collo.
L’estasi di amore e orrore mi entrò dentro, sino a trafiggermi il cuore e la mente con le loro frecce, prese da chissà quale faretra.
Ecco! Ecco la vera lotta a cui debbo prendere parte: Amore e Psiche, le due parte di uno stesso intero. Uno scontro perenne fra un istinto, una coscienza primordiale, quella di Amore, desiderio, e un volere ed  un’identità con cui sono costretto a sottostare, impostami da Psiche.
Oh... i miei genitori sarebbero felici di sapere che, oltre ad un figlio che viola ogni conformità tipica dei Purosangue, ha anche questa diversità. Sono scappato di casa all’età di tredici anni, per evadere da quel regime sotto cui devo vivere. La pazzia di avere una razza pura, perfetta ed ortodossa.
Se guardo fuori dalla finestra del dormitorio, vedo un cielo enorme, ampio, macchiato qua e là da cumuli e cirri che prendono la forma di ciò che vogliono le persone. Queste nubi io le chiamo più semplicemente persone: amo l’eterodossia, amo essere me stesso, diverso e felice per ciò che sono.
Non una parola ci fu tra noi: subito un’intesa telepatica. Ci dirigemmo, entrambi con le mani in tasca, verso la Forestra Proibita.
Continuammo ad inoltrarci fra gli alberi, scostando i rami bassi con le mani e rompendo le sterpaglie con i piedi. Il crepuscolo era vicino e saremo dovuti ritornare a scuola a breve, per la cena. Non mi interessava nulla dei compiti: l’importante era lui. Pensavo a lui sia come un angelo venuto dal basso, sia come una cometa scintillante piovuta dal cielo.
Alcune volte, con la coda dell’occhio, cercavo di scorgere la sua figura, già severa ad appena sedici anni.
Addentratici nella prima zona boscosa e protetta della foresta, solo gli alberi e le creature ci potevano osservare.
Ma la differenza prima fra un albero o un cervo è che questi rimangono immobili osservando la brutalità dell’uomo; rimangono immobili persino quando la morte li tocca. Adesso invece avevano davanti due esseri umani che si prendevano e che si facevano del male baciandosi.
Vorrei diventare un albero per poter affondare le mie radici nel terreno, immobile ma comunque vivo. Un albero non si chiederebbe mai “Perché amo?” o “Cosa sto amando?”.
Io si, invece.
Cademmo su una piccola macchia d’erba, che a mala pena ci conteneva Le sue labbra si mossero, ma non per baciarmi, ma per prendere coraggio e parlare:
“Sirius... – mi disse, rivolgendosi con lo sguardo a me – ho...ho passato tutto questo tempo a fare il taciturno, a scherzare come un idiota, a essere quello tenebroso del gruppo dimenticandomi sempre di dirti quanto ti amo. Adesso posso: lo griderei al mondo, se solo fosse possibile. Posso dirtelo?
Ti amo.”
Restammo lì per molto, prendendoci, rincorrendoci, cadendo e rotolando insieme, nascondendoci dall’oscurità della luce che filtrava attraverso i rami delle querce secolari.
Il nostro mondo era il buio della foresta, il nostro terreno su cui edificare il nostro futuro, nostro e di nessun altro, era l’umido sottobosco. Costretti a vivere come dei rifugiati, come dei mostri cui il mondo magico non può accettare la diversità che costituisce la bellezza del mondo stesso.
Si stava facendo tardi e di sicuro James si stava chiedendo dove mai fossimo.
Poi, dalla stessa strada cui eravamo entrati nella Foresta, siamo usciti: la notte aveva preso il sopravvento sulla luce crepuscolare, rivelando un prato di stelle con alcune zone macchiate dal leggero grigiore delle nuvole serali.
Il pontile di legno, poi il cortile, con quella grande fontana al centro e il porticato. Decidemmo di dividerci: Remus sarebbe passato prima per i Sotterranei; diceva comunque che doveva chiedere una cosa al professore Lumacorno. Sarebbe stato credibile.
A cena ci comportammo come sempre: lui con la sua aria d’intellettuale, io di stronzetto che si finge santarello.
Le nostre maschere erano – e lo sono tuttora – salde, immobili e perenni sul volto di entrambi.
Viviamo nella costante illusione di poter essere normali... ma normali non siamo: ci pare di vivere nel più bello degli atolli, circondati dagli incubi che sempre ci assalgono.
Mangiai a stento: ero troppo preso dal ricordare quelle poche ore passate solo con lui. Mi era praticamente di fronte, ci lanciavamo delle occhiate complici ma mai spudoratamente sensuali.
Arrivò il momento di tornare alla Sala Comune dei Grifondoro e noi Malandrini ci avviammo insieme su per le scale.
Ci fu un momento in cui sembrò che gli occhi di tutti, quadri compresi, fossero rivolti a me e a Remus: le nostre mani stavano giocherellando per il passamano. Il mio indice e il mio medio correvano ricorsi dai suoi. Non solo sembrava di vedere due innamorati rincorrersi, ma anche due cavalli liberi per le sconfinate praterie dell’America. Il magnetismo ci attraeva l’uno verso l’altro... quella volta si sfogò così.
Quando finalmente mi lasciai cadere sul letto. Pensavo e ripensavo alla giornata che avevo passato: mi vedevo ancora d’innanzi le foglie degli alberi che ci vorticavano intorno, l’odore di resina, il fresco del prato. Avevo voglia di affogare nelle lacrime, e arrivarono. Avevo voglia di ridere come un pazzo, e risi. Passai la nottata ad alternare gioia con dolore, dolore con gioia... continui stati di angoscia alterni a stati di ilarità simile a quella in cui si trova un ubriaco.
L’indomani, andandomi a specchiare per dare una sistemata alla mia chioma riccia e sbarazzina, trovai che la stanchezza aveva fatto incursione in stanza durante la notte: avevo pesanti borse sotto gli occhi, i segni d’una colluttazione psichica: appoggiai le mani ai lati del lavello, mi guardai ancora allo specchio e scoppiai in lacrime. Non vidi più un ragazzo, ma un essere deforme, incapace di affrontare la realtà: ero solito prendere in giro persone con un coraggio di gran lunga superiore al mio, ma in quel momento, come adesso, non fui capace di affrontarmi. Una lotta estenuante fra il Amore Celeste e Amore Volgare...a chi dei due do ragione?
A nessuno...
Sto impazzando.
Non posso abbandonarmi e rilegare Remus in un angolo remoto del mio cuore. Ma la scelta è fra tre opzioni: soccombere, convivere col male d’amare, continuare a vivere mascherandosi dietro un dito d’ipocrisia.
  
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