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Autore: _Angel_Blue_    26/04/2014    22 recensioni
E se i draconiani fossero dei normalissimi adolescenti senza nessun potere che hanno una vita come qualsiasi altro giovane della loro età? Se anche i loro nemici fossero degli esseri umani? Cosa succederebbe?
Sofia era una ragazza normale, le piaceva leggere libri, stava sempre chiusa in casa dove George, con pazienza infinita, le faceva da professore. Forse non aveva degli amici ma perlomeno la sua vita era tranquilla e non doveva pensare ai veri problemi della gioventù.
Poi tutto cambiò, così repentinamente che non ebbe neanche il tempo di protestare o evitare il continuo susseguirsi di catastrofi. Tutto si capovolse e si ritrova di fronte ad una realtà molto più dura da accettare, costretta a dover frequentare una vera scuola per “socializzare” con gli altri.
Con addosso un uniforme orribile, un carattere burbero e sgarbato, il prof decise di iscriverla nell'istituzione Dragoni, dall'apparenza normale quando qui è tutto tranne che ordinario. E tra una lezione con insegnanti impossibili, tra un bacio qua e là, tra segretarie troppo rigide, pettegolezzi e party notturni, Sofia scopre un mondo del tutto nuovo, un mondo che ha sempre voluto evitare, che cambierà la sua vita in una una frenetica corsa verso l'adolescenza.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Fabio, Nidhoggr, Nuovo personaggio, Sofia
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'An Impossible Love'
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P r o l o g o
 
Caro diario,
La mia vita è un disastro! Il professore ha deciso di trasferirsi e ora mi ritrovo a Roma in una vecchia casa abbandonata situata di fronte al lago Albano, lontana dalla civilizzazione, dovrò andare anche a scuola e la mia vita ricomincia daccapo. Perché per una volta buona non me ne esce una giusta? Sono veramente arrabbiata malgrado George non ne ha la colpa, dopotutto anche lui ha dovuto rinunciare alla sua vecchia routine, non perché volesse, ma perché è stato costretto dal lavoro che fa.
Domani è il mio primo giorno nell'Istituto Dragoni e tremo come una foglia al solo pensiero. Dovrò camminare molto per arrivarci, avrei preferito prendere un bus o meglio un taxi nonostante il professore è stato irremovibile al riguardo, pensa che dovrei camminare, così possiamo risparmiare soldi. Ma quali soldi? Ne abbiamo così tanti — o meglio, li ha lui — che non basterebbe neanche un'esistenza intera per spenderli tutti! Per non parlare dell'eredità di mio padre (sono ancora minorenne ma una volta raggiunta la maggiore età potrò usarla) e quella di mia madre, deceduta l'anno scorso.
Perché deve essere così ingiusto? Ho cercato di persuadere Thomas, il nostro maggiordomo, e convincerlo a parlare con il professore. Ovviamente non ci sono riuscita, anzi, con un sorriso divertito mi ha semplicemente detto: «Vedrai che cambiare un po' d'aria non farà del male a nessuno e ti piacerà il nuovo appartamento, chissà, magari ti farai nuovi amici e poi non è così male andare a piedi».
Quali nuovi amici se non ne ho mai avuto uno! È sempre stato il professore a occuparsi di me ed è grazie a lui se ho un'eccellente formazione ma ora, improvvisamente, mi iscrive in una scuola privata, un territorio del tutto esordiente per me, dove ci sono centinaia di ragazzi con cui dovrò socializzare. Non sembrerebbe eppure sono una ragazza alquanto timida e sono certa che al massimo potrò fare amicizia con gli stessi insegnanti, assicurando agli altri che non sono altro che una piccola secchiona. Che depressione!
Oltre la rabbia, ho anche tantissima paura. E se non mi accettano? Se mi discriminano? Ho visto troppi film americani da poter comprendere che una come me non sarà mai la benvenuta. Sicuramente non ho quelle sembianze da Top Model, i miei capelli ricci e sempre disordinati non sono di gran aiuto, specialmente con quel colore rosso fuoco e come ciliegina sulla torta, le mie lentiggini guastano il mio già poco attrattivo aspetto.
Dopo la morte di Andrea, mio padre, sono stata affidata a George che mi ha cresciuto come sua propria figlia, assicurandosi che avessi tutto ciò che desideravo e fossi felice. Sebbene, con tutta l'onestà del mondo, non ho mai ritenuto i soldi di vitale importanza, almeno fino ad oggi quando ho scoperto che devo percorrere cinque chilometri la mattina per raggiungere quella facoltà. Non che mi dispiaccia, sono abbastanza in forma per passeggiare un po'... Ma non sempre! Non sono Bolt e neanche un robot infaticabile! Sono un essere umano, diamine! Le cose vanno da male in peggio.
Quanto vorrei ritornare a Matera, nella mia amatissima stanza e sdraiarmi nel mio letto sempre occupato dai libri di Tolkien, C.S. Lewis, J.K. Rowling e George Martin! Si, sono una nerd che ama leggere e questo toglierà vari punti alla mia reputazione, sopratutto se voglio farmi qualche "nuovo amico".
Proprio in questo momento mi manca tantissimo la mamma! Non abbiamo mai avuto un bel rapporto ma all'età di quindici anni ci siamo ritrovate; io l'ho perdonata per avermi abbandonato e tra noi nacque una bella amicizia che ora sento la mancanza. Lei aveva un'altra famiglia nel Regno Unito, un marito e una figlia poco più piccola di me. L'anno scorso venne a Matera per farmi una visita ma fu investita da una macchina mentre guidava; purtroppo non si salvò e ciò bastò a farmi cadere in mille pezzi, dilaniata dal dolore. Beatrice era il suo nome ed era una bellissima donna, fragile, elegante e sinuosa, diversamente da me che sono goffa e impacciata. Non diventerò mai come lei.
Per ora incrocio le dita sperando che domani la mia giornata fili liscia senza intoppi o imprevisti, la mia mondanità è già sottosopra così com'è. Ora devo proprio andare, Thomas ha preparato una carbonara che metterebbe invidia persino a Gordon Ramsey, domani ti aggiornerò sugli ultimi avvenimenti,
La tua,
Sofia, ragazza di diciassette anni che sta sul punto di avere una crisi.
 
 
La vita è ciò che ti accade quando
sei tutto intento a fare altri piani.
— John Lennon
 
1
~ S o f i a ~
 
«Allora, Sofia, hai preso tutto?» mi chiese con voce gentile il professore, nonostante fossi troppo occupata a ripetere mentalmente tutti gli accessori che mi sarebbero serviti a scuola: quaderni, penne, matite e altro. Ero così assorta nei miei pensieri che quasi non sentii la domanda di George, così sussultati spaventata quando percepii una mano forte e calda soffermarsi sulla mia spalla. Non potevo farci nulla se ero una fascia di nervi; ogni cellula del mio corpo era in fermento ed avevo una gran voglia di svenire e fingermi morta per evitare una grandissima e pericolosissima catastrofe: la scuola.
Siccome il professore ha avuto la brillante idea di iscrivermi in un'istituzione peculiare, per il resto dei miei giorni dovevo indossare un'uniforme assai raccapricciante: una gonna verde smeraldo che arrivava poco più a metà polpaccio, una maglietta bianca con lo stemma del collegio sul lato destro — ovvero una specie di drago — e delle scarpette nere simili a quelle che usano le ballerine.
Quando notai che mi trovavo a mio agio indossando quegli indumenti quasi mi blocco dallo sbalordimento e a sconvolgermi fu sopratutto trovare comoda quella gonna, quando io in realtà le odiavo. Probabilmente stavo impazzendo.
«Sofia? Ci sei? Mi sembri troppo distratta» disse George.
Ritornai con i piedi a terra quasi immediatamente e mi affrettai a rispondere. «Si, credo di aver preso tutto e no, non sto affatto bene...».
«Sofia... ne abbiamo già parlato... Tu ci andrai che lo voglia o no». E dal tono con cui lo disse capii all'istante che non avrebbe accettato nessun tipo di replica da parte mia. Mi azzittii e acciuffai lo zaino. Quel segnale bastò a far capire al professore che ero pronta, così lo inseguii imbronciata mentre ci dirigevamo verso un taxi che ci stava aspettando sotto il portico della villa.
Era vero. Non ero riuscita a fargli cambiare di parere riguardo la facoltà, ma dopo tante supplice aveva accettato di portarmi in auto qualche volta. Avevo vinto una vittoria ma non la guerra e non mi sarei arresa per così poco.
Appena ci fummo trasferiti lì, andammo a visitare la mia futura "prigione". Rimasi molto sorpresa dalle dimensioni, per essere privata non era molto grande, poteva contenere a malapena trecento ragazzi eppure era una scuola superiore, non elementare o media. Ma non mi lamentai e insieme al prof fummo guidati dalla segretaria, una donna molto dolce contrariamente di una certa Giovanna con cui ho parlato per spiegarle la mia situazione, e facemmo vari giri nelle classi. Al professore gli piacque immediatamente mentre io avevo i miei dubbi e rimasi cinica per tutto il tempo, volevo andarmene a casa ed ascoltare i Muse a tutto volume. Credo che da quel giorno apparvero i primi sintomi di depressione.
Lo persuasi varie volte pur di non mandarmi in quell'istituto, ma lui non cedette neanche per un istante. Gli promisi che avrei fatto le pulizie al posto di Thomas, che non sarei rimasta sempre chiusa nella mia stanza, che avrei cercato di integrarmi nella comunità e che avrei fatto amicizia con gli inquilini (Okay, in questa parte mi guardò male perché sapevo alla perfezione che non avevamo dei vicini e quelli più prossimi distavano a due chilometri ed erano una coppietta di vecchietti antipatici). Eppure non ottenni ciò che più anelavo, ossia evadere la mia ammissione all'Istituto Dragoni. Gli giurai persino che avrei fatto qualche lavoretto di volontariato negli ospedali o nelle case di riposo, tuttavia rimase cocciuto fino alla fine. Se ero testarda ora capivo da chi l'avevo ereditato.
Provai a farmi aiutare da Thomas sebbene lui, quando pensava che non lo vedevo, sghignazzava divertito. Ormai ero diventata centro d'intrattenimento per il maggiordomo, così mi arresi e riconobbi quella dura realtà che a quel punto dovevo aderire con elevatezza.
Mentre entravamo nel veicolo e il professore dava le indicazioni al tassista, guardai dal finestrino il panorama circostante, contemplando con aria sognante il lago. Dovevo ammettere che dopotutto non era male vivere lì. Quando la mattina mi alzavo non potevo non osservare meravigliata lo splendido paesaggio che avevo di fronte.
L'acqua del lago sembrava immobile e rifletteva i raggi del sole come se ci fossero una miriade di piccoli diamanti. Poi c'era un'immensa pianura che sembrava non finire mai, con qualche albero possente che riposava un po' qui e un po' là. Sembrava di stare in un sogno, benché da lì a poche ore avrei iniziato una vita che non faceva affatto per me.
Quando il professore mi diede la "splendida" notizia che non avrei più studiato con lui, bensì in un collegio privato, rischiai di far cadere la mascella fino a terra. Lui era convinto che avrei sorriso, festeggiato o altro, non si aspettava le mie proteste. «Vedrai che ti abituerai e una volta che ti sarai adattata mi ringrazierai», aveva controbattuto con dolcezza, come se stesse parlando con una bambina di cinque anni.
Amavo le attenzioni che George mi rivolgeva, con lui vicino mi sentivo così amata che non sarei mai stata capace di spiegare a parole quanto gli volevo bene, ma in quel momento stavo sul punto di ridergli in faccia e gridare che non mi sarei abituata ad un bel niente; come sempre, il buon senso sconfisse la mia impertinenza e mi limitai a sospirare affitta mentre mormoravo a voce bassa: «Lo dubito».
Solo più tardi capii il motivo di quella scelta altroché avventata. Quando rimasi sola, Thomas si avvicinò cautamente e sussurrò: «Lo fa perché è preoccupato... Hai diciassette anni ma sei troppo chiusa, non t'impegni a relazionarti con gli altri e pensa che questa esperienza possa esserti d'aiuto... Non arrabbiarti, lui vuole solo assicurarsi il tuo benessere».
Così, per accontentarlo, ora vado contro a qualcosa di sconosciuto e che non era nella mia natura. Mi chiedevo costantemente cosa avrei detto ai miei futuri compagni: «Hey, ciao, non ho mai avuto nessun amico fin'ora... ti piacerebbe diventarlo? Non ci separeremmo mai e saremmo per sempre felici e contenti».
Assolutamente no. Mi avrebbero etichettato come una pazza, maniaca e stramba e volevo evitare tutto ciò.
Il resto del viaggio trascorse in un silenzio pieno di tensione, un silenzio che io non avrei spezzato.
«Sono sicuro che farai molte amicizie», provò a rincuorarmi il prof.
«Non lo so... ci proverò». Non mi piaceva vederlo ferito, così cercavo continuamente di tenere schietto quel drago ribelle che era dentro di me, per evitare in quel modo di finire in pasticci di cui solo più tardi mi sarei pentita amaramente.
Con la coda nell'occhio, vidi George mentre con un gesto nervoso si aggiustava gli occhiali sul naso. Sembrava quasi un tic, che faceva sopratutto quando era turbato e avrei scommesso tutti i miei libri che era un'azione involontaria, neanche se ne accorgeva. Il mio petto si riempì di calore e con slancio lo abbracciai. Odiavo litigare con lui e lo sapeva. «Mi dispiace per essermi comportata come una ragazzina viziata ma la verità è che... ho paura».
Lui mise una mano suoi miei capelli e li accarezzò pensieroso. «Lo so, lo so, ma sei una ragazza forte, ce la farai, ho fiducia in te».
Rullo di tamburi, bastarono quelle rassicurazioni per tranquillizzarmi. Non ero più arrabbiata e tutta quell'ansietà che avevo provato anteriormente, svanì nel nulla. Il mio corpo teso si rilassò di colpo e sospirai grata al professore. «Grazie».
Quando arrivammo davanti all'istituzione, mi staccai dal suo abbraccio rassicurante. Era ora di affrontare il momento tanto atteso: il mio primo giorno di scuola.
Le parole di George erano state di gran aiuto e mi sentivo forte, tanto da poter distruggere un esercito di mille soldati con la sola forza telecinetica. Forse stavo esagerando, ma finalmente potevo affrontare quella giornata senza nessun problema. Glielo dovevo al professore.
Diedi un bacio fugace sulla sua guancia e scesi dalla macchina.
«Se vuoi ti accompagno...» replicò lui, visibilmente preoccupato.
Io sorrisi, mostrando tutti i denti. «Non sono più una bambina, posso farcela anche da sola».
E lo lasciai lì, con la fronte aggrottata e l'aria confusa. M'incamminai verso l'enorme cancello di metallo e lo superai senza troppi rimpianti. Non sembravo spaventata e mantenni una posizione altezzosa e sicura di me. Desideravo fare un'ottima figura e non volevo dimostrarmi goffa e debole.
Solo allora mi accorsi di un particolare: non c'era nessuno. Ero sola, nessuno studente al di fuori di me; non c'era anima viva. Fui pervasa dal panico. Dov'erano finiti tutti? Come un lampo mi valicò il timore di essere nel posto sbagliato, ciononostante, dando un'occhiata più attenta, mi accorsi con orrore che era proprio quella la scuola, la stessa che avevo visitato settimane fa. Non so cosa mi spinse a farlo, ma alzando il polso, controllai l'ora.
«Diamine!» esclamai sconvolta. Come aveva fatto il professore a non accorgersene? Ero in ritardo e per di più di venti minuti! Ero in remora ed era solo il primo giorno! La sfortuna mi perseguitava, era un fatto, ed ogni sicurezza si dissolse nell'aria.
Mi misi a correre verso l'edificio, dirigendomi verso l'officina. Come se qualcuno lassù avesse deciso di giocare con me, anziché ritrovarmi con la segretaria dolce e gentile dell'ultima volta, finii a guardare con aria ancora più sconvolta Giovanna mentre mi analizzava severa.
«Che ci fai tu a quest'ora?» mi strillò fredda.
«Io... beh... n-non lo so...» iniziai a balbettare, non riuscendo a formulare una frase comprensibile.
Vidi Giovanna sbuffare spazientita mentre prendeva due fogli da una mensola e me li porgeva a malavoglia. «Qui troverai la mappa della facoltà, l'orario delle tue materie e i professori che vedrai oggi... E corri dritta in classe!» latrò lei, facendomi fare un salto di dieci metri. Ero rossa dalla vergogna, ma non me lo sarei fatto ripetere due volte; controllai la tabella e i nomi dei docenti che avrei visto quel giorno e presi delle scale che mi avrebbero condotta al secondo piano
Nella prima ora avevo Lettere, una delle mie materie preferite, e rincuorandomi con quel dettaglio cercai l'aula ventitré. La trovai quasi immediatamente e indugiai dietro la soglia, non sapevo se bussare o no. Alla fine decisi di rischiare e bussai timidamente. Una voce ancora più gelida e inflessibile di Giovanna rispose un «Avanti!» secco e duro. Fui scossa da un brivido, tuttavia, ricordando le parole di George, appoggiai una mano sulla maniglia e aprii la porta. Fui invasa dalla luce e sbattei le palpebre per avere una migliore visione.
Mi accolse una classe abbastanza grande con dentro all'incirca una trentina di ragazzi.
«E tu chi saresti?» sbraitò la professoressa, innervosita.
Io diventai, se possibile, più rossa di prima, convertendomi in un semaforo umano anziché in una studentessa maldestra. «Mi dispiace, senza volerlo ho fatto tardi» cercai di dire in tono risoluto e ringraziando al cielo, non balbettai le parole. Un punto per me.
«Dimmi nome e cognome».
«Sofia Schlafen».
La vidi annotare qualcosa sul suo registro ma decisi non chiederle niente e preferii non sbirciare; ero già finita in un mucchio di guai senza ambirlo veramente, non volevo peggiorare la situazione che era già pessima di per sé.
«Siediti» ordinò lei; io obbedii timorosa.
Se qualcuno si era aspettato che dopo essere arrivata in ritardo, essere stata sgridata da una segretaria e da una professoressa, avrei guadagnato un po' di pace, be', se era nei miei panni si sbagliava di grosso.
Come a completare l'opera e a dimostrare al mondo quanto fossi imbranata, qualcuno mise il suo piede mentre mi dirigevo verso un banco vuoto e io, sorpresa, non riuscii a scansarmi in tempo e caddi goffamente a terra. Accudii l'impatto, mettendo le mani davanti ed evitando di spezzarmi il naso e il resto del viso.
Ciò che successe dopo mi lasciò talmente stordita che le mi capacità m'impedirono processare panoramicamente gli avvenimenti. I miei "simpaticissimi" compagni scoppiarono a ridere e potei udire qualcuno che esclamava infastidito: «Alzati, Zucca».
In un'altra occasione avrei pianto lì, seduta stante, ma tenendomi stretta la mia dignità, mi alzai infuriata con me stessa, con questa scuola e con il prof mentre mi sedevo con espressione impassibile. Non avrei dato il gusto a nessuno di loro di vedermi vulnerabile. Mai e poi mai.
Le risate non si fermarono e io, con gran fatica, li ignorai mentre il rossore delle mie guance si faceva sempre più evidente. Non li guardai, ero troppo concentrata ad esaminare la lavagna che era situata proprio di fronte a me, come se meritasse più attenzione di tutti loro messi insieme e in un certo senso era proprio così.
«Silenzio o chiamo il direttore!». Dalla sua gola sembrava essere uscito «Se fate i bravi vi regalo dei bellissimi I-phone!», dal momento che calò un silenzio tombale, malgrado fossi perfettamente consapevole che tutti stavano ispezionandomi mentre sorridevano divertiti e commentavano dietro alle mie spalle. Domani George avrebbe dovuto legarmi e prendermi in braccio se voleva portarmi in quel pandemonio, io non avrei mosso un solo dito e nessuno sarebbe riuscito a farmi cambiare di opinione. Il prof era testardo? Be', io lo ero molto di più.
Ero così impegnata a pensare un piano di vendetta quando un ragazzo seduto accanto a me mi scrutò con aria preoccupata. «Stai bene?» chiese gentile.
Era un giovane dall'aria paffuta ma tenera; dalla carnagione chiara, gli occhi azzurri come il ghiaccio e i capelli biondi come l'oro. Indossava un paio di occhiali che mi fecero ricordare quegli del professore.
«Si, sto bene» risposi tagliente. Quella caduta ancora mi rodeva dentro e se all'inizio le possibilità di fare amicizia erano poche, ora erano nulle.
Lo vidi sorridere cortese, per niente intimorito dal mio tono. «Mi chiamo Karl Lehmann» si presentò. «E... mi dispiace per quello che ti hanno fatto, a me è successo di peggio».
Tutta la collera di prima iniziò a sbollire; inclinai la testa e lo guardai incuriosita. «Ah sì... e cosa?».
«Una volta mi obbligarono a correre per tutta la scuola nudo siccome si erano presi i miei vestiti quando eravamo alle docce».
Scoppiai in una leggera risata e senza accorgermene avevo già fatto un'amicizia, dopotutto quella giornata non stava risultando così male. Vidi una scintilla soddisfatta attraversare gli occhi azzurri di Karl. «Vedi, non tutti sono dei bastardi».
«Ma la maggior parte sì» ribattei demoralizzata.
«A pranzo ti presenterò un'amica, vedrai che ti piacerà, è simpatica».
«Grazie mille, Karl, non sai quanto te ne sono grata».
Lui mi fece l'occhiolino prima di girare il capo e seguire le spiegazioni della professoressa.
 
§ § § § §
 
Letteratura fu una totale delusione, non perché Fornelli spiegasse male, ma perché gran parte di quello che aveva esposto lo sapevo già, me l'aveva insegnato George tempo prima, così finsi di captare le sue parole quando in realtà mi stavo annoiando a morte. Appena suonò la campanella, presi le mie cose e uscii in fretta, senza non prima accorgermi delle occhiate disgustate che mi lanciavano mentre mormoravano la parola "Zucca".
Odiavo con tutta me stessa quel nomignolo, nonostante ciò, per amor proprio optai non farci caso e avanzai per il corridoio con passo deciso, senza dare troppo all'occhio. Non volevo essere oggetto di divertimento, mi era bastato quell'anteriore giochetto. Percepii la presenza di Karl solo quando mi raggiunse, saltellando da un piede all'altro. «Qual'è la tua prossima materia?»
«Chimica» risposi.
«Peccato, ho Inglese» proferì lui, con voce affannata mentre cercava di adeguarsi al mio passo. Solo allora mi resi conto che era poco più basso di me — da sottolineare che arrivavo a malapena al metro e settanta — e un po' robusto. Rallentai l'andatura, mentre mille preoccupazioni mi vorticavano nella testa. Karl sembrava un bravo ragazzo e mi faceva un po' pena.
«Come si chiama la tua amica?» domandai di punto in bianco.
«Chloe McAlister».
«Non sembra un cognome italiano...».
«Si, infatti lei è nata nel Regno Unito...». 
Mi bloccai di colpo e iniziai a impallidire. Karl parve preoccuparsi sul serio perché mi strattonò forte per un braccio. «Hey, che ti prende? Stai bene?». 
Feci tre lunghi respiri mentre lentamente ritrovavo la calma. «Si, scusa... È stato un giramento di testa... Non ho fatto colazione» mentii.
Scosse la testa con disapprovazione. «Mai saltare un pasto» mi schernì con aria esperta mentre si accarezzava la pancia. «Guarda come sono in forma io... e tutto perché mi alimento bene».
Io lo squadrai dalla testa ai piedi e iniziai a ridere. Quel ragazzo era davvero molto simpatico.
«Mi fa piacere vederti felice, è così che ti voglio... Ora è meglio separarci, l'aula quindici si trova nel primo piano e dati una mossa ad arrivare, Orlando non accetta neanche un secondo di ritardo». E se ne andò allegro mentre fischiettava. Io seguii le sue direzioni e trovai l'aula di Chimica, dove entrai spedita. Questa volta arrivai in tempo e notai che i banchi erano da due. Mi sistemai in uno dove non c'era nessuno e stetti rigida. Non sapevo più che aspettarmi da questa giornata.
Stavo cercando di memorizzare alcune cose che non sapevo dal libro, quando sentii qualcuno sedersi con la grazia di un gatto accanto a me. Alzai la testa di scatto e rimasi a bocca aperta.
La ragazza era bellissima. Sembrava direttamente uscita da qualche pubblicità francese che promuovevano quei profumi costosi quanto la paga annuale di un calciatore. Aveva la pelle ambrata, i capelli erano lunghi, lisci e scuri e gli occhi erano due enormi pozzi foschi. Mi fissò con aria irritata e io la fronteggiai duramente a mia volta. Fu una battaglia di occhiate dove nessuno vinse poiché appena entrato il professore voltammo le nostre teste. «Buongiorno ragazzi, prendete i vostri libri perché voglio iniziare questa lezione il più prima possibile».
La ragazza mora sbuffò sonoramente. «Che palle Chimica» sussurrò annoiata.
«Non è così male» m'intromisi.
«E tu che ne sai?» mi domandò scettica.
«Forse perché l'ho studiata» risposi con ovvietà. Dio, da come parlavo sembravo una secchiona e anche la ragazza parve pensarlo. Dovevo stare più attenta a quello che dicevo se volevo farmi qualche altro amico oltre Karl. Mi mossi nervosa sulla sedia ma la voce gentile della giovane mi sorprese. «Non credo che a me servirà studiarlo».
Mi voltai di scatto, tutto d'un tratto interessata. «Cosa intendi dire?». 
«Io diventerò una ballerina e la Chimica non mi serve a nulla». 
«No di certo» fui d'accordo e mi sorpresi a parlare con la stessa giovane con cui avevo fatto una guerra di sguardi da "Sono più forte io" fino a pochi minuti fa. La osservai attentamente e fui scossa dall'invidia nel notare il corpo perfetto che possedeva. Aveva i fianchi magri, dalle curve armoniose e morbide, sembrava irradiare sensualità e femminilità da tutti i pori. L'uniforme le stava a pennello e sembrava disegnato appositamente per il suo corpo; non mi sarei affatto sorpresa se fosse stato veramente così.
Non ci rivolgemmo più la parola mentre io la guardavo di sfuggita e paragonavo con tristezza la sua immagine con la mia. Il professore divagò per tutta l'ora, ripassando i concetti di base che consistevano in atomi, molecole, legami e reazioni chimiche, meccanica quantistica e leggi della chimica e della fisica. Come con Letteratura, già sapevo tutto e rimpiansi i miei libri; avrei potuto portarli a scuola per fare qualcosa di più produttivo piuttosto che rivedere degli argomenti che sapevo già a memoria. I minuti sembravano non passare mai e iniziai a fare scarabocchi sul quaderno.
«Schlafen?» mi chiamò il professore.
Io alzai la mano d'istinto, come avevo visto fare nei film. Appena mi scorse tra gli altri studenti, mi rivolse un sorriso caldo e pieno d'affetto. Sicuramente era un professore benevolo.
«Vorresti dirmi la legge di Henry?» domandò.
Come sempre, fu la mia mente ad aprire la bocca, non riuscii nemmeno ad elaborare la frase: «A temperatura costante, la quantità di gas che passa in soluzione in un determinato liquido è direttamente proporzionale alla pressione parziale del gas in equilibrio col liquido stesso» risposi meccanicamente.
«Brava... Lidja! Allora, dimmi la legge di Lavoisier».
Vidi la mia compagna di banco sussultare mentre faceva finta di concentrarsi per ricordare qualcosa; purtroppo conoscevo bene quell'espressione, la facevo anche io quando non sapevo un concetto o lo dimenticavo completamente.
Cercando di non farmi vedere dal professore, mi avvicinai a lei. «In una reazione chimica, la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti» le bisbigliai, evitando di muovere troppo le labbra per non farmi pigliare.
Ci fu un largo secondo in cui pensai che non mi aveva sentito o capito, ma dopo poco la udì ripetere: «Consiste che in una reazione chimica, la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti» enunciò sicura.
Il professore parve sorpreso, forse non si aspettava che sapesse la risposta, tuttavia le sorrise gongolante. «Brava, a quanto pare hai studiato qualcosa durante le vacanze». E chiamò un altro alunno mentre faceva altre domande.
Lidja — alla fine avevo scoperto il suo nome, si voltò verso di me e mi rivolse un sorriso riconoscente. «Ti devo la vita».
«No, mi devi una risposta» sdrammatizzai io, facendola sghignazzare. 
«Grazie lo stesso».
«No problem».
La vidi indugiare per un po' ed infine decise di parlare. «Senti... Ti va di far parte nel nostro gruppo?» chiese agitata. 
Alzai un sopracciglio, segno che mi aveva preso alla sprovvista. «Gruppo?».
Lei annuì, troppo seria per i miei gusti. «Ci facciamo chiamare Draconiani e non mi riferisco ad una banda musicale... Una banda studentesca... quella buona...».  
Stavo seriamente pensando che quella ragazza stesse delirando o blaterando su cose senza senso. «Banda buona? Cosa significa? Spiegami tutto con più calma...». 
«Questa scuola è divisa in due, il gruppo dei Draconiani e quello dei Viverniani, noi dei Draconiani siamo quelli benevoli mentre quello dei Viverniani sono i cattivi; siamo sempre in "guerra" ed ogni anno sia noi che loro cerchiamo di richiamare più studenti possibili al nostro lato... Alcuni vengono da noi, gli altri, che temono Nidhoggr, vanno da loro che noi denominiamo "Assoggettati"; infine ci sono gli indifferenti che sono gli Esclusi...». 
Non avevo la più pallida idea di come interpretare le sue affermazioni per quanto mi sembrarono assurde. Io? In un gruppo di adolescenti irresponsabili che si odiavano a vicenda? Mai. Stavo per rifiutare quando lei mi fermò. 
«È una specie di tradizione questa, come saprai questa scuola si chiama Dragoni e si narrano molte storie riguardo questo istituto e su questo luogo, storie di draghi e viverne che lottano da sempre... Ogni semestre ci sono sondaggi, competizioni, concorsi, gare che la scuola acconsente per vedere il vincitore, ma negli ultimi cinque anni noi draconiani ci siamo indeboliti e molti di noi si sono arresi, hanno smesso di combattere con noi...». E la sua voce si spezzò e nei suoi occhi colsi un lampo di tristezza... «Purtroppo perdemmo uno dei nostri guardiani... Ogni banda ha dei rappresentanti, quelli più forti, e ci viene assegnato il nome di un drago... Ma un po' di tempo fa uno dei migliori ci "tradì" e diventò viverniano...».  
«Chi?» domandai in fretta. 
«Fabio Szilard». 





 
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