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Autore: Paper Town    24/04/2014    2 recensioni
"Un ragazzo si sedette accanto a lei. Non gli prestò molta attenzione, ma gli diede un’occhiata con la coda dell’occhio.
Occhi scuri, scurissimi, pelle mulatta, capelli neri, una faccia decisamente dolce. Una cascata di braccialetti al polso. Felpone nero, jeans e Vans dello stesso colore.
Potevano essere gemelli.
«Ciao, io sono Calum.» le disse il razzo accanto a lei, porgendole svogliatamente la mano. Gia si girò, ma solo perché era vestito di nero e perché sembrava farlo solo per un fatto di cortesia quel gesto.
«Gia.» si osservarono, e lei decise che se proprio qualcuno dovesse sedersi accanto a lei, era felice che fosse stato proprio Calum a farlo. Non sembrava particolarmente interessato all’idea di parlare, e questo era solo un altro punto a suo favore."
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2.064 words
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calum Hood, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Illusion.
 
A te che sei l’unico al mondo,
l’unica ragione, ma che sei anche molto stronzo.

 
 
Gia fissava qualcosa fuori dal finestrino della macchina in movimento. Sua madre era al volante e cercava di intavolare una conversazione con lei, che però non sembrava volerla ascoltare.
Le cuffiette erano premute con forze nelle orecchie della ragazza con i capelli rossi, mentre i suoi occhi celesti guardavano le goccioline scivolare sul finestrino.
«Gia! Gia, per l’amor del Cielo! Rispondimi!» aveva urlato esasperata la madre. Lei aveva sentito.
Non rispose.
 
 
 
Gia aveva sempre odiato la sala d’aspetto. La trovava dannatamente fredda e triste.
Non era una malata, lo sapeva, lo aveva anche detto, ma nessuno l’aveva ascoltata. Come sempre, del resto.
«Tyson.» aveva detto la segretaria. Era una donna graziosa, la pelle scura, i capelli neri, vestita sempre con lunghe gonne nere. Gli occhiali sul nasino scivolavano sempre troppo in avanti.
I suoi occhi truccati pesantemente guardarono Gia Tyson mentre si alzava dalla poltroncina su cui si era abbandonata e camminava verso la porta dietro la quale si trovava il suo medico, il suo psicologo Dan Black, soprannominato da lei “Il Signore Oscuro”.
Quando Gia aprì la porta, l’uomo stava sfogliando distrattamente dei fogli con tante scritte sopra.
Gia non lo guardò, senza vederlo davvero. Si sedette senza dire nulla sulla poltroncina posta davanti alla scrivania in legno di ciliegio.
Il Signore Oscuro, quando la notò, le rivolse un debole sorriso, uno di quelli appena accennati, e posò i fogli che stava guardando nel fermacarte. Cliccò qualcosa sul computer bianco che aveva davanti e prese il solito block notes e la solita penna mangiucchiata.
«Allora, Gia. Com’è andata questa settimana?» e Gia continuò a fissare le sue Vans nere. Le trovava così maledettamente belle ed interessanti. Beh, sicuramente più interessanti di quell’uomo barbuto davanti a lei.
Il Signore Oscuro sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
Ma cosa vuoi da me? Vecchio bacucco.
Il medico non era esattamente vecchio, ma nella mente di Gia chiamarlo in quel modo aveva un senso.
«Allora Gia. Mi dici come ti posso curare se tu non mi parli?» e Gia non aveva alzato lo sguardo, ma aveva solo sbuffato e aveva stretto la mani a pugno, schiudendo leggermente la bocca rosata.
«Non devo essere curata.» l’amore non è una malattia. E Il Signore Oscuro aveva sospirato, ancora. Iniziava ad essere noioso e ripetitivo. Iniziò a mordicchiare il dietro della penna, per poi appuntare qualcosa su quel blocchetto bianco.
«Gia, dobbiamo parlare per un’ora, e tu lo sai. Non credi che sia meglio collaborare?» le chiese l’uomo sporgendosi un po’ più avanti sulla sedia, poggiando poi i gomiti sulla scrivania. La penna nera rotolò, fino a cadere per terra, davanti le Vans di Gia. Lei si limitò a calciarla verso la scrivania, fissando l’oggetto rotolare e ascoltando il rumore metallico che faceva.
Il medico si alzò, camminando attorno alla poltrona di Gia, innervosendola parecchio. Represse il nervosismo. Il medico prese la penna, appoggiandosi con la schiena alla scrivania, fissando la ragazza che cercava di coprire in tutti i modi il volto con i lunghi capelli.
«Allora Gia. Noi non abbiamo alternative. Quindi, per il tuo bene, lasciati curare.» e Gia alzò il volto, le labbra diventate una sottile linea bianca.
«Curarmi da cosa?! Se me lo dici forse ti aiuto!» i pugni nella tasca della felpa si strinsero di più, davanti alla faccia sconvolta del dottore. E Il Signore Oscuro sospirò ancora, sedendosi dietro la scrivania.
«Gia. Quello che hai tu può essere catalogato sotto diversi nomi. Depressione. Ma so che c’è qualcosa di più. Ma se non parli, mi dici come posso capire che cosa c’è in più?» Gia lo fissava con occhi impassibili. Già le mancavano le sue cuffiette bianche e la sua musica sparata a tutto volume.
«E se io non  volessi che tu lo capissi?» se volessi che fosse qualcun altro a farlo? E il dottore allora continuò ad osservarla, anche quando abbassò lo sguardo. Prese a giocare con il buco che c’era nelle sue calze nere, ignorando bellamente il dottore per tutta l’ora successiva.
 
 
«Gia, perché non parli con il dottore?» Gia roteò gli occhi al cielo, continuando a mangiare le sue verdure. Prese un bicchiere d’acqua e se lo scolò in un sorso. La madre era esasperata, ma infondo, cosa ne poteva capire di quello che aveva lei?
«Gia, rispondi a tua madre.» l’ammonì il padre. E Gia si alzò, facendo strusciare per terra la sedia. Le sue Vans nere fecero un leggero rumore mentre saliva le scale. Chiuse la porta della sua stanza, accendendo il suo stereo, iniziando a sentire la riproduzione casuale del suo Ipod.
«Time grabs you by the wrist, directs you where to go. So make the best of this test, and don’t ask why.»
Lanciò dall’altro capo della stanza le Vans, si tolse felpa e I pantaloncini, seguiti dalle calze. Prese la maglietta che usava per dormire e se la inifilò in silenzio, mentre le note emesse dalla chitarra che suonava dallo stereo l’accompagnava nel sonno.
 
tre mesi prima
La musica era finita, il sole era sorto. E Gia dovette alzarsi, per andare a scuola.
Pettinò i suoi lunghi capelli e truccò di nero i suoi occhi. Jeans neri, felpa nera, anfibi neri ed era pronta. Afferrò il suo ipod, le cuffiette e si diresse camminando lentamente verso la scuola.
Appena arrivata rimase al sole caldo, in piedi, ad ascoltare la musica che suonava ad un volume decisamente alto nelle sue orecchie.
La campanella suonò. Lo capì dalla massa informe di studenti che camminavano verso l’entrata.
Entrò nella sua classe, prendendo posto al banco in cui ormai si poteva dire che avesse messo il nome.
Un altro ragazzo si sedette accanto a lei. Non gli prestò molta attenzione, ma gli diede un’occhiata con la coda dell’occhio.
Occhi scuri, scurissimi, pelle mulatta, capelli neri, una faccia decisamente dolce. Una cascata di braccialetti al polso. Felpone nero, jeans e Vans dello stesso colore.
Potevano essere gemelli.
«Ciao, io sono Calum.» le disse il razzo accanto a lei, porgendole svogliatamente la mano. Gia si girò, ma solo perché era vestito di nero e perché sembrava farlo solo per un fatto di cortesia quel gesto.
«Gia.» si osservarono, e lei decise che se proprio qualcuno dovesse sedersi accanto a lei, era felice che fosse stato proprio Calum a farlo. Non sembrava particolarmente interessato all’idea di parlare, e questo era solo un altro punto a suo favore.
La professoressa fu in classe in pochi minuti, annoiando tutti i suoi studenti con una monotona lezione di Fisica.
 
 
 
Due mesi dopo.
Il “rapporto” di Calum e Gia era rimasto lo stesso, durante quei due mesi, o forse era cambiato un po’.
Andavano d’accordo. Sempre se per andare d’accordo si può intendere stare nella stessa stanza, tornare a casa insieme e dirsi “ciao”.
«Ciao.» le aveva detto anche quella mattina Calum.
«Caio.» aveva risposto lei. Si erano abbracciati, e poi avevano “preso parte” alla lezione.
 
L’ultima campanella li assordò con il suo fastidioso rumore e loro iniziarono ad avviarsi verso casa di Gia, come ogni giorno.
«Vieni con me.» le aveva detto Calum, prendendole un polso.
«Ma che fai? Lo sai che mamma si incazza poi.» ma Calum le aveva solo sorriso, non gli andava di parlare. Gia allora si era lasciata guidare. Erano arrivati in un parchetto. Era piuttosto piccolo e l’erba era abbastanza alta. Calum corse tra l’erbaccia, trascinando Gia con sé. Rideva, sembrava un bambino.
Poi la lasciò, tuffandosi in un cespuglio. Ne riemerse con dei fiori e dei rametti tra i capelli.
«Sei proprio un coglione..» gli sussurrò Gia, mentre lui prendeva dei fiori dai suoi capelli e li spostava tra quelli di lei. Si sedette per terra, trascinando con sé Gia, che gli cadde addosso.
«Sei bellissima, facciamoci una foto.» le disse, estraendo il cellulare dalla tasca. La fece accomodare sulle sue gambe incrociate, abbracciandola da dietro.
Quando comparvero insieme sullo schermo dell’Iphone Gia non potè fare a meno che arrossire.
Calum poggiò la guancia su quella di lei, lanciando il cappellino nero che indossava da qualche parte nell’erba alta. Scattò tante foto.
Sembrava proprio un altro.
Si tolse la felpa, e Gia lo imitò, faceva proprio caldo. Calum si sdraiò, sembrava in pace con il mondo. Gia si sdraiò, poggiando la testa sulla sua pancia. La mano di Calum andò ad accarezzarle i capelli rossi, tirandoli anche un po’.
 
 
Quando rincasarono era ormai sera. La madre di Gia, però, non gli chiese nemmeno che cosa avessero fatto tutto quel tempo. Li lasciò salire in camera senza dire una parola.
«Sono stata bene, davvero Cal.» gli sussurrò, una volta chiusa la porta. Lui le sorrise debolmente, avvicinandosi alla ragazza che stava ferma in mezzo alla stanza.
«Forse.. dovremmo rifarlo qualche altra volta.» le sorrise debolmente, abbassandosi in modo da far toccare le loro fronti. Gia fissò quegli occhi così profondi, così belli, così liquidi. E Calum fece sfiorare le loro labbra, sorridendo. Poi se ne andò, lasciandola immobile, senza parole, in mezzo alla sua stanza, mentre una canzone dei Green Day suonava nello stereo.
 
 
Un mese dopo
Gia l’aveva visto. L’aveva visto baciare un’altra. Una colorata. Come poteva avergli fatto una cosa del genere?
Nella classe di Fisica sedeva da sola al banco, quello “con il suo nome sopra”. Calum arrivò,  fissandosi le Vans. Quando si sedette accanto a lei, aveva già capito che lei aveva visto.
Non si dissero ciao quel giorno. Né il giorno successivo.
Gia credeva di essersi innamorata di quel ragazzo così bello, quanto oscuro e misterioso.
Ma aveva capito che era solo una fregatura.
 
 
 
 
 
La macchina sfrecciava per le strade deserte di Sydney.
Come al solito Gia ignorava la madre che continuava a parlare a vanvera. Perché non capiva che lei voleva solo essere lasciata in pace?
La stessa stanza d’attesa, la stessa poltroncina e la stessa fastidiosa segretaria.
«Tyson.» era così brutto e fastidioso il suono del suo cognome detto da quella. Ma si alzò lo stesso, le mani sempre nelle tasche.
Chiuse la porta della camera dietro di sé e un buon odore di caffè le giunse alle narici.
«Ciao, Gia.» fece un cenno del capo. Quella mattina l’aveva rivisto. Camminava con quella colorata. Lui, che era il nero fatto persona.
«Salve, Signore Oscuro.» disse Gia leggermente divertita. Cosa le importava più? Il medico corrugò le sopracciglia, ma lasciò scorrere, scuotendo la testa. Gia si sedette, iniziando a giocare con il bordo del pantaloncino sfilacciato.
Passò una mano sul grande tatuaggio che aveva sulla coscia.
Destroy what destroys you.
Sorrise. Come poteva distruggerlo? Lui, che le aveva rapito il cuore.
Il dottore vide quello che stava facendo, e sorrise.
«Che significato hanno quei tatuaggi per te, Gia?» le domandò, spiazzandola. Nessuno le aveva mai fatto quella domanda. Ma fu felice di sentirla.
«Se non mi interrompe e non lo dice a nessuno, glielo posso dire, se le va.» Gia alzò il viso, vedendo Il Signore Oscuro che la guardava sorridendo. E lei lo vide davvero. Vide che poteva fidarsi, vide che forse lui poteva essere un suo.. amico.
«Questo – accarezzò delicatamente il tatuaggio sulla coscia, quello con scritto “Destroy what destroys you” – questo l’ho fatto quando il mio ragazzo mi ha lasciato. Dovrei distruggerlo, ma come posso farlo? – sospirò, alzando la manica della felpa. – quest’altro – indicò quello con scritto “so take the photographs, and still frames in your mind” – questo è una frase di una canzone dei Green Day.. L’ho fatto quando mi ha lasciata, perché mi rimangono solo le foto. – un altro sospiro, l’altra manica della felpa tirata su. – quest’altro – un’altra frase “For what it’s worth it was worth all the while” – sempre della stessa canzone. Sempre quando mi ha lasciata. – abbassò il calzino, scoprendone un altro “Tattoos of memories”, sempre della stessa canzone – beh.. stessa storia.» continuò così per diverso tempo, quando poi finì, il dottore la lasciò risedere e poi le pose un’altra domanda.
«Perché vi fate i tatuaggi? Non fa male?» le chiese, proprio come un amico, non come dottore. E Gia fu felice di rispondere. Fu felice che l’argomento non fosse lei, ma qualcos’altro.
«Ovvio che fa male. Ma fa male tanto tempo dopo. Lo ricorda quel tatuaggio? Sono tatuaggi di ricordi. E sono quelli che fanno più male.» sussurrò. E il dottore sorrise.
«Cos’è l’amore, per te, Gia?»
«Un’illusione.» e il dottore capì la “malattia di Gia”. Lei era malata d’amore.
«Perchè?»
«Non chiederti perché, non è una domanda, ma una lezione imparata nel tempo.» recitò a memoria Gia la parte centrale di quella canzone tatuata per tutto il suo corpo. Era sicura. Lei non si sbagliava. Mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

writer
salve a tutti. *fa ciao ciao da un mare di lacrime*
amo questa OS.
NATURALMENTE dato che è la prima che scrivo su Cal, doveva per forza essere uno stronzo senza cuore e cattivo e brutto e brutto e cattivo u.u
Mi perdonerete? Boh.
Comunque la canzone citata dappertutto è Time of Your Life dei Green Day. Ascoltatela se non l’avete già fatto, perché è davvero bellissima.
Beh spero che questa OS vi sia piaciuta, perché a me tanto #aw #yay
Beh, evaporo.
Xx

 
   
 
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