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Autore: Soe Mame    24/04/2014    1 recensioni
Sì, ci sarebbe riuscito.
Avrebbe svolto il suo ruolo in modo impeccabile, avrebbe onorato la parola data da Gakupo ai signori e non avrebbe mai più fatto alcun pensiero sulla signorina Len.
Sì, ci sarebbe riuscito, per tutti e sei i mesi.
Era spacciato.
Genere: Angst, Demenziale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- Siamo riusciti a trovarti un precettore di giapponese! -
- Ah, sì? - Len aggrottò la fronte: - E' l'ex-precettore di Lily? -
Sua madre scosse la testa: - Con tutto il rispetto per la cara Lily, è molto meglio. - accennò ad un sorriso soddisfatto: - E' giapponese di nascita. -
- Oh... -
- Non sei felice, Len? -
- Non vedete come la mia espressione e la mia voce irradiano felicità in tutta la stanza? -
- Ottimo. -
"Veramente ero ironica..."
Sospirò, evitandosi di alzare gli occhi al soffitto: sapeva che, una volta salutato il suo primo precettore, non sarebbe stato per sempre libero dall'incombenza di libri e lingue straniere da imparare; tuttavia, sperare che non si riuscisse in alcun modo a trovare un insegnante di giapponese non gli era mai costato nulla.
Provava un discreto disappunto nel notare come le sue preghiere avessero avuto l'effetto opposto.
- Giapponese di nascita, eh? - fece, poco convinto: - E... sa qualche parola di inglese...? -
Se già studiare un'altra lingua non lo entusiasmava - ancora si chiedeva come riuscisse a spiccicare qualche frase in francese -, l'idea di dover comunicare con una persona che non sapeva niente di inglese o che parlava con un accento talmente pesante da rendere le frasi incomprensibili non lo faceva esattamente gioire.
- Da quel che ho avuto modo di sentire... - rispose sua madre: - ... sì. Decisamente, sì. -
"Almeno una cosa...".
- Sarà qui domani alle nove. -
- COSA? - Len sgranò gli occhi: - Domani? -
- Sì, Len. Domani. Alle nove. - sua madre si alzò dal tavolo: - Dunque sii puntuale. -
"Ma dovevate dirmelo la sera prima a fine cena...?".
Quando andò a dormire, Len si sentì irritato.
Riprendere a studiare, avere orari fissi, un precettore intransigente capace di sgridarlo per qualsiasi sciocchezza...
"Un giapponese di nascita..." si rigirò nel letto, infastidito: "I giapponesi sono rigidi. E severi. E poi, che diamine ci fa un giapponese in Inghilterra?".
Ricordando i disegni che aveva avuto modo di vedere nei libri e i racconti che gli erano stati fatti, provò a pensare a come potesse essere: piccolino, forse gracile, con la pelle della faccia che sembrava tirata indietro, verso la nuca, gli occhi a mandorla sottilissimi, i capelli nerissimi e la pelle gialla.
Una scintilla di curiosità: "Pelle gialla...". Forse qualcosa di positivo ci sarebbe potuto essere.
Se poi era un insegnante, sicuramente era in là con l'età. Forse era persino vecchio.
Forse era antipatico.
Forse...

- Signorina! Ma allora siete qui! -
Len alzò gli occhi dal libro, verso la cameriera entrata di corsa nella biblioteca deserta: - Sì? -
- Sono le nove e cinque, il signor Kamui è già arrivato! -
"Signor chi?" sbattè le palpebre. Poi ricordò: "Ah...".
In realtà, non l'aveva dimenticato. In realtà, si era recato in biblioteca proprio per provare a dimenticare.
- Presto, presto! - gli intimò la cameriera, la vide gettare uno sguardo esasperato alla miriade di stelline che avevano ricoperto le pagine del libro: - Non fate una brutta figura proprio il primo giorno! -
- Da quanto è arrivato? - chiuse il libro con calma, trattenendo un sorriso nel notare l'agitazione della donna.
- Cinque minuti, signorina. Ah, sei, ora. Ha suonato esattamente alle nove in punto. -
"Oh, mio Dio..." alzò gli occhi al soffitto: "D'accordo la puntualità, ma addirittura preciso fino a questo punto..."
Sarebbe stato terribile. Sicuramente.
Si prese tutto il tempo del mondo, mentre si dirigeva nella sala.
Non era stato lui a volere un precettore di giapponese. Anzi, avrebbe di gran lunga preferito che il gentile signore se ne andasse. Non vedeva perché doversi dare pena di arrivare in perfetto orario - soprattutto perché, tanto, era già in ritardo.
Il problema stava nel fatto che la cameriera l'aveva accompagnato, probabilmente per assicurarsi che non cercasse di fuggire o di impiegarci due ore per attraversare tre corridoi di media lunghezza.
Quindi, alla fine, si ritrovò nella sala prima di quanto avesse voluto.
- Oh, Len, eccoti! - le labbra di sua madre si curvarono appena: - Non hai notato l'orario, vero? -
- Perdonate... - si bloccò: - ... mi. -
"... un attimo.".
C'era un problema, in quella sala.
C'erano cinque persone, escluso lui: una era sua madre; una era una delle cameriere più anziane; due erano servitori; il restante gli era sconosciuto.
Ed era quello che, non appena aveva messo piede nella sala, si era alzato in piedi, dal divanetto su cui era seduto.
Ed era alto. Forse due metri. Forse pure l'ampiezza delle sue spalle era di due metri. Perché c'era un armadio umano sul divanetto?
Si lasciò cadere sul posto libero accanto a sua madre, sul divanetto opposto a quello di quella persona.
Sì, a vederlo più da vicino, era effettivamente umano. E lui, Len, era alto abbastanza da potergli assestare una testata sullo stomaco. Non certo per guardarlo dritto negli occhi.
Tra l'altro, che colore era, quello in quegli occhi, dietro le lenti rettangolari degli occhiali? "Azzurro? Sembra più grigio, però... grigio-azzurro...?"
Non aveva la pelle gialla. Era una pelle assolutamente normale, forse appena più pallida della norma.
E non aveva neppure i capelli nerissimi. Erano più sul castano. E lunghi. Molto lunghi. Superavano la vita ed erano lisci, dall'aspetto setoso. Len dovette giungere le mani in grembo per impedirsi di alzarsi e andare a toccarli: "... ci sono donne che farebbero follie per capelli così... così...".
Non aveva gli occhi sottili. Non aveva la faccia tirata.
E non era vecchio.
Ma, soprattutto, più di ogni altra cosa, la cosa in assoluto più importante, fondamentale, essenziale, notevole, rilevante, vitale - aveva esaurito i sinonimi - era-
"E'... molto gradevole, a vedersi.".
Cercò di tornare in sé: "No, aspetta. Deve esserci una fregatura. Questo qui non può essere il precettore. Probabilmente è il suo segretario, qualcosa del genere..."
- Len, lui è Gakupo Kamui. - la voce di sua madre lo distolse dai propri pensieri, ma non sentì il bisogno di voltarsi a guardarla: - La persona di cui ti ho parlato ieri. Ha accettato di farti da insegnante di giapponese. -
- Onorato. -
Lo vide chinare la testa.
"Ha... una bella voce..." bassa, pacata.
- Lieta di fare la vostra conoscenza, signor Kamui. - sorrise.
Probabilmente, stava irradiando felicità nella sala.
Oppure...
"... non sono arrossita, vero...?" orrido sospetto: "Il mio ventaglio. Dov'è il mio ventaglio? HO BISOGNO DEL MIO VENTAGLIO, ORA E SUBITO!".
Dov'era l'intransigente e antipatico vecchio decrepito che aspettava? Perché c'era un giovane di bell'aspetto a meno di due metri?
"Ma che-"
- ... quindi inizierete oggi stesso. -
Ah, sua madre aveva ciarlato qualcosa. Probabilmente, non capiva il problema fondamentale di tutta quella faccenda.
- Oggi? - ripeté Len, piano. Si rivolse a... no, ma era davvero il suo precettore, quello?: - Non vi crea disturbo, signor Kamui? -
Lo vide scuotere la testa: - Affatto, oujo-sama. Se desiderate iniziare oggi, allora inizieremo oggi. -
"Ma veramente io-"
- Oggiosamà? - domandò invece, confuso.
- Oujo-sama. - disse di nuovo il signor Kamui, il tono gentile: - Significa "signorina". -.
"... se spiega le cose con quella voce, possiamo iniziare anche subito. Sì. Forse il giapponese non è una lingua così brutta, da imparare. Magari è una lingua interessante."
- Capisco... - commentò, soltanto.
- Siamo d'accordo, allora. - intervenne sua madre: - E, signor Kamui, vi chiedo ancora di perdonare il ritardo di mia figlia. -
- Nessun problema, mia signora. - disse l'altro, il tono immutato: - E' colpa mia, anzi. Sono arrivato in anticipo. -
No, non era arrivato in anticipo.
"... che cos'è questa cosa che ho davanti?"
Sbattè le palpebre, accorgendosi solo in quel momento di come fosse vestito: stivali neri, pantaloni bianchi, giacca bianca, spalline dorate a frange, guanti neri, jabot, un completo che ricordava spaventosamente una versione bianca della divisa degli ufficiali.
E sotto la divisa degli ufficiali, di solito, c'era-
Lo squadrò dall'alto in basso: "Può permettersi di indossare un abito simile." sbattè le palpebre: "Ma dove l'hanno trovato?".

- Questa deve essere la vostra stanza, signor Kamui. -
In maniera del tutto disinteressata, Len si era offerto di accompagnare il signor Kamui a fare un giro della magione, per poi condurlo in quella che sarebbe stata la sua camera.
Perché, sì, proprio come il suo precedente insegnante, anche lui avrebbe abitato lì. Merito dell'avere una casa discretamente lontana dal centro abitato e con la tendenza ad isolarsi dal mondo al minimo accenno di pioggia.
"Dunque è questa la sua stanza..." memorizzò il percorso. Sempre in maniera del tutto disinteressata.
- Vi ringrazio per avermi fatto da guida, oujo-sama. -
Se non avesse avuto quel nome strano e gli occhi dal leggero taglio orientale, Len era sicuro che il signor Kamui non avrebbe avuto il benché minimo problema a spacciarsi per un nativo inglese: la parlata era fluida, la pronuncia perfetta - soltanto la lettera L sembrava vibrare di più, simile alla R, ma si notava solo facendoci attenzione.
- Di niente. - Len sorrise, capendo che era il momento di lasciare in pace il suo ospite: - Grazie a voi per aver accettato di farmi da insegnante, maestro. -
"In effetti, perché una persona simile ha accettato di fare da insegnante di giapponese...?"
- Sensei. -
Len sbattè le palpebre: - ... prego...? -
Il signor Kamui accennò ad un sorriso: - Sensei. - ripeté: - Significa "maestro". Potete chiamarmi così. -
- Oh... - si portò una mano alle labbra, cercando di memorizzare quella parola: - Quindi... sensè Kamui? -
- Kamui-sensei. Va dopo il nome. -
Sbattè di nuovo le palpebre: "... quindi il giapponese funziona al contrario?".
Tuttavia, "Kamui-sensei" non gli piaceva.
Sorrise: - Gakupo-sensei! -
Per la prima volta, l'espressione tranquilla dell'altro mutò: a giudicare dagli occhi appena più aperti, doveva averlo stupito.
- Siete... - parlò piano: - ... molto diretta, oujo-sama. -
Il sorriso di Len si accentuò: - Non mi piace essere troppo formale! E poi... - aprì un braccio, ad accennare a tutta la magione: - ... per un po', vivremo sotto lo stesso tetto! Non trovate eccessivamente esagerato essere così formali, in un caso del genere? -
L'altro rispose dopo un paio di secondi, l'espressione che tornava composta: - Se la mettete in questi termini, non posso che darvi ragione, oujo- sama. -
- Mi fa piacere. -
"Lo chiamo per nome dopo neanche un'ora. Tsk.".

Durante la prima lezione, Len non toccò penna né aprì libro: semplicemente, trascorse le due ore ascoltando Gakupo parlare, spiegargli qualcosa del Giappone - dov'era, un accenno di storia, i legami che il Paese aveva con l'Inghilterra, qualche aneddoto di vita quotidiana.
Len venne poi a sapere la parte meno carina di tutta quella faccenda: la lingua giapponese, oltre ad avere lettere diverse, non aveva un solo alfabeto; uno dei metodi di scrittura, poi, utilizzava dei simboli non per le lettere ma per le parole. Come i geroglifici.
Dunque, a conti fatti, stava cercando di imparare i geroglifici.
In realtà, probabilmente Gakupo avrebbe impiegato molto di meno a raccontargli tutte quelle cose. Il fatto era che...
- Oujo-sama? -
- S-sì? - Len sbattè le palpebre, incontrando lo sguardo dell'altro.
Non riuscì a capire se fosse perplesso o esasperato: - Mi sembrate distratta... -
- Oh... - si portò una mano alla bocca, stringendosi appena nelle spalle: - E' che... tutte queste cose, tutte insieme... faccio fatica a ricordare tutto... - abbassò lo sguardo un istante, per poi tornare a guardarlo negli occhi: - Sareste così gentile da ripetere le ultime cose che avete detto? -
Ora lo sguardo era perplesso, decisamente. Forse anche un po' stupito.
Poi quell'espressione si sciolse in un sorriso gentile e Len sentì un suono abbastanza violento all'altezza del petto.
- Naturalmente. In ogni caso, se non capite qualcosa, dovete dirmelo, oujo-sama. Non aspettate che sia io a chiedervelo. -
Len abbassò di nuovo lo sguardo: - Sì, Gakupo-sensei... - sussurrò.
Sperò davvero che i capelli che gli sfioravano le guance e il mento riuscissero a nascondere il ghign- sorriso di trionfo sulle sue labbra.
Sarebbe stato piuttosto sconveniente, altrimenti.
Ma non era colpa sua se quella voce gentile e pacata si era rivelata tanto bella da sentire - cosa poi stesse dicendo era un altro discorso.
A quella si aggiungeva pure Gakupo stesso e, a quel punto, Len riusciva ad ascoltare una parola sì e dieci no.
Alla fine della "lezione", era giunto alla conclusione che il giapponese fosse senz'altro una bellissima lingua che sarebbe stato ben entusiasta di imparare.
Senz'altro.
Il giapponese, sì.
Qualcosa del genere.

Non doveva mostrarsi eccessivamente interessato al suo precettore di giapponese fin dal primo giorno: da brava fanciulla virtuosa, non si mostrò troppo invadente, rivolgendogli la parola solo quando necessario, ascoltando composto sua madre che spiegava come Gakupo l'avrebbe anche accompagnato in paese e che, a conti fatti, era al suo completo servizio.
- Farò in modo di non darvi troppo disturbo, Gakupo-sensei. -
- Permettetemi di dubitare che voi possiate mai darmi disturbo, oujo-sama. -
Non doveva mostrarsi eccessivamente interessato al suo precettore di giapponese neppure dal secondo giorno: saluti di rito, dialoghi di circostanza, le lezioni che iniziavano ad assumere la forma di lezioni - aveva addirittura aperto un libro.
Non doveva mostrarsi eccessivamente interessato al suo precettore di giapponese né dal terzo giorno né dal quarto.
Poi giunse il quinto giorno e Len capì che aveva passato fin troppo tempo a fare la timida fanciulla ingenua dai pensieri puri che non era.
- Spero che... - posò la tazza sul piattino, piano, lo sguardo fisso nel the al suo interno: - ... qualora si presentasse l'occasione, sarete tanto gentile da accompagnarmi ad un ballo. -
- Certo, oujo-sama. Se è questo ciò che desiderate. -
Ottima risposta.
Azzardò uno sguardo rapido al suo interlocutore: Gakupo era seduto al suo fianco, senza nessun'altra fastidiosa presenza - tipo cameriere, servitori o genitori. Come sempre, il giardino interno si rivelava un luogo perfetto per prendere il the in tutta tranquillità.
C'era solo un fattore stonato in tutta quella perfezione, qualcosa che Len aveva avuto modo di notare in quei cinque giorni: riuscire a far parlare spontaneamente Gakupo era un'impresa titanica. Aveva notato che si limitava a rispondere - sempre gentile -, a parlare solo di cose che riguardavano le lezioni o "cose importanti" e dire frasi come: - Oujo-sama, è proprio necessario cerchiare tutte le vocali su quel libro? -.
Aveva capito che avrebbe dovuto estrargli le parole con la forza. O, almeno, fargli intuire che voleva fare conversazione - se era davvero al suo servizio, avrebbe dovuto fare conversazione con lui.
- Avete già debuttato? -
Trattenne un sorriso soddisfatto: evidentemente, aveva intuito.
Si tirò indietro le ciocche sfuggite alla crocchia: - Non ancora. Ma non manca molto. Ho quindici anni... - rallentò appena la parlata, calcando sulla cifra: - ... ormai sono un'adulta. E' questione di uno o due anni prima che debutti in società. - un sospiro noncurante: - Intanto, partecipo a balli privati. - stavolta guardò l'altro direttamente: - Voi avete mai partecipato a dei balli, Gakupo-sensei? -
- Sì. - fu la pacata risposta: - Anche se non molto spesso, in verità. -
- Capisco... - tornò a dedicarsi alla tazza: "Va già meglio. Decisamente meglio.". Bevve un piccolo sorso, lanciando uno sguardo veloce all'altro: i riflessi del sole prossimo al tramonto creavano uno strano effetto sui suoi capelli. Li rendevano quasi viola. Castanoviola. Non sapeva come fosse fisicamente possibile, ma i capelli di Gakupo sembravano davvero tendere al viola melanzana.
Bevve un altro sorso: "Forse è il caso di iniziare ad essere diretti.".
Tornò a guardarlo apertamente - notò che era più lento di lui a bere il the, il che era tutto dire: - Per curiosità... - accennò ad un sorriso: - ... potrei sapere quanti anni avete? -
Ovvio che tra di loro ci fosse una massiccia differenza d'età, era palese che l'altro fosse molto più grande di lui. Soltanto, avrebbe voluto sapere di quanto.
Riportò la tazzina alle labbra.
- Ventitré. -
Si soffocò col the.
Tossì, sentì la mano di Gakupo sulla schiena.
Inspirò ed espirò un numero imprecisato di volte, gli occhi sgranati: - C-cosa? - balbettò, quasi soffocandosi con un altro colpo di tosse.
Se non altro, anche l'espressione dell'altro sembrava stupita: - Ventitré. - ripeté, piano: - ... tutto bene, oujo-sama? -
- C... - posò la tazzina sul piatto, giusto per non far fare una brutta fine al the rimastovi dentro: - ... credevo ne aveste trentacinque! -
"Come sarebbe a dire ventitré?" cominciavano a fargli male gli occhi, tanto li teneva spalancati: "Secondo quale logica costui ha ventitré anni?".
- ... trentacinque...? -
Si fece attento: la voce di Gakupo non era esattamente calma e pacata. C'era una nota strana, nel suo tono, che spezzava quella seraficità. Anche la sua espressione sembrava essere più tirata.
- ... trentasei...? - fece Len, piano.
- Suvvia, non esageriamo... - la nota sempre più forte.
- Trentasette? -
- Ma perché non cinquanta? - decisamente più forte.
- Beh, cinquanta magari no... - piegò appena la testa di lato, ancora sconvolto: - ... forse quaranta... -
Sì, il sorriso di Gakupo non aveva più alcuna traccia di calma e più tirato di così non si sarebbe potuto. Anche lo sguardo era molto meno pacato. Non avrebbe saputo dire cosa fosse esattamente, ma gli sembrava avesse assottigliato gli occhi.
- Invece sono ventitré. - lo vide recuperare la sua tazzina e bere un sorso di the, con un movimento quasi meccanico. Anzi...
"... è..." capì, di colpo: "... stizzito...?".
Soffocò una risata: "Non ridere, non ridere, non ridere, nonriderenonriderenonriderenonridere-"
- E' che... - provò a scusarsi: doveva farlo. Aveva fatto una brutta figura, doveva rimediare, doveva- "Nonriderenonriderenonridere": - ... il vostro aspetto e i vostri modi sono molto maturi, per la vostra età... - sorrise, sperando di non scoppiare a ridere.
- Sì. - la voce di Gakupo era quasi atona, lapidaria: - Me lo dicono spesso. -
Len trasse un profondo respiro: "Non devo ridere. No.". Portò una mano alle labbra: - Perdonatemi. -.
Se non altro, Gakupo aveva perso la sua compostezza per qualche secondo: "Direi che è il caso di osare di più..."
- Se non sono troppo indiscreta... - esordì, calmo, riprendendo la tazzina: - ... per quale motivo vi trovate in Inghilterra? -
Lo sguardo dell'altro perse quell'ombra di stizza, tornando - quasi - pacato: - Questioni di lavoro. -
- Lavoro? - sbattè le palpebre, accennando ad un sorriso: - Non credo parliate del ruolo che rivestite in questo luogo. -
"No, non vi permetterò di rispondermi con frasi lapidarie."
Gakupo scosse appena la testa. Quando parlò, la sua voce era tornata del tutto serafica, senza incrinature: - No, infatti. La mia è una famiglia di mercanti, da molte generazioni. Mio padre ha deciso di aprire i commerci con i Paesi esteri e io ho fatto altrettanto. Per questo vivo in Inghilterra. -
Len sorrise: "Ha detto più di quanto mi aspettassi." ci pensò un attimo: "Forse ha capito che gli avrei comunque fatto altre domande.".
- E' da molto tempo che vivete in Inghilterra? - era sinceramente curioso di saperlo: a giudicare dalla parlata, dovevano essere svariati anni - oppure aveva avuto un insegnante di inglese più che competente.
- Sono venuto qui per la prima volta poco più di dodici anni fa. -
"Come pensavo, allora."
- Ma sono stabile qui da circa sette anni. -
Un pensiero improvviso colpì la mente di Len: Gakupo era tornato a parlare con il suo solito tono pacato e la sua solita espressione calma ma c'era una cosa che sembrava stonare comunque...
- Sette anni? - ripeté, piano: - Siete mai tornato in Giappone? - non sapeva perché, ma aveva iniziato a percepire uno strano peso all'altezza del petto.
Qualcosa attraversò gli occhi dell'altro - sorpresa, forse?
- Sono tornato, sì. - la risposta aveva una nota di esitazione. Eppure, bastarono quelle poche parole per sentire il petto più leggero.
- Non molte volte, in verità. - proseguì Gakupo, il tono di nuovo neutro: - Due, per la precisione. -
- E vi sono bastate? -
L'altro gli rivolse uno sguardo interrogativo.
Len sentì le guance farsi appena più calde: - Intendo... - "Che sto dicendo?": - I vostri famigliari... oppure vivete qui con loro? -
"Perché ho dato per scontato che Gakupo-sensei vivesse qui da solo?" per un istante, desiderò che Gakupo provasse uno slancio d'interesse verso qualsiasi altra cosa possibilmente non nelle sue vicinanze e smettesse di guardarlo. Sentiva le guance troppo calde.
- No, sono tutti in Giappone. - un accenno di sorriso.
"Non sembra... triste...?" Len sbattè le palpebre, ancora una volta: "... in questi casi, di solito, non c'è un po' di malinconia? Ma non sembra odii i suoi parenti..."
- Però, stare così lontani... - sussurrò, più a se stesso che a lui: - E poi, vostra moglie? -
Completamente disinteressato.
- Non ho una moglie. -
Len strinse la presa sul manico della tazzina: - Beh, la vostra promessa sposa... -
- Non ho una promessa sposa. -
- Comprendo... - dovette posare la tazzina sul piatto, giusto per impedirsi di lanciarla in aria: - Quindi non dovete occuparvi di questioni del genere. -
- Esattamente. -
La sua voce era sempre pacata. Sempre. Qualsiasi cosa dicesse.
Len, invece, trasse un profondo respiro. Doveva allontanarsi. Immediatamente. O, almeno, il più presto possibile.
Riuscì a ciarlare a vuoto per un altro paio di minuti, prima di congedarsi e andare a "riposarsi un po' nella propria camera".
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, cacciò un urlo: - NON E' SPOSATO! NON C'E' NESSUNA! NESSUNA! E' LIBERO COME L'ARIA! -
Corse sul letto, tuffandovisi, per poi afferrare il suo pupazzo nero e guardarlo nell'occhio visibile: - E' assolutamente liberissimo! Ed è giovane! E' poco più grande di me! POCO! POCHISSIMO! - si lasciò cadere di schiena sul materasso, lanciando le scarpe chissà dove: - E' giovane, bello, libero e al mio completo servizio! - sollevò il pupazzo: - Non credi che sarebbe un terribile spreco non approfittarne? -
Doveva. Assolutamente. Sarebbe stato folle il contrario.
Strinse il pupazzo al petto, come a voler impedire che il cuore schizzasse fuori: lo sentiva battere con violenza fin da quando aveva sentito quelle parole, talmente forte da farlo rabbrividire, premendogli gli angoli della bocca per curvargli le labbra verso l'alto, tanto forte da scaldargli il petto e riempirgli le orecchie con il suo martellare.
Non era una brutta sensazione, però. Tutt'altro.
- Sono bella... - sussurrò, affondando il viso tra le orecchie del pupazzo: - ... parto molto avvantaggiata rispetto alle altre... -
"Le altre?"
Scattò seduto, il cuore sobbalzò.
Strinse le labbra e tornò a guardare il pupazzo nell'occhio: - Abbiamo un problema. -.
Lo mise seduto d'innanzi a sé, per poi sedersi a sua volta in modo più o meno composto. Quando parlò, il suo tono era serio: - In questa casa, ai balli e anche per strada, potrebbe succedere che Gakupo-sensei s'imbatta in delle donne. Dunque, in potenziali avversarie. - socchiuse gli occhi: - Dobbiamo trovare un modo per eliminare qualsiasi concorrenza. -.
Mise le braccia conserte, studiando attentamente le sue rivali, come se le avesse davanti: - Non è necessario essere alte per essere notate. - riflettè: - Tuttavia, loro possono catturare l'attenzione di un uomo semplicemente mostrando pelle. - gli occhi erano ridotti a fessurre: - Tsk. Non vi bastano un paio di seni per essere più attraenti di me. -
Riaprì del tutto gli occhi: - Inoltre, io sono una duchessa. Se io voglio qualcosa, voi dovete solo abbassare lo sguardo, volgari pezzenti. -
Questo significava anche: - Ma certo! - giunse le mani, tutto improvvisamente più chiaro: - Nessuna delle mie servitrici potrà anche solo osare toccare Gakupo-sensei! Se poi lo facesse lo stesso, beh... - si portò indietro i capelli: - ... sarebbero fanciulle incompetenti che sarebbe inutile tenere in casa, non credi? - sorrise, innocente.
Rimaneva solo un punto: - Non credo mia madre possa puntare a Gakupo-sensei... - accarezzò un orecchio del pupazzo, piano: - ... a lei piacciono più gli inglesi puri. Tutti i suoi amanti lo sono. - alzò le spalle: - Comunque, se anche ci facesse un pensiero, potrei sempre reclamarlo per me. Non può dirmi di no. -.
Battè le mani, con un sorriso: - Abbiamo risolto il problema! - trillò: - Grazie dell'aiuto! - posò un bacio sulla fronte del pupazzo.
Era come se il suo cuore si fosse fatto dieci volte più grande, e batteva forte, caldo, leggerissimo.
Era una bella sensazione.

Gakupo non aveva mai mostrato segni di attrazione nei suoi confronti.
Dunque Len doveva far sì che li mostrasse.
E, per far sì che li mostrasse, avrebbe dovuto conquistarlo.
- Mi servono dei consigli affidabili! -
Attirare l'attenzione degli uomini non era mai stato un problema, per lui. Tuttavia, stavolta non aveva intenzione di essere solo ammirato e corteggiato.
Non riusciva a capirne il motivo, ma desiderava che Gakupo guardasse solo lui. E non perché doveva controllarlo su ordine dei suoi genitori.
- Questo dovrebbe funzionare! -
Non avendo un'idea precisa di come portare a termine il suo proposito, era andato a fare ricerche nel luogo dove, per antonomasia, si svolgevano ricerche: la biblioteca. Così, dopo aver fatto razzia della stragrande maggioranza di libri a sfondo romantico, aveva cercato le pagine che più gli sarebbero potute tornare utili.
Due giorni dopo, aveva appreso abbastanza teoria da poter iniziare a mettere in pratica.
"Allora, ho tutto?" riepilogò, scrutando il corridoio, in attesa dell'arrivo di Gakupo: "Vestito migliore?" abbassò lo sguardo, sul suo abito blu, dai merletti neri: "Presente. Nastro poco stretto?" sfiorò appena la crocchia, attento a non disfarla: "Presente. Giarrettiere piuttosto che reggicalze?" non poteva controllare con mano, ma le sentiva attorno alle gambe: "Presenti. Biancheria più corta del solito?" ben due dita più corta: "Presente. Sì, sono pronta!".
Appena in tempo per intravedere Gakupo.
Scappò nella stanza, fiondandosi sulla prima sedia disponibile, lo sguardo corse alla finestra. Pochi istanti dopo, sentì l'altro entrare.
- Ohayou gozaimasu, oujo-sama. -
Len si voltò verso di lui: trasmetteva calma serafica solo guardandolo - o ascoltandolo. La trasmetteva agli altri, perlomeno.
- Ohayou gozaimasu. - ripetè, pacato. Era il momento perfetto.
Si alzò, diretto al proprio posto.
E si schiantò sul pavimento.
"... ahio."
- Oujo-sama! -
"Perfetto!" trattenne un sorriso di trionfo: "Nessuno può rimanere impassibile di fronte alla combinazione 'povera fanciulla indifesa e bisognosa d'aiuto' e 'oh, no, le mie grazie sono malauguratamente finite scoperte!'! Nessun uomo può resistere al misto di ingenua tenerezza e malizioso intravedere! Nessuno può-"
- Siete ferita, oujo-sama? -
Un attimo. Perché stava guardando Gakupo dritto negli occhi? E, soprattutto, perché era in posizione eretta, con i piedi sul pavimento, la crocchia integra e il vestito perfettamente al suo posto?
- ... no. Tutto bene. - sforzò un sorriso.
Non si era neanche reso conto che l'altro l'avesse tirato su, tanto era stato veloce a farlo. E che gli si era inginocchiato davanti, per guardarlo in viso, forse per controllare che non si fosse fatto male sul serio. Era strana la voce di Gakupo, quando era preoccupato. Sembrava quasi premurosa. Era piacevole. Non che di solito non lo fosse. Era una sfumatura diversa, piacevole in modo diverso.
Tuttavia, rimaneva il fatto che il suo piano era fallito.
"Non sarà certo un singolo fallimento a fermarmi! Riproverò un'altra volta!".
- Oujo-sama! -
- Ahio... - forse lanciarsi dal secondo gradino non era stata un'idea geniale. Era riuscito a frenare la caduta con le mani, prima che il suo naso si spiaccicasse sul pavimento, ma aveva comunque sbattuto le ginocchia e i palmi non facevano meno male.
Senza contare che...
- Oujo-sama, perdonate la mia invadenza... - di nuovo inginocchiato, di nuovo quel tono rassicurante - forse un po' incerto, stavolta -, di nuovo quello sguardo preoccupato. Se non altro, era finalmente riuscito a sentire le mani dell'altro tirarlo su, sollevandolo da sotto le braccia.
- ... ma non credete sia meglio cambiare scarpe? -
Len gonfiò appena le guance, sfregando i palmi doloranti: - Perché? -
- Credo fatichiate a camminarvi... -
- Non è vero. -
- E' da quando le indossate che non fate altro che cadere... -
- Sono cose che capitano. -
- Oujo-sama, senza contare stamattina, siete caduta nove volte. -
- Cose che capitano, ho detto. -
- In dieci minuti. -
- Mh. -
Senza contare che i dolori delle cadute precedenti erano ancora vividi.
"Come ho potuto fallire?" strinse i denti, evitando lo sguardo dell'altro: "Sarei dovuta cadere graziosamente e suscitare istinti di protezione. Inoltre, mi sarei dovuta ritrovare con i capelli sciolti e le gambe scoperte! Perché non è successo nulla di tutto questo?"
La crocchia era perfettamente integra. La gonna si era ostinata a rimanere giù. E lui aveva guadagnato tutte le giunture doloranti - riuscendo a salvare il viso non si sa come. Quello, sui libri, non c'era scritto.
"Direi che questo piano non funziona." preferiva smettere di fare tentativi prima di spaccarsi davvero qualcosa: "Devo pensare ad un piano di riserva.".
- Su, oujo-sama. - tornò a guardare Gakupo, riportato alla realtà dalla sua voce: - Andate ad indossare scarpe più comode. -
Len mise le braccia conserte.
"A questo punto, direi che non posso fare altriment-"
- AH! -
Durante quella giornata, gli era capitato diverse volte di non sentire più nulla sotto i piedi.
Soltanto, era stato per pochi istanti, subito seguiti da sensazioni discretamente dolorose.
In quel momento, erano già svariati secondi che si sentiva sollevato, qualcosa contro la schiena, qualcosa dietro le ginocchia.
- Perdonatemi. -
Len alzò lo sguardo, verso Gakupo. Era sicurissimo di avere un'espressione scioccata - i suoi occhi più spalancati del solito potevano dirsi un buon indizio.
- Non mi fido a lasciarvi camminare oltre. -
"Mi... ha... presa in braccio?"
Afferrò la stoffa della giacca bianca di Gakupo, gettando brevi occhiate qui e lì, mentre l'altro lo portava, presumibilmente, alla sua camera: "... si sta in alto, devo dire.". Si guardò intorno: i candelabri a muro erano più vicini del solito, il pavimento più lontano. Era strano e piacevole al tempo stesso.
"... mi ha presa in braccio?"
Lo realizzò del tutto solo in quel momento, quando ormai l'altro aveva salito almeno due rampe di scale.
Sentì l'intero viso andare a fuoco.
Sicuramente, il martellare del suo cuore era udibile anche al piano di sotto.
"... un uomo mi ha presa in braccio." guardò la stoffa bianca nel suo pugno: "Sto toccando un uomo." sgranò gli occhi: "Un uomo mi sta toccando." schiuse le labbra: "IL PIANO FUNZIONA!".
Era il momento perfetto, l'occasione propizia, quanto di meglio sarebbe mai potuto succedere: c'era del contatto fisico e suo preciso compito era approfittarne quanto più impunemente possibile. Doveva solo allungare le mani e gettargli le braccia al collo.
"Uhm, no, troppo spudorato."
Avrebbe potuto lasciargli la giacca, aprire il palmo e accarezzargli il petto.
"... petto...?"
Non che avesse il cuore in gola - più che altro, l'avrebbe sputato di lì a poco.
E, probabilmente, gli avrebbero preso fuoco ciglia e sopracciglia, tanto le guance ustionavano.
"S-su, non puoi fare la vergine pudica!" si trattenne dall'affondare il viso tra le mani: "Tu non hai niente di pudico, Len! Non puoi pensare e sognare quanto di più lussurioso esista e poi bloccarti non appena un uomo ti tocca sul serio!"
Cercò un briciolo di lucidità: "E' ciò che vuoi, no? Non vuoi?"
Sentì le guance raffreddarsi, la mente farsi più presente: "E' quello che voglio, sì." strinse le labbra: "Quindi non posso perdere occasioni!"
- Questa è la vostra camera, giusto, oujo-sama? -
"... per l'appunto."
Quando sentì di nuovo il pavimento sotto i piedi, si ricoprì di insulti.
"Ora basta! Non posso perdere altro tempo!"
Si voltò a guardare Gakupo. Sbattè le palpebre: - Vi ringrazio molto per il vostro aiuto. - le sbattè di nuovo: - Mi spiace avervi fatto preoccupare. - le sbattè di nuovo: - Perdonatemi se vi ho anche spinto a portarmi qui di peso. - le sbattè di nuovo: - Vogliate scusarmi. - le sbattè di nuovo.
"Sfarfalla le ciglia, Len! Sfarfalla, sfarfalla!"
- Non avete nulla di cui scusarvi, oujo-sama. - un leggero inchino, il braccio appena piegato sotto il petto: - Vogliate perdonarmi voi per aver usato metodi tanto bruschi. -
"Bruschi?"
Sbattè le palpebre: - Assolutamente. - le sbattè di nuovo: - Siete stato molto gentile. - le sbattè di nuovo.
- Uhm, oujo-sama...? - il tono esitante.
- Sì? - sbattè le palpebre.
- ... avete qualcosa in un occhio...? -
- ... -
Smise di sfarfallare le ciglia.
- No. Tutto bene. -.
"La cosa è più complicata del previsto.".
L'epressione dell'altro, nonostante un leggero velo di perplessità, tornò calma come sempre: - Allora vi lascio andare. Se ci sono dei problemi, non esitate a farmeli presenti. -
Len si coprì la bocca con una mano, nascondendo il sorriso che gli era sfuggito: - Suvvia, Gakupo-sensei! Non sono una bambina! -
E tutto divenne improvvisamente chiaro, come un fulmine in piena notte.
"Il modo in cui mi ha tirata su... il modo in cui mi ha presa in braccio... il modo con cui mi si rivolge... e... il suo essere così accondiscendente... lui..." sentì uno strano tic ad un lato della bocca: "... mi considera... una bambina?".
Strinse i pugni.
- Siete sicura non ci siano problemi, oujo-sama? -
- Sicurissima. Sì. - mise mano alla maniglia: - Vado ad indossare scarpe più comode. Vi ringrazio ancora. - entrò nella camera e si richiuse la porta alle spalle.
Con poche falcate, raggiunse lo specchio, si sciolse i capelli con un gesto stizzito.
- Non sono una bambina! - sibilò, sfilandosi le scarpe e buttandole in un angolo.
Schiaffò una mano sulla superficie riflettente, gli occhi ridotti a fessure: - Ve lo dimostrerò! E non oserete mai più pensarlo neppure per sbaglio! Vi dimostrerò che sono molto più donna di tutte le donne che avete conosciuto o anche solo intravisto! -.

Riuscire ad attirare davvero l'attenzione di Gakupo era un'impresa ancor più titanica che farlo parlare spontaneamente - in quel caso, almeno, c'erano stati dei risultati positivi.
Durante quel mese, Len aveva letto praticamente tutti i romanzi rosa della biblioteca - era arrivato anche a spiare le altre ragazze, fossero domestiche o semplici passanti, in paese, per studiarne le movenze, la parlata, qualsiasi cosa; osservazione che si era rivelata decisamente infruttuosa - la quasi totalità delle altre donne era equamente divisa tra banali, rozze e volgari.
Per potersi far notare, non poteva neppure utilizzare la sua arma "alone di mistero", visto che Gakupo viveva sotto il suo stesso tetto e l'aveva visto anche con lo sguardo vispo e strabordante voglia di fare che aveva appena alzato, durante la colazione.
Nel mentre, Len aveva perfezionato la sua mira nel tiro a bersaglio: bastava che una qualsiasi donna di età compresa tra i quindici e i trent'anni si avvicinasse a Gakupo con intenti diversi del chiedergli l'ora che lui la inceneriva con un'occhiata. Negli ultimi tempi, era diventato anche più veloce, riducendo a mucchietti di cenere - con tanto di filo di fumo che si levava dalla cima delle montagnole - qualsiasi essere di sesso femminile con scritto in fronte "concorrenza" che entrava nel suo campo visivo.
Non che il suo sensei attirasse donne come una torta di banane avrebbe potuto attirare lui, ma non era neppure qualcuno in grado di passare del tutto inosservato. Il fatto di essere discretamente alto, orientale, con i capelli color melanzana e piuttosto sopra la guardabilità media della regione potevano essere tutti motivi del suo attirare sguardi su di sé, per quanto lui non sembrasse prestarvi attenzione. Questo era contemporaneamente un fatto positivo e uno negativo: positivo perché le famigerate "concorrenti" partivano con pochissime possibilità; negativo perché la cosa valeva anche per Len.
Tuttavia, lui poteva fare ciò che le altre non avrebbero mai potuto fare: poteva avere un contatto fisico senza essere tacciato di volgarità. Ciò tornava particolarmente utile quando s'imbattevano in donne indecenti che si ostinavano a non ridursi a cenere fumante, ignorando i suoi pacifici sguardi di avvertimento; in quei casi, bastava mettersi sottobraccio al suo accompagnatore, con un sorriso angelico e la voce vellutata, miagolando qualche idiozia a caso capace di distogliere la sua attenzione dalla donnaccia che si era parata sulla sua strada.
Tutto, però, rimaneva in una situazione di stallo: se lui faceva di tutto per farsi notare-
- Oujo-sama, potreste non ricoprire il libro di frecce verso il basso? -
- Non sono verso il basso. Indicano me. -
- Ciò non toglie che siano verso il basso. -
- Allora giro il libro e faccio frecce verso l'alto, così continuano ad indicare me e voi non dovete preoccuparvi delle frecce verso il basso. -
- No, oujo-sama. Sarebbe di gran lunga preferibile lasciare i libri immacolati. -
-Gakupo si ostinava a non capire.
A volte la sua espressione e il suo tono si facevano più perplessi, esitanti - di solito, quando Len esagerava nel fare stupidaggini -, ma per il resto erano sempre calmi e gentili, senza varianti.
Era oltre un mese che lo conosceva, ormai, e aveva sempre la stessa espressione. Alle volte, gli veniva voglia di stuzzicarlo di nuovo sulla sua età, per vedere ancora quella reazione stizzita - unico caso di cambio di tono che gli avesse mai sentito.
- Uffa! - sbottò Len, nella propria camera, sotto lo sguardo del suo pupazzo seduto sul letto: - Devo fare qualcosa! Ma cosa? - guardò il giocattolo: - Tu hai qualche idea? -
Nessuna risposta.
- In effetti, è un grosso problema... - sospirò, camminando in cerchio: - Nei romanzi non ci sono di questi problemi! Lì le cose sono molto più semplici! Forse ho sbagliato da qualche parte? - aggrottò la fronte, riepilogando tutto ciò che era successo in quelle settimane: non trovò nulla da etichettare come "fallimento sicuro senza neppure provare".
- UFFA! - sbattè i piedi e si lasciò cadere sul letto, ottenendo di far finire a testa in giù il povero pupazzo per il contraccolpo delle coperte.
- Perché attiro inutili pretendenti e non riesco ad attirare l'unico che voglio? - aprì le braccia, con gesto di stizza: - Anche se, almeno, lui non sembra aver mostrato interesse per nessuna... - si portò un dito alle labbra, pensieroso: - Beh, come dargli torto? Forse potrebbe presentarsi qualche donna più d'interesse ai balli... - socchiuse gli occhi: - Questo non andrebbe affatto bene. -.
Recuperò il pupazzo, lo raddrizzò e se lo strinse al petto: - C'è qualcosa che mi sfugge, in tutto questo... - riflettè: - Uhm, hai ragione, proviamo a spostare la situazione su di me. Io attiro pretendenti. Alcuni hanno anche chiesto la mia mano. - scacciò quel pensiero: - Come li ho attirati? E dove? Non certo per strada, erano tutti nobili di alto rango. Dunque, sì, li ho attirati ai balli, non c'è altra spiegazione. - guardò il pupazzo, sentendo di essere sulla buona strada: - Rimane da chiedersi come io li abbia attirati. Come io sia riuscita ad attirare non gente comune e ignorante che guarda chiunque in maniera spudorata, ma ottimi partiti, gente con una certa cultura. Cos'è che loro hanno visto? Non credo sia solo un vestito elegante a fare la differenza. Loro sono stati attirati da una donna bella ed elegante, non da una stupida mocciosa qualsiasi che batte i piedi e piagnucola perché non le danno i dolc- - si bloccò.
Scattò seduto, il cuore che martellava.
- ... oh... -
Si portò una mano tra i capelli, il sangue si gelò: - ... mi sono sempre comportata come una mocciosa, davanti a lui! - strinse il pupazzo: - Ovvio che non mi abbia degnata di uno sguardo! Ai suoi occhi, sono solo una marmocchia che fa i capricci come una qualsiasi mocciosa di strada! -
Sentì le guance andare a fuoco: - Mi vede davvero come una poppante! -
No. Questo non andava affatto bene.
Non solo perché era stato accostato ad una popolana che puzzava di latte - e già questo era abbastanza offensivo -, ma perché, in quel modo, l'altro non l'avrebbe mai visto come una donna.
"Devo rimediare, prima che sia troppo tardi!"
Si mise in piedi, sentiva di non poter stare fermo un solo istante di più, il sangue si era sciolto, ribollliva nelle vene: - D'accordo, allora. - raggiunse lo specchio, scostando dal viso le ciocche bionde.
Accennò ad un sorriso: decisamente frivolo e ingenuo. Però gli sarebbe potuto tornare utile.
Fu nel pensarlo che il suo sorriso mutò: non tanto nelle labbra, quanto più nello sguardo. Era un sorriso soddisfatto, ma l'ingenuità era scomparsa del tutto.
Durò un attimo: quando cercò di prestarvi più attenzione, il suo sguardo tornò il solito, facendo cadere quella strana espressione.
- Uhm... - piegò appena la testa di lato: - ... non devo pensarci. Devo solo agire. -
Gli parve di vedere l'ombra di quel sorriso strano. Si coprì la bocca con una mano, sfoggiando lo sguardo più innocente che poteva: - Del resto, non devo essere io a guardare, no? -.

Era stato decisamente troppo irruento. Certe cose andavano fatte con calma, con estrema calma, portate avanti poco alla volta, in maniera quasi impercettibile.
S'impegnò durante le lezioni. Non lanciò più occhiatacce - non sempre, almeno, dato che alcune donne troppo audaci se l'erano meritate. Ridusse in maniera drastica il suo parlare con Gakupo - addirittura, arrivò a non rivolgergli la parola per tutto il tragitto in carrozza fino al paese, andata e ritorno. Durante il the, parlava di argomenti di circostanza, come il tempo o i pasticcini, o di interesse alcuno, come le lezioni. Non gli fece nessuna domanda privata, non lo prese più sottobraccio - se non rarissime volte - e iniziò a non separarsi dal suo ventaglio: lo aiutava a riempire i silenzi, sventolandolo o nascondendovi parte del volto, lasciando visibili solo gli occhi.
Oppure lo faceva malauguratamente cadere, cosa che portava Gakupo a raccoglierlo e a restituirglielo - e cosa che portava Len a guardarlo dall'alto, dato che lui rimaneva in ginocchio finché esso non tornava nelle sue mani.
- Sapete, Gakupo-sensei... - aprì il ventaglio, sventolandolo appena: - ... siete davvero un bravo cagnolino. -
Lo vide sgranare gli occhi, come non aveva mai fatto in quelle settimane. Ottimo.
- Prego? -
- Questo cade... - lasciò la presa, il ventaglio rimase a mezz'aria, trattenuto dalla cordicella attorno al polso: - ... e voi lo raccogliete. - lo riprese e riaprì, stavolta tenendolo fermo: - Vi chiedo una cosa, voi la fate. Proprio come un cagnolino addestrato. - sorrise.
Aveva notato che lo sguardo di Gakupo, in quell'ultimo periodo, si era fatto appena diverso: sembrava quasi esserci una piccola luce di curiosità.
Casualmente, proprio in concomitanza con il suo cambio di atteggiamento nei suoi confronti.
- Sono parole molto irrispettose, oujo-sama. - la sua voce era fredda, l'espressione era diventata impassibile: - Mi era parso aveste imparato l'educazione che si confa ad una donna. -
Len nascose le labbra dietro il ventaglio. Non poteva esibire quel sorriso di trionfo in cui si erano piegate.
- Curioso siate proprio voi a parlarmi così. - alzò appena il ventaglio: - Mi era parso foste immune a qualsiasi tipo di provocazione. -
Quella maschera fredda s'incrinò.
"Col-pi-to."
- Facciamo una passeggiata qui intorno, Gakupo-sensei? - guardò fuori dalla finestra, verso i prati che circondavano la magione: - Non credo abbiamo mai avuto una vera chiacchierata, noi due. - chiuse il ventaglio, sorrise, innocente.
L'espressione dell'altro era tornata glaciale. Quando parlò, la voce era atona: - Sì, oujo-sama. -.
"Temo che l'appellativo non gli sia piaciuto..." ridacchiò, senza farsi notare, mentre uscivano.
Una volta fuori, aspettò qualche minuto - il tempo di mettere discreta distanza tra loro e l'edificio -, prima di parlare: - Non vorrete tenermi il muso per un piccolo scherzo, eh, Gakupo-sensei? -
- Il vostro senso dell'umorismo è alquanto distorto. -
- Lo trovate infantile? - portò di nuovo il ventaglio davanti al viso.
Sentiva l'atmosfera non esattamente positiva, ma la cosa non lo turbava affatto. Anzi.
- Lo trovo crudele. -
Un sorriso nascosto: "E così, non lo trovate infantile, eh?".
Chiuse il ventaglio, gli accarezzò le frange dorate sulle spalle: - Vogliate perdonarmi. - sussurrò, osservando i fili intrecciarsi alle dita: - A volte, mi capita di usare termini che finiscono con il ferire le persone, anche se non è mia intenzione. - sospirò: - E' davvero difficile individuare il confine tra scherzo e offesa. Temo sia qualcosa che varia da persona a persona, fino ad un certo punto. Del resto, io sono stata appellata come "scimmia" perché mangio troppe banane. Ma non mi sono offesa. - guardò Gakupo negli occhi: non erano più freddi, ma non erano neppure calmi.
- Mi chiedo se non siate voi ad essere troppo permaloso. O se sono io a sbagliare. - sospirò di nuovo: - Parlare con qualcuno oltre i convenevoli è davvero difficile, non trovate? E io sono del tutto inesperta. - abbassò lo sguardo, lasciò scivolare le dita lungo la stoffa bianca sul braccio: - Quindi non sono mai davvero sicura di dire la cosa giusta. Voi come fate a sapere cosa dire? - tornò a guardarlo, la mano si fermò all'altezza del gomito.
L'atmosfera negativa se n'era andata. L'espressione di Gakupo era semplicemente impassibile - o forse era più corretto dire "calma con un accenno di qualcosa di indefinito nello sguardo"; Len avrebbe anche osato dire che quella cosa fosse "sospetto".
- Ritengo che il sentirsi offesi, in una certa misura, sia effettivamente un qualcosa che varia da persona a persona. - disse, piano: - Tuttavia, ritengo anche che tra l'appellativo scherzoso e l'appellativo che lede la dignità di qualcuno ci sia una certa differenza. -
- Addirittura la dignità! - Len sorrise: - Ma i cagnolini sono carini! Forse trovate intaccata la vostra compostezza nell'essere equiparato ad una palla di pelo morbida? -
Di nuovo, la sua espressione fu incrinata.
- Dubito che il vostro paragone fosse di questo tipo, oujo-sama. -
- Volevo vedere qualcos'altro. -
Gakupo sgranò gli occhi. Stavolta era palesemente disorientato: - Prego? -
- Eravate davvero buffo quando vi siete stizzito, quella volta che abbiamo parlato della vostra età. - a giudicare dalla leggera contrazione di un angolo della bocca, era decisamente suscettibile, sull'argomento: - Tuttavia, sembravate anche meno statua. -
- Statua...? -
- Siete sempre preciso, sempre composto, sempre rigido, sempre calmo, sempre gentile, sempre "sempre". - alzò gli occhi al cielo: - Volevo vedere qualcos'altro. Qualcosa che non fosse solo il sensei che mi chiama "oujo-sama". -
Dall'espressione di Gakupo, sembrava gli avesse appena detto che il cielo è verde, il prato blu e che la marmellata di fragole sui broccoli lessi ci stava una meraviglia.
Lo vide ricomporsi, anche se meno velocemente del solito: - Ciò che voi vedete è il vostro insegnante di giapponese. - stavolta, il suo sguardo era deciso: - Non mi è richiesto altro, se non quello di accompagnarvi e difendervi da eventuali pericoli. -
- Sono io a richiedervi altro. -
Colpito di nuovo. Ma non lo vide tentennare.
- Ossia? -
Len piegò la testa di lato: - Siate meno rigido. Potete anche chiamarmi per nome. -
- Non potrei mai, oujo-sama. -
"Umpf."
- Siete veramente poco equo. - sventolò il ventaglio, davanti al viso: - Io vi chiamo per nome. Sarebbe carino se anche voi faceste lo stesso. -
- Oujo-sama può chiamarmi come più desidera. Io non azzardo a fare altrettanto. -
Doveva mantenere un'espressione tranquilla. Anche se la risposta non gli era piaciuta affatto.
- Ecco cosa intendevo con "troppo rigido". Siete incatenato nel vostro ruolo. - abbassò il ventaglio, sfoderò lo sguardo più lacrimevole che poteva: - Devo pensare che mi vediate solo come una fastidiosa fonte di guadagno? -
Stavolta, Gakupo esitò, anche nello sguardo.
- Non vi vedo come una fastidiosa fonte di guadagno, se è questo ciò che temete. - rispose, parlando piano, quasi cauto: - Tuttavia, il mio ruolo è quello di vostro precettore e custode, null'altro. -
- E il mio ruolo è quello di giovane signora della casa. - ribatté Len, impedendosi di ridere: non sapeva perché, ma sentiva le labbra curvarsi verso l'alto.
- Ciò non m'impedisce certo di essere molto meno rigida di voi. - sorrise, abbassando il ventaglio: - Non nascondetevi dietro il vostro ruolo, Gakupo- sensei. La vostra sembra una scusa nel tentativo di non sembrare poco serio. -
"... in effetti, potrebbe essere...?"
Di nuovo quell'esitazione. Forse non aveva sbagliato.
- Non lo dirò a nessuno. - chiuse il ventaglio: - Promesso. - lo portò alle labbra, con un sorriso.
Per tutta risposta, Gakupo sospirò, abbassando le palpebre per un attimo. Quando tornò a guardarlo, la sua espressione era tornata quella pacata di sempre: - Per quanto io possa apparirvi troppo rigido, voi siete troppo audace. -
- Affatto. - il suo sorriso si accentuò: - Sono assolutamente tranquilla. -
Era ovvio che Gakupo non sapesse leggergli nel pensiero. Altrimenti, sarebbero sorti problemi di definizione, nel caso avesse messo in pratica quel che voleva davvero.
- A proposito di abbandonare un po' la rigidità... - riaprì il ventaglio: - Tra dieci giorni si terrà un ballo presso i conti qui vicino. - di cui non ricordava il nome: - Mi farebbe molto piacere se mi accompagnaste. -
Gakupo chinò appena la testa: - Se è questo ciò che desid- -
- "Sì, oujo-sama" andrà bene. -
Incontrò il suo sguardo, a metà tra lo stupito e quello strano sospetto. Ricambiò con un sorriso, abbassando il ventaglio: - Vi ho detto che non mi piacciono le formalità? Inoltre, mettete troppe parole in una frase. Le persone che vi ascoltano rischiano di annoiarsi. Potrebbero distrarsi. -
S'incamminò verso la casa, senza aspettare una sua risposta. Poteva bastare così, per il momento.
"Siete davvero, davvero, davvero difficile, Gakupo-sensei.".

La sua chiacchierata con Gakupo...
... non aveva sortito il benché minimo effetto.
L'unica differenza stava nel fatto che l'altro aveva iniziato a dire: - Sì, oujo-sama. -.
"Siete voi quello crudele, Gakupo-sensei." pensò, sventolando il ventaglio con una certa stizza. Da quando avevano messo piede nella grande sala da ballo, l'altro gli aveva rivolto solo brevi frasi di circostanza, per poi lasciarlo libero di andare dove volesse. Sapeva che, in ogni caso, era sempre nel suo campo visivo, ma sperava di riuscire a trattenerlo con sé per più di un minuto.
Non di meno, lì al ballo aveva effettivamente adocchiato delle ragazze piuttosto piacenti, per non dire belle. E questo non andava affatto bene.
"Sembra non ci sia modo di scuoterlo." si diresse verso le cibarie, alla ricerca di qualcosa che potesse placare almeno un po' il suo malumore: "Mi chiedo se stia facendo il finto tonto o se non capisca davvero." scrutò i piatti: "Forse... pensa che potrei far sì che venga licenziato, se non mi ricambiasse?".
Quell'idea lo fece rabbrividire. Scosse la testa: "Ridicol- banane americane?"
Si avvicinò, incuriosito dal cartellino: tante coppette piene di banane sminuzzate e, al centro, le banane intere in esposizione.
Len aggrottò la fronte: "Sono... minuscole." e lo erano anche le porzioni.
Prese una coppetta e ne assaggiò il contenuto, senza distogliere lo sguardo dalle banane lunghe appena un palmo. Fece appena in tempo ad assaporarle che già erano finite.
Dolci. E microscopiche.
Sospirò, affranto, mettendo la coppetta perfettamente ripulita tra le altre coppette usate: "Oggi non è serata.".
- Tutto bene, oujo-sama? -
Len dovette portarsi una mano al petto, per impedire al cuore di schizzare via. Si voltò, stizzito: - Mi avete spaventata! -
Occhi sgranati. Forse Gakupo non si era reso conto di essergli arrivato alle spalle in perfetto silenzio.
- Perdonatemi, oujo-sama. -
- Le avete assaggiate? - indicò le bananine. Quando l'altro fece di no con la testa, Len sospirò: - Sono buone. Ma sono piccole. Piccolissime. Non mi piacciono le banane così piccole. A me piacciono le banane grandi. -
"... perché Gakupo-sensei si è appena schiaffato una mano in faccia?"
A volte, le reazioni di Gakupo erano alquanto strane.
- Voi, Gakupo-sensei? -
- Io? - sembrava stupito.
Len annuì: - Voi. Avete trovato qualcosa di vostro interesse? -
L'altro rispose dopo un attimo, apparentemente tranquillo: - Nulla di troppo interessante, in verità. -
"..."
Len portò una mano alle labbra, nascondendovi una risata leggera.
Quando incontrò lo sguardo interrogativo dell'altro, la spostò: - Vi preferisco così. Sincero. - sorrise.
Non capì perché ma, quando lo vide aggrottare la fronte, forse per capire davvero ciò che gli aveva appena detto, sentì il cuore battere più forte.
Distolse lo sguardo. Sentiva le guance calde.
Non successe nulla di eclatante durante le ore successive - e neppure i balli erano granché coinvolgenti - ma non la trovò una serata sprecata.
- Oujo-sama, questo potrebbe piacervi? -
- Cos'è? E' carino, è giallo! -
- Pare sia un budino a base di banane americane. Di svariate banane americane. -
- Oh... -
"LO SAPEVO! SAPEVO DI NON POTERGLI ESSERE INDIFFERENTE! QUESTA E' LA PROVA SUPREMA DI QUANTO- ah, che buono...".

- Uffa, ma perché? - sentì una fitta tra le scapole, riportò le braccia avanti.
Non aveva idea di come fosse stato possibile, ma una ciocca di capelli sulla nuca, sfilatasi dalla crocchia, si era impigliata nel secondo bottone del suo vestito, sulla schiena - per quanto, in un primo momento, avesse pensato si fosse incastrata prima nel nodo del collarino, poi nel primo bottone.
Per quanto avesse tirato, aveva ottenuto solo di annodare la ciocca ancora di più nel bottone, costringendolo a sfilarlo dall'asola per disincastrare i capelli.
Il primo bottone, poi, era riuscito a richiuderlo. Il secondo era rimasto aperto. E lui non riusciva ad arrivarci.
Avrebbe potuto prendere tempo rimettendosi il collarino, ma ormai era una questione di principio.
E forse avrebbe fatto meglio a guardarsi nel suo specchio, piuttosto che nel riflesso della finestra della sala. Ma non poteva lasciarla vinta al bottone.
Tra l'altro, a forza di provare a raggiungere il secondo bottone, il primo era scivolato fuori dall'asola. Forse l'aveva allargata troppo, nei suoi tentativi di reinfilarlo.
Sentiva le spalle indolenzite, le braccia iniziavano a fargli male. E la frustrazione aumentava. Soprattutto considerando che i bottoni li sfiorava con la punta delle dita, senza davvero toccarli. Sembrava lo stessero prendendo in giro.
- Ugh, vi odio. - piagnucolò, lasciando le braccia lungo il busto, rilassandosi. Si sentiva tirare per praticamente tutta la parte superiore del corpo. Affondò il viso nelle mani: - Uffa... -
Non aveva davvero idea di come fare. "Dovrei chiedere aiut-" si bloccò.
Nel riflesso sulla finestra, alle sue spalle, c'era Gakupo.
Era stato un po' inquietante notarlo lì, immobile, non appena aveva rialzato lo sguardo.
- Ah, Gakupo-sensei! - si voltò a guardarlo: - Smettetela di spaventarmi! -
L'altro parve riscuotersi.
"... era una mia impressione...?"
Gli era sembrato di notare qualcosa di strano, nei suoi occhi. Non era sospetto, però. Era un qualcosa che non gli aveva mai visto in volto. Non era riuscito a capire cosa potesse essere, né se fosse positivo o negativo. Era strano. Solo quello.
- Perdonatemi, oujo-sama. -
- Potreste aiutarmi con questo? - si girò, indicandogli i bottoni aperti: - Non riesco a raggiungerli! -
- ... sì. -
Aveva risposto dopo un paio di secondi. E, osservandolo nel riflesso sulla finestra, vide di nuovo quella luce strana nei suoi occhi.
"Allora non l'ho immaginato..."
Continuava a non capire cosa fosse. Sapeva solo di aver avvertito un brivido lungo la schiena. E non era un brivido di paura o di freddo.
Tra l'altro, le sue cameriere non ci mettevano così tanto, ad infilare due bottoni nelle asole. Gakupo ci aveva messo almeno dieci secondi.
- Grazie! - sorrise, anche se era ancora disorientato. Recuperò il collarino e lo reindossò, senza distogliere l'attenzione dal riflesso di Gakupo: non aveva più quello sguardo, ma sembrava sovrappensiero.
Si girò del tutto verso di lui. Lo trovò con la stessa espressione di sempre.
"... eppure sono sicura che non sia stata un'impressione.".
- Avete fatto i vostri compiti, oujo-sama? -
"Ugh." - Li farò stasera. -
- Potreste provare a fare i compiti, qualche volta. -
- Ho detto che li farò stasera! -
- Per voi, "farò i compiti stasera" significa "non li farò mai". -
- Umpf. -.

Ogni tanto, capitava che, per sbaglio, facesse i compiti la sera - che facesse i compiti in generale. Era successo solo tre volte in due mesi, ma era comunque successo.
In quei casi, riusciva a strappare alle sue cameriere - e a sua madre - il permesso di andare a dormire più tardi - chissà perché, allo studio non dicevano mai di no; congedava le sue servitrici, affermando di non aver bisogno di aiuto nello svestirsi - per poi, puntualmente, passare cinque minuti ad allentarsi il corsetto per liberarsene - e si metteva a fare i compiti che gli erano stati assegnati.
Quella sera, teoricamente, avrebbe dovuto scrivere una serie di parole e frasi secondo l'alfabeto hiragana, tenendo davanti un foglio con sopra tutti quei segni tondeggianti. Una sola pagina da riempire.
Quando Len guardò l'orologio lì vicino, stiracchiandosi, notò che era mezzanotte passata. E lui aveva iniziato alle nove.
Sospirò: "Forse avrei dovuto fare meno pause. E meno lunghe." alzò le spalle: "Oh, beh. Pazienza. Chissà se in cucina c'è qualcosa di buono...".
Uscì dalla propria camera, trotterellando verso la sua meta - non che sperasse di trovarvi delle banane, ma magari qualcosa di abbastanza appetibile...
Si fermò.
Era appena passato davanti ad una delle sale più piccole, ma c'era qualcosa di strano: non era buia come sarebbe dovuta essere.
Tornò indietro, lieto di essersi tolto le scarpe e di avere i piedi coperti solo dalle calze; sbirciò nella stanza, piano, individuando subito la fonte di luce di troppo: una candela sul tavolo più grande, ricoperto di fogli. E seduto alla sedia c'era-
- Ah! -
Trasalì, quando incontrò quegli occhi chiari.
"C-come ha fatto a sentirmi...?" rimase immobile sulla soglia, ancora scosso: "Eppure sono sicura di non aver fatto rumore..."
- Oujo-sama? - vide Gakupo aggrottare la fronte, sinceramente stupito: - Cosa ci fate ancora in giro, a quest'ora? -
Len portò le mani dietro la schiena, alzò appena il viso, trionfante: - Ho fatto i compiti! -
- ... -
- ... -
- ... tornate a dormire, oujo-sama. -
- Ma è vero! - strinse i pugni e gonfiò le guance, assottigliò lo sguardo: "Io faccio i compiti e lui non mi crede. Tsk!"
- Vedremo domani mattina se è vero o meno. - fu la pacata risposta dell'altro, l'espressione di nuovo tranquilla. Lo vide tornare a dedicarsi a qualsiasi cosa stesse facendo prima di essere interrotto, smettendo di prestargli attenzione.
Da quella posizione, Len non riuscì a capire cosa fosse - vedeva solo che stava scrivendo qualcosa.
Incuriosito, entrò nella stanza e si avvicinò, per poi fermarsi dietro di lui e sbirciare da sopra la sua spalla: stava scrivendo, sì, e stava scrivendo in giapponese - con geroglifici che non erano affatto hiragana e avevano un'aria molto più inquietante; davanti a lui stavano tre quadernini aperti: uno era quello su cui stava scrivendo, ordinato, con la penna e l'inchiostro, mentre gli altri due sembravano scritti di fretta, forse con un carboncino, ed erano pieni di cancellature.
Chinò appena la testa, per vedere meglio.
Un istante dopo, Gakupo era sparito.
Anzi, si era lanciato sulla destra, girandosi verso di lui con gli occhi spalancati e i capelli stretti in una mano. Forse non era direttamente scattato in piedi solo per un lampo di lucidità.
Anche Len aveva gli occhi sgranati. E il cuore che batteva fin troppo forte, ma perché sembrava che il suo precettore avesse la fissazione di fargli prendere un colpo non appena gli fosse possibile.
Silenzio.
- ... scusatemi, oujo-sama. - gli parve quasi che quel sospiro fosse più un espirare dopo una lunga apnea.
"... no, ha davvero trattenuto il respiro...? Che diamine...?"
Gakupo tornò composto sulla sedia, le mani di nuovo sul quaderno, come se nulla fosse successo.
- Ehm... - un leggero colpo di tosse: - Gakupo-sensei... sicuro vada tutto bene...? -
- Vi prego di perdonare la mia reazione, oujo-sama. - fece l'altro, senza voltarsi: - Fatico ad impedire che succeda. -
- E perché...? -
- L'ultima donna che si è avvicinata ai miei capelli ha cercato di tagliarli per prenderseli. -
- Ah. -
"Allora è vero che certe donne farebbero follie, per quei capelli..."
- E' tardi, oujo-sama. - la voce di Gakupo lo riportò alla realtà: - Dovreste andare a dormire. -
- Anche per voi è tardi! - protestò: - Anche voi dovreste andare a dormire! -
- Non prima di aver finito qui. -
- Cosa state facendo? - aggirò la sedia, sedendosi su quella accanto, lo sguardo ai fogli e ai quadernini.
Un sospiro, forse esasperato, forse di resa, forse entrambi: - Fogli di lavoro. Trascrivo le cose da fare e quelle fatte. -
Len spostò lo sguardo su di lui, perplesso: - ... lavoro? - ripeté: - Continuate a fare il vostro primo lavoro anche se ora lavorate qui? -
Gakupo rispose dopo qualche secondo, il volto impassibile: - ... temo di sì. -
"Teme?"
Decise di rimanere in silenzio, lasciando l'altro al suo lavoro.
Si raggomitolò sulla sedia, i talloni sul sedile, le mani sulle ginocchia, lo sguardo fisso sui fogli.
Cercò di riconoscere qualche simbolo - anche se, fino a poco prima, pensava di averne avuto abbastanza di hiragana, per quella sera -, ma tutti i segni erano incomprensibili.
Quando lo sguardo scese al quaderno su cui Gakupo stava scrivendo, non potè fare a meno di notare, con una punta d'invidia e una di ammirazione, quanto fosse veloce a tracciare quei cosi difficili.
Poi i suoi occhi salirono, fino al viso.
Non c'era alcuna espressione, era semplicemente preso da ciò che stava appuntando.
Ed era anche molto vicino.
Ed erano anche da soli.
Sentì un brivido lungo la schiena, il cuore trasalì, battè più forte.
Lasciò scivolare le mani lungo le gambe, fino al sedile.
E si accostò a quel viso.
"... eh?"
Di nuovo quegli occhi nei suoi.
Ma, quella volta, non avevano nulla di stupito o di allarmato. Sembravano freddi. E anche...
- E' tardi, oujo-sama. - la voce ferma: - E' quasi l'una di notte. -
Solo in quel momento Len si rese conto che, quando si era avvicinato, Gakupo aveva voltato la testa, per poi tornare a guardarlo. L'aveva evitato.
Strinse i pugni.
Sentì il petto scaldarsi. Ma non era rabbia. Sentiva le labbra piegarsi verso l'alto.
C'era qualcosa di interessante, in tutto quello.
- Avete ragione. - sorrise. La sua voce non uscì come il suo solito trillo: era più bassa, divertita.
Rimise i piedi a terra e si alzò. Quando raggiunse la porta, si fermò e si voltò, il sorriso immutato: - Buonanotte, Gakupo-sensei. -
- Buonanotte, oujo-sama. - anche quel tono e quello sguardo erano immutati.
Len ridacchiò e tornò nella propria camera, senza riuscire a frenare quella strana ilarità: "Quanta ri-tro-si-a, Gakupo-sensei!".
Non aveva idea del perché, ma era sicuro che, alla fine, avrebbe ottenuto ciò che voleva.

Incredibile come Gakupo fosse in grado di far finta di niente.
Il giorno dopo fu tutto come al solito - se non per il fatto che Len aveva svolto i compiti. Non un accenno a quanto successo la sera prima, non uno sguardo in più o in meno, neppure un tono più freddo o distaccato. Niente.
Era tutto esattamente come al solito.
Per quel giorno, Len lasciò correre, comportandosi a sua volta come se nulla fosse successo.
Sapeva che era solo questione di tempo. E sapeva che anche Gakupo lo sapeva.
"Forse Gakupo-sensei sa che io so che lui sa? E forse sa anche che io so che lui sa che io so che lui sa che io so? E forse-"
Era solo questione di tempo, e lo sapevano entrambi.
Quel che serviva era solo un approccio più diretto. Molto più diretto.
- Cosa fate, Gakupo-sensei? -
Un sospiro: - Appunti di lavoro. -
- Come due sere fa! - Len sorrise, avvicinandosi alla sedia, dietro. Quella volta, Gakupo non scappò - evidentemente, era piuttosto fiducioso del fatto che non gli avrebbe tagliato i capelli.
- E voi, oujo-sama? - la voce priva di qualsiasi intonazione: - Come mai siete in giro a quest'ora? Avete fatto i vostri compiti? -
Len ridacchiò: - Suvvia, sensei! - posò le mani ai lati dello schienale: - Non potete pretendere che io faccia i compiti per due giorni quasi di fila! -
- E allora perché non siete a dormire, visto che sono le undici passate? -
Len sorrise.
Si chinò su di lui, gli abbracciò le spalle, le labbra andarono all'orecchio: - Perché volevo stare con voi, ovviamente. -
Era strano stargli così vicino, toccarlo in quel modo. Ed era piacevole.
- E se io non volessi stare con voi? -
Si era irrigidito. Il tono si era fatto glaciale.
Il suo sorriso si accentuò.
Le mani scesero ad accarezzargli il petto, l'imbottitura premuta contro lo schienale, le dita s'insinuarono sotto la veste, scivolarono lungo la camicia.
Un altro brivido.
Anche le labbra scesero, fino al viso: - Vorreste cacciarmi? -
Una morsa sui polsi.
Le braccia si allargarono, la presa scomparve, Gakupo era in piedi davanti a lui, lo sguardo gelido nel suo.
- Sì. -
Len inarcò le sopracciglia: - Siete irrispettoso. -
- Siete spudorata. -
- Ancora più irrispettoso. -
- Tornate nella vostra camera, oujo-sama. -
Len sospirò, sventolò una mano: - D'accordo, d'accordo. Farò la brava e tornerò nella mia camera. -.
Fece un passo, per poi lasciarsi cadere a terra, seduto, con uno sbuffo della gonna.
Rimase fermo.
- ... che avete, oujo-sama? - quella voce glaciale fu spezzata da una nota di perplessità.
- Mi si sono stancati i piedi. - rispose, il tono quasi annoiato.
- Non dite sciocchezze, oujo-sama. -
- E' vero. Mi si sono stancati i piedi. - ripeté, senza neppure guardarlo: - Credo sarò costretta a dormire qui. Sul pavimento. -
Un sospiro esasperato.
- Non comportatevi come una bambina, oujo-sama. -
- Non mi sto comportando da bambina. Sto dicendo la verità. -
- Non potete dormire sul pavimento, oujo-sama. -
A quel punto, si degnò di guardarlo: l'espressione fredda aveva lasciato il posto alla pura resa. S'impedì di sorridere.
Alzò le braccia, verso di lui: - Allora portatemi voi. -.
Sembrò quasi che Gakupo si stesse sforzando di mangiare qualcosa di disgustoso soffocando qualsiasi espressione nauseata.
Eppure, Len era certo che, nei suoi pensieri, non ci fosse la minima traccia di ribrezzo.
Dopo qualche secondo, l'altro lo raggiunse e lo prese in braccio, per poi uscire dalla stanza.
Non si lasciò cullare da quella bella sensazione di calore, ignorò il cuore che batteva troppo forte. Doveva stare attento, aspettare l'occasione giusta e approfittarne.
Capì che era il momento quando furono al primo piano, vuoto, lontani dalle scale.
Si tese verso di lui, una mano sul petto, una su una spalla, e-
- Ah! -
-si ritrovò almeno mezzo metro più in basso.
"Ha... abbassato le braccia...?" si rese conto, allibito: più che ad altezza delle spalle, ora era ad altezza gomiti.
Fu un istante: l'attimo dopo, Gakupo lo rimise al suo posto, come se pesasse pochi grammi.
"Che diamine-"
- State composta, oujo-sama. - uno dei suoi sorrisi gentili. Che non era molto gentile, in verità: - Se vi agitate troppo, potrei inavvertitamente lasciare la presa. -
No, non era molto gentile.
Len gonfiò le guance, ridusse gli occhi a fessure: "Per stavolta basta così. Non ho intenzione di precipitare da due metri di altezza perché voi siete troppo ritroso!".
Quando tornò con i piedi per terra, davanti alla sua camera, augurò la buonanotte a Gakupo in modo più distaccato che poteva.
Una volta sul letto, però, si lasciò sfuggire un sorriso: "Siete così adorabilmente difficile...".
Non sapeva perché, ma si sentiva davvero leggero.

Era ovvio che Gakupo si aspettasse un'altra mossa, da parte sua.
Decise di stare tranquillo per qualche sera, comportandosi come sempre e andando a dormire presto - ed evitando di fare i compiti, ovviamente.
Aveva l'impressione, però, che Gakupo non avrebbe abbassato la guardia. Anzi. Aveva l'impressione che, di giorno in giorno, si facesse sempre più attento ad ogni suo movimento, quasi volesse anticipare le sue mosse.
Ma lui si era comportato bene: aveva evitato di rimanere per troppo tempo da solo con lui - se non per le lezioni o l'ora del the -, aveva fatto sempre in modo che ci fosse qualcun altro; e, quelle poche volte che erano stati soli, aveva evitato qualsiasi discorso che implicasse la voce bassa.
Non aveva prestato attenzione a quanti giorni fossero trascorsi effettivamente. Sapeva solo di essersi stancato di fingersi calmo.
Aveva caldo. Aveva pensieri più vividi di quanto ne avesse mai avuti. Sentiva i vestiti fastidiosi, irritanti, che gli bruciavano la pelle, lo soffocavano. Aveva caldo, eppure il nastro che gli legava i capelli era di troppo, voleva sentirli sciolti, contro il collo e le spalle, sfiorargli la schiena. E voleva sentire quei capelli tanto lunghi accarezzargli la pelle, insieme a quelle labbra e quelle mani. Voleva che sostituissero le sue, di mani, voleva che vagassero dove loro erano state. Voleva sentire il suo respiro troppo veloce, spezzato, voleva sentire il suo respiro.
Aveva caldo, soprattutto di notte. Non vedeva il motivo per cui continuare a rimanere nella propria camera.
Uscì, senza scarpe. Non andò nella sala in cui l'aveva incontrato due volte: poche sere prima, era tornato a controllare, ma l'aveva trovata vuota. Ovvio che Gakupo non sarebbe rimasto lì. E c'era un unico posto, in tutta la magione, che avrebbe potuto sperare di provare a definire sicuro.
Len bussò alla porta.
La camera di Gakupo. Era certo che fosse ancora sveglio. Quando l'aveva visto nella sala, non gli aveva dato l'impressione di essere affaticato - era probabile che trascorresse le sere chino su quei fogli.
Quando gli fu dato il permesso di entrare, aprì la porta, per poi richiudersela alle spalle, le mani dietro la schiena, le dita ferme sulla chiave.
Esattamente come si era aspettato, Gakupo era impegnato nel suo lavoro, lo sguardo al tavolo pieno di fogli e libri, la sedia che dava le spalle alla porta, la candela posata su un mobile vicino. Quando lui si voltò a guardare chi fosse entrato, lo vide sgranare gli occhi.
S'impedì di sorridere. Aveva l'impressione che l'altro si fosse sentito improvvisamente in trappola.
- Cosa ci fate qui, oujo-sama? - tono più glaciale dei precedenti, sguardo fattosi freddo: - Tornate immediatamente nella vostra camera. -.
Nel tragitto tra le stanze, Len aveva avuto modo di pensare ad una qualsiasi scusa che potesse impedire a Gakupo di cacciarlo a calci - cosa che aveva tutta l'aria di dover succedere di lì a pochi istanti.
Sforzò il tono più lacrimoso che conosceva, finse un'espressione spaventata: - Ho paura! - tirò su col naso: - Il vento... il vento ulula troppo forte, sembra che ci siano dei mostri sotto la mia finestra! -
- Non dite sciocchezze, oujo-sama. -
- E' vero! - si strinse nelle spalle, abbassò lo sguardo: - Vi prego, posso rimanere per poco? Pochissimo! Vi prego, vi prego! Non riesco a stare nella mia camera, ho paura! -
- Andate a chiederlo ad una delle vostre cameriere. -
- Loro mi caccerebbero! - rialzò la testa, sperò di avere uno sguardo abbastanza terrorizzato: - E mi prenderebbero in giro! E mi costringerebbero a rimanere nella mia camera, con il vento che mi fa paura! - inspirò: - Vi prego, solo per poco! - espirò quasi urlando e fece scattare la chiave. Sperò davvero che la voce fosse riuscita a coprirne il suono.
Il volto di Gakupo era impassibile, quasi fosse stato scolpito nella pietra, gli occhi freddi.
Un sospiro.
Quell'espressione si sciolse, ridandogli il volto pacato che aveva sempre: - Solo cinque minuti, oujo-sama. Il tempo di calmarvi e capire che le vostre sono solo fantasie. -
Len sorrise, con falsa gratitudine: - Vi ringrazio, Gakupo-sensei... -
"Sapete quanto reali possono diventare, le fantasie, Gakupo-sensei?".
Tra l'altro, non sembrava eccessivamente in allerta. Forse era davvero riuscito a non far sentire lo scatto della chiave.
Gakupo tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo, Len decise di aspettare almeno un minuto, la schiena contro la porta.
Poi camminò per la stanza, fermandosi di tanto in tanto a guardare qualcosa; per quanto l'idea fosse di non dare l'impressione di volersi avventare contro di lui, alla fine si era scoperto sinceramente incuriosito da ciò che c'era in quella camera: come c'era da aspettarsi, era in assoluto ordine, quasi fossero appena passate le domestiche a pulire e rassettare, eppure non potè non notare la spada nel suo fodero nero, appoggiata ad un angolo, vicino al letto. In confronto a quelle che aveva avuto modo di vedere, era davvero sottile, la guardia stretta, l'impugnatura sembrava più lunga e l'intera spada aveva una forma appena arcuata. Gli era capitato di vederla al fianco di Gakupo, ma non si era mai soffermato ad osservarla.
Giunse le mani, gli sfuggì un sorriso: - Mi piace la vostra spada! Non ne ho mai vista una simile! -
"Sarebbe bella vederla fuori dal fodero..."
- Vi ringrazio a nome suo. - la risposta di Gakupo era arrivata con qualche secondo di ritardo: - In ogni caso, sarebbe più corretto chiamarla katana. -
Len si voltò verso di lui: - Katana! - ripeté, in un trillo, per poi avvicinarglisi: - E voi state scrivendo in katakana! - indicò i fogli.
Sul volto di Gakupo apparve un'espressione disorientata. Poi lo vide scuotere la testa: - No, oujo-sama. Questi sono kanji. E temo che la katana e i katakana non siano esattamente la stessa cosa. -.
Len ridacchiò, aggirando il tavolo. Non c'erano altre sedie oltre a quella già occupata da Gakupo, ma la parte superiore del tavolo era libera; vi si sedette, ruotando appena in modo da poggiarvi anche una gamba piegata, l'altra a terra - non era sicurissimo che il tavolo non si sarebbe ribaltato. E, nel caso, non sarebbe stato carino. No, non lo sarebbe stato affatto.
- I cinque minuti sono passati, oujo-sama. -
"Siete tornato all'erta, vero?"
- Oh, vi prego! - si portò una mano alle labbra, lo sguardo più lacrimoso che poteva: - Altri due minuti! Ero già più tranquilla, me l'avete fatto tornare in mente! Siete cattivo! -
Gakupo sospirò, gli occhi al soffitto: - Che siano due minuti, però. -
- Sì... -
"Ovviamente."
Rimase immobile, limitandosi ad osservare l'altro intento a scrivere. Tracciava i segni più lentamente. Molto più lentamente.
"Sì, siete decisamente in allerta." e il tavolo sembrava reggerlo bene. Tirò su anche l'altra gamba, facendosi appena più avanti. Il tavolo rimase fermo. La sua preoccupazione più grande scomparve.
- L'altra volta eravate più veloce. -
- Prego? -
Len sorrise: - A scrivere. Ero davvero stupita di quanto foste veloce a scrivere quei cosi complicati come se nulla fosse. Ora siete molto più lento. -
Gakupo fermò la penna, alzò gli occhi: - L'idea sarebbe che anche voi impariate a scrivere così veloce, oujo-sama. -
- Ma io so scrivere. - il suo sorriso si accentuò.
- In kanji, oujo-sama. -
- Oh... - portò di nuovo la mano alle labbra: - Sarebbe bello, sì. - abbassò la mano: - Però non mi avete detto perché stasera siete più lento. -
- A me non sembra ci siano differenze dal solito. - il suo sguardo era tornato freddo, la voce atona: - E non vedo perché dovrebbe essere altrimenti. -
- Avete ragione. - sospirò, abbassando gli occhi. Quando li rialzò, Gakupo lo stava ancora guardando, impassibile.
Ricambiò con un sorriso: "Non posso più chiedervi altri minuti, veeero?"
Quello sguardo rimase immutato, gelido.
"Parrebbe proprio di no."
Fece scivolare le mani sul legno, si chinò verso di lui.
Non era potuto scappare, né aveva potuto scostarsi.
Ma aveva potuto premergli due dita sulle labbra, fermandolo a pochi centimetri da lui.
"... riconosco la vostra inventiva, Gakupo-sensei.".
- E' tardi, oujo-sama. -
"Quindi è questa, la sua pelle...?" non aveva mai potuto neppure sentire quella delle mani, sempre coperte dai guanti.
- E' ora che torniate nella vostra camera. Il vento ha smesso di soffiare. -
"E' calda..." forse anche la sua lo era.
Schiuse le labbra, catturò le falangi con i denti, ne accarezzò la pelle con la lingua.
Non aveva un qualche sapore particolare. Ma era piacevole sentirla. Tanto piacevole.
Alzò lo sguardo, verso l'altro.
Gli occhi spalancati, il colorito pallido. Sembrava sconvolto.
Le dita gli furono strappate dalle labbra, facendolo quasi cadere in avanti e costringendolo a frenarsi con le mani, per poi passarsene una sulla bocca bagnata.
Quando tornò a guardare Gakupo, notò che aveva ripreso colore. Molto colore. Anche più del solito.
L'espressione, forse, sarebbe voluta essere fredda, ma quegli occhi sgranati e quella voce incrinata da una strana nota rovinavano l'effetto: - Spudorata fino a questo punto. -
Len ridacchiò. Tornò seduto, stavolta verso di lui, le gambe davanti al busto, piegate: - E' colpa vostra. - sorrise: - Se non foste così ritroso, sarebbe tutto più semplice. -
Gli occhi erano tornati freddi: - Tornate nella vostra camera, oujo-sama. -
- Non lo farò. - piegò appena la testa di lato: - E voi lo sapete benissimo. -
- Allora vi ci porterò io. -
- Non lo farete. - raddrizzò la testa: - E voi lo sapete benissimo. -
- Cosa ve lo fa credere? -
- Non lo credo. Lo so. -
Silenzio.
Rimase a guardare Gakupo negli occhi, guardò la sua espressione impassibile.
Poi le labbra dell'altro si curvarono verso l'alto, il suo sguardo mutò: sembrava divertito, in modo quasi sinistro.
- Bene, oujo-sama. - un tono che non gli aveva mai sentito, come se fosse velenoso. Gakupo aprì le braccia, lasciandosi andare contro lo schienale: - Che ne dite di giocare a carte scoperte? -
Soddisfazione. Finalmente, sembrava aver capito.
Len sorrise, ancora quella sensazione piacevole sulla lingua: - E' ciò che avrei voluto fare fin dall'inizio. -
- E dunque, oujo-sama... - la voce dell'altro era diventata un sussurro tagliente, lo sguardo derisorio: - ... qual è il vostro obiettivo? -
"... eh?"
Non potè impedirsi di aggrottare la fronte: - ... credevo fosse... ovvio. -
"Forse non ha capito come speravo. Eppure credevo di essere stata esplicita..."
- Lo è. - lo sguardo di Gakupo era fisso nel suo: - Ma ci sono tante ovvietà. Voi a quale puntate? -
- ... -
Sbattè le palpebre. Qualcosa non tornava.
- ... eh? - stavolta non si trattenne dal dirlo.
- Avevamo detto di giocare a carte scoperte, oujo-sama. -
- Voi che carte credete io abbia? - anche solo per capire cosa stesse succedendo, se si fosse perso qualche frase.
Il sorriso di Gakupo si accentuò: - Non sono sicuro di quale sia quella esatta. - mormorò: - Non capisco in quale senso vogliate approfittarne. -
"... eh?"
- La prima possibilità implicherebbe che la vostra famiglia sia in condizioni economiche veramente disastrose. - esordì l'altro, le mani riportate sul tavolo: - Questo potrebbe spingervi ad incastrarmi in un matrimonio con voi. -
"... eh?"
- In che modo, confesso di non averne idea. - chiuse i libricini, per poi spostarli di lato, assieme ai fogli: - Potreste esigere un matrimonio riparatore sia cercando di rimanere incinta sia facendovi deflorare e poi accusarmi di avervi compromessa. -
"... eh?"
- Oppure, per motivi che a me non sovvengono, avete intenzione di infangare me, se non tutta la mia famiglia. E farlo accusandomi di avervi compromessa. - tornò contro lo schienale: - Allora, oujo-sama? A cosa mirate? -
- ... -
"Ma io, veramente, volevo soltanto..."
Scoppiò a ridere, la mano corse a coprirsi la bocca. Non era riuscito a trattenersi. Probabilmente non era una risata molto elegante, ma era prossimo al soffocarsi; dovette portarsi una mano alla pancia, iniziava a far male. Quando riuscì a riprendersi, si passò i dorsi delle mani sugli occhi umidi.
- Sul serio, Gakupo-sensei? - una risata residua: - Davvero avete pensato cose del genere? -
"E' per questo che era così in allerta?"
L'espressione dell'altro si era intaccata: per quanto sembrasse identica a prima, riusciva a vedervi un'ombra di incertezza, di confusione.
- Oh, mi dispiace distruggere la vostra autostima. - sorrise: - Ma temo che tutto il vostro patrimonio, per me, valga come un paio di scarpe consumate e incrostate di fango. -
Lo vide assottigliare lo sguardo. Sembrava sospettoso.
- E poi... - gli si avvicinò appena: - ... non illudetevi di essere così importante. - si tirò indietro una ciocca di capelli: - Tra l'altro, se davvero volessi infangare qualcuno, non mi abbasserei certo ad usare il mio corpo. -
- Se davvero è come dite... - parlava piano: - ... allora cos'è che volete? -
- Ve l'ho detto. - sorrise di nuovo: - E' ovvio. -
- Pare non lo sia, invece. -
- Sì che lo è. - allungò una mano, fino ad accarezzargli i capelli. Erano serici come sembravano: - E voi l'avete capito da tempo. Quindi perché continuare questa farsa? -
Il polso finì serrato nella mano dell'altro, per poi essere liberato solo una volta allontanato.
- Ovviamente, io vi crederò sulla parola. - Gakupo si alzò, allontanandosi di qualche passo, dandogli le spalle.
Len ne approfittò per distendere le gambe - iniziava a sentire i crampi -, per poi posare i piedi sul sedile della sedia.
- Non m'interessa che voi mi crediate o meno. - disse, tranquillo: - Ciò non toglie che il mio obiettivo non riguardi nessun altro all'infuori di me e voi. -
- Se siete così ansiosa di darvi ai piaceri lascivi, potreste benissimo prendere uno dei vostri servitori. -
- Troppo grandi. Troppo insignificanti. Troppo ignoranti. Troppo brutti. Troppo antipatici. Troppo poco interessanti. Nient'affatto voi. -
Gakupo si voltò verso di lui. Di nuovo quell'espressione quasi disgustata, ma che di disgusto non aveva niente. Era quasi sofferente.
- Adesso, lasciate che vi dica quali sono le mie fantomatiche carte. - sorrise: - Ciò che voglio non è uno qualsiasi. Ciò che voglio è una persona soltanto. E sto cercando di prendermela da tempo, per quanto lei finga di non vederlo. - alzò appena il mento: - Non m'interessa nient'altro. Né che ciò che voglio mi creda. A me interessa solo avere ciò che desidero. -
Un accenno di sorriso, più simile ad una smorfia: - Mi verrebbe da chiedervi perché vi siate intestardita con me. -
- Perché sì. E' una risposta di vostro gradimento? -
- No. -
- Non m'interessa. - piegò la testa di lato: - Del resto, anche voi desiderate me. -
Lo vide sgranare gli occhi, schiudere le labbra.
Era decisamente piacevole avere una conferma tanto palese.
- State vaneggiando, oujo-sama. -
- Se davvero voi non voleste ciò che voglio io... - mormorò: - ... non sareste rimasto ad ascoltarmi per tutto questo tempo, Gakupo-sensei. -.
Calò il silenzio.
L'espressione sconvolta di Gakupo era semplicemente meravigliosa.
- Ho chiuso la porta a chiave. - cantilenò Len, in un sussurro: - Prima. Quando sono entrata. - sorrise: - O forse ve ne siete accorto e vi sta benissimo così? -
- E' ridicolo, oujo-sama. - lo vide serrare i pugni: - Ho assecondato i vostri capricci per troppo tempo. - un sospiro: - Scendete da quel tavolo e tornate nella vostra camera. - la voce sembrava tremargli, lo sguardo somigliava a quello che gli aveva visto tempo addietro, quando-
- Forse volete i miei bottoni? -
Gakupo si bloccò: - Prego? -
- I miei bottoni. - ripetè, piano: - Mi era parso vi piacessero i bottoni del mio vestito. O forse ciò che vi piace è infilare bottoni nelle asole? -
- State scherzando con il fuoco, oujo-sama. - la voce si era abbassata, lo sguardo assottigliato: - Voi non avete idea di quello che state facendo. Andatevene, prima che- -
- Sensei wa oshaberi desu. -
Quell'espressione spiazzata.
Len sorrise. Avevano chiacchierato fin troppo.
Qualcosa lo soffocò.
Precipitò, sentì qualcosa tra le ginocchia.
Quando realizzò, il cuore rimbombò nelle orecchie, facendolo rabbrividire.
Un bacio. E la mano di Gakupo dietro la testa, per non fargli sbattere la nuca contro il tavolo, l'altra mano gli aveva immobilizzato un polso.
Non aveva previsto che si sarebbe ritrovato con le labbra schiuse e il respiro mozzato, non aveva previsto che si sarebbe ritrovato sdraiato sul tavolo con le ginocchia troppo distanti tra loro, ma non gliene importava niente.
Ricambiò il bacio, passò le dita tra quei capelli morbidi, fino ad arrivare alla nuca, lo trasse a sé.
L'altro, però, si scostò appena, permettendogli di riprendere fiato. Sentiva il viso rovente. Forse anche lui aveva quegli stessi occhi lucidi.
- C'è un limite, oujo-sama. - lo sentì sussurrare: - Oltre quel limite, non si può più tornare indietro. -
Sorrise: - Sarebbe un problema... - la mano scese ad accarezzargli la guancia: - ... se non l'avessimo già superato. -.
Una luce di sorpresa in quegli occhi chiari. Poi un sorriso strano, a metà tra l'esasperato e il divertito.
Un attimo dopo, quelle labbra erano di nuovo sulle sue.
Si sentì tirare su, seduto, la mano dell'altro che scendeva lungo il collo, sciogliendo i capelli, il collarino, sfilando i bottoni; per un istante, si sentì abbracciato, non percepì più il legno sotto di sé; capì quando si ritrovò sdraiato su una superficie molto più morbida e fredda, tanto da farlo rabbrividire più di quanto già non stesse facendo, la parte superiore del vestito finita attorno alla vita.
La sensazione della mano prima sul polpaccio, poi sulla coscia, era troppo vivida perché ci fosse della stoffa in mezzo, realizzò vagamente di non avere più una calza, la mente più concentrata sul desiderio di liberarsi del corsetto - aveva sentito l'altra mano di Gakupo accarezzarlo, anche se gli era parso quasi esitante.
Aveva caldo. Più di quanto ne avesse avuto in quei giorni. Più di quanto gli era mai capitato di provarne. E neppure le coperte fredde erano riuscite a dargli sollievo - anzi, sembravano essere diventate roventi anche loro.
Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non sapeva cosa, non aveva idea di dove mettere le mani, le braccia che sembravano bloccate, qualcosa nel petto che voleva uscire con violenza, premendo contro la gola riarsa, lasciandosi trascinare dai sospiri, finché riuscì a infrangere le labbra, uscendo assieme alla voce.
Gakupo si scostò da lui, gli occhi di colpo sgranati.
"... ah."
Realizzò cos'era stato a farlo gemere. E realizzò anche dove si trovasse la mano dell'altro, quella che prima era sulla sua gamba.
Strinse i denti: "... ah... quello...".
- C'è... - la voce di Gakupo giunse alle sue orecchie bassa, spezzata dal respiro troppo veloce: - ... qualcosa che dovete dirmi...? -
Serrò i pugni. Inspirò, cercò di mettere insieme le parole, era troppo difficile: - Non ora. -
Quegli occhi chiari. E poi quella voce, tanto vicina: - Non ora. -.






Note:
* "Ohayou gozaimasu": "Buongiorno", formale.
* Il retro del collo, con un accenno di schiena, sono considerati, soprattutto in Giappone, molto erotici.
Diciamo che quella zona, scoperta, è un po' l'equivalente delle gambe nude per un inglese del 1800. *Eh, Len, Len, finisce sempre così... (?) *




Argh, alla fine il ritardo è più che raddoppiato! °A° *Sembrava troppo strano...*

*dà colpo di tosse e cerca di ricomporsi*
Spero abbiate passato una bella Pasqua! ^^

E dunque, dooove eravamo rimasti? Ah, sì, all'ennesimo flashback, stavolta dal punto di vista di Len. *O*
Dopo il capitolo precedente, questo è più idiota scemo delirante pirla leggero. U.U
Stavolta Len si comporta come una brava fanciulla innocente (?), fa accurate ricerche in libri altamente attendibili (??) e palesa una spiccata dote nell'arte dell'ideare piani (???); da parte sua, Gakupo ha opposto strenua resistenza (...?) ma, alla fine, ha dimostrato di avere una precisa scala di priorità. (!)

E tutto torna al Fluff.
Tipo.
Ah, il flashback dura quattro capitoli. *fugge*

Sì, dopo il capitolo precedente, forse è un po' strano trovare un capitolo idiota. Ma tornerà tutto. U.U (?)
Quel che fa meno strano è il rendersi conto che certi cliché mi piacciono. Già.
(Ah, piccola nota: la frase "Chissà perché, allo studio non dicevano mai di no" me l'ha involontariamente (?) suggerita Tayr Soranance Eyes. U.U (!))

Spero che questo capitolo vi sia stato gradito. ^^
Se avete consigli o critiche - soprattutto per quelle scene che "ci ho messo un'eternità a scriverle" -, dite pure. ^^
  
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