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Autore: Dream_Dust    27/04/2014    1 recensioni
Vi siete mai chiesti perchè i lupi ululano alla luna?
"In quel preciso istante, nel quale tutto era collegato e non esistevano distinzioni tra cielo e terra, tra sovrannaturale e terreno, le due figure, come se condividessero la stessa mente, lo stesso corpo e lo stesso spirito, contrassero i muscoli del torace, le loro gole si dilatarono e dal profondo del petto, dettato dal cuore nacque quel grido che è melodia, quella melodia che è canzone, quella canzone che è preghiera. Quell'unico singolo suono che racchiude l’anima di colui che lo innalza.
I due lupi Ulularono."
Genere: Azione, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The Wolf’s Howl
 

Impronte candide nella neve, effimere, sfuggenti, lasciate da fantasmi incorporei, leggeri nella fredda aria notturna.

 
Gli odori silvestri del luogo selvaggio saturavano la notte, pini e abeti dall’aroma dolce e pungente, betulle candide dai tronchi lisci e immacolati come eleganti fanciulle danzanti nel ghiaccio.
 
Suoni, rumori di piccoli copri che si spostano, si muovono, veloci e scattanti nei loro anfratti sotterranei o sopra gli alberi alti, irraggiungibili. Creature della terra che sfiorano il cielo; lo toccano con i loro rami sottili mossi da una soffice brezza, aghi e foglie verdi che si agitano lievemente sotto il vento frizzante della notte, oscure dita nere che si stagliano contro l’oscurità stessa, illuminati da pallidi raggi lunari.
 
Tutt’attorno, si staglia lo spettacolo del paesaggio incontaminato carico di silenziosa vita, sconfinato, selvaggio, non ancora toccato da mano umana, la mano del gigante che ruba le stelle e calpesta i fiori, che coglie i frutti prima che siano maturi e che esige ma niente ricambia.
 
Nella notte fredda, due spiriti erranti vagano nella neve, si confondono con essa, divengono un tutt’uno con gli arbusti, le foglie, le radici. Essi fanno parte della vita, del grande cerchio che sempre comincia, sempre si chiude e poi riparte, indomito, eterno.
 
Grandi corpi pesanti eppure così agili, arti robusti che non producono rumore, ma i cui passi sono fatti di silenzio.
 
Pelliccia folta, calda, per proteggersi dal gelo pungente di quella oscurità profonda, immensa, rischiarata solo dal bianco candore della luna di latte i cui raggi paiono lance che trafiggono il buio, trapassano la grande tela blu del disegno del cielo.
 
Presenze mistiche, temibili e maestose, feroci ed eleganti sovrani dei ghiacci. La natura si scosta al loro passaggio, intimorita da cotanta potenza, riconosce ad essi la supremazia sul cielo, sulla luna e sul firmamento.
 
Tutta la vita magicamente si acquieta, fa silenzio, si rintana per non essere ghermita da quegli esseri predatori.
 
Creature sovrannaturali, non appartengono a questo mondo, non appartengono a questa terra, ma al contempo sono il suo battito vitale, il suo cuore pulsante, l’essenza stessa della vita nella sua più pura e primordiale forma.
 
Prima che esistesse l’uomo, venne creato il lupo.
 
Ed esso era forte, aggraziata potenza della natura, spirito fatto di ossa e di carne, pugnali eburni nelle sue fauci, come selce i suoi artigli, muscoli e sangue scarlatto incanalato nelle vene. Nel corpo possente scorre indomita la libertà del cielo, la volontà incontenibile del guerriero che mai decadrà.
 
Anima libera, il fantasma grigio monarca delle selve.
 
Musi massicci e ferini si levarono alla luna piena, orecchie appuntite si ergevano silenti sulle loro teste; la osservarono, la contemplarono con tenero distacco, così lontani, eppure così vicini.
 
Le due grandi figure rimasero immobili qualche istante a osservare la loro Signora, la Regina della notte e Madre delle stelle.
 
Le loro pellicce soffici e irsute si toccarono e si stropicciarono come vecchie coperte lanose, si congiunsero e si intrecciarono in un disegno di colori e di combinazioni diverse, uno il contrario dell’altro.
 
Folti peli d’un color miele scuro, dolci, come le spighe di un campo di grano baciato dai raggi del sole in Estate, si compattavano assieme a una poco più rada peluria ispida, ribelle, differente da quel biondo cenere così caldo, ma invece scura,  fredda e distante, assumeva in più punti le sfumature dello stesso cielo stellato.
 
I due manti, nonostante fossero così diversi, si confondevano l’uno con l’altro, si perdevano e si mescolavano assieme, così che ognuno dei due potesse portare con se un frammento reciproco, una caratteristica indissolubile che l’avrebbe accompagnato per sempre.
 
Le due enormi creature, d’un tratto si staccarono con uno scatto e balzarono in direzione opposte, poi si corsero incontro, si separarono nuovamente e si ritrovarono alla stessa maniera. Talvolta si alzavano sulle zampe posteriori, somigliando così a grandi orsi più che a lupi, mentre con le zampe possenti si appoggiavano l’uno sulle spalle e sul petto dell’altro.
 
Le due ombre nella notte, scartavano a destra e a sinistra, si rincorrevano giocose, tentando di acchiapparsi reciprocamente con lunghe falcate e salti a tradimento.
 
Giravano, roteavano, correvano, poi si fermavano; si osservavano immobili regalandosi silenzi fatti di sguardi, sguardi fatti di pensieri e di parole, e poi continuavano la loro danza infinita. Una danza fatta di saluti, fatta di abbracci e di carezze, di falsi addii e accoglienze novizie.
 
Una danza che pareva un girotondo, un rincorrersi senza meta, senza uno scopo; un cercarsi e poi un allontanarsi.
 
Ringhi bassi d’avvertimento salivano cavernosi dalle loro gole, piccoli latrati destinati poi ad estinguersi un attimo dopo se qualcuno veniva morso, un uggiolio d’affetto quando l’uno si avvicinava all’altra e i loro colli si intrecciavano in un abbraccio rassicurante.
 
Le loro pellicce strusciando produssero un piccolo sfrigolio statico, e poi la lingua rosa di una delle creature si posò delicata sulla guancia del compagno, leccandola teneramente.
 
 L’altro, ricambiando il gesto, iniziò a tracciare la sua promessa d’amore sul corpo della compagna, passando la lingua rossa nascosta tra le zanne acuminate sul suo pelo. I suoi  movimenti decisi eppur delicati mostravano un’apparente ferocia, come se il corpo massiccio sul quale aveva ora poggiato anche le grandi zampe artigliate gli appartenesse di diritto e se qualcuno avesse osato sottrarglielo sarebbe stato dilaniato e fatto a pezzi dalle sue stese zanne.
 
La lingua rossa alzava ciuffi di pelo ambrato, muovendosi bramosa e gli artigli di selce strinsero appena  la presa su quel corpo caldo, di sangue e di carne. Tutto ciò procurava alla creatura nera grande piacere e la compagna lo sapeva; sapeva che nei suoi intenti non c’era niente di aggressivo, nessun barlume di ferocia ma che in realtà era la prova di fedeltà eterna, la prova che l’avrebbe protetta, che avrebbe vegliato su di lei, e lei su di lui.
 
Terminarono il loro lungo girotondo, e dandosi piccoli buffetti sul muso proseguirono lungo il letto del fiume argenteo, dove la foresta terminava.
 
Si stesero su un’altura, una grande roccia solo parzialmente coperta dalla neve candita, dalla quale si poteva osservare il meraviglioso spettacolo delle terre artiche. Immensi territori coperti dal manto bianco che contrastava con il nero della notte.
 
Gigantesca la Luna pallida illuminava il vello di latte, rendendo ancora più luminoso il bagliore dei fiocchi di neve sul terreno. In lontananza, montagne e picchi altissimi gareggiavano per raggiungere la Bianca Regina, ma ella era sempre troppo lontana per loro, irraggiungibile nella sua maestosa luce gloriosa nell’alto del cielo.
 
I corpi caldi dei due enormi animali distesi accanto si rilassarono, sciolsero la tensione dei muscoli ed entrambi si appoggiarono al compagno, cercando protezione anche se consapevoli di non averne realmente bisogno. Cercavano i battiti del cuore pulsante, vivo, cercavano l’appoggio e il sostegno reciproco.
 
Perché essi erano consapevoli di essere solo dei minuscoli puntini nell’universo immenso, deboli se lasciati da soli, ma che uniti avrebbero potuto fare a pezzi il mondo, far inchinare il cosmo al loro cospetto.
 
Il maschio, la bestia dal manto scuro e tenebroso, appoggiò la pesante testa peloso sul dorso della compagna, la femmina imponente, fiera, dal pelo castano color del miele; ella stava col torace esposto, il suo respiro calmo e ritmato  faceva alzare e riabbassare il ventre con un movimento ipnotico, le lunghe e robuste zampe artigliate che sporgevano appena da quel piccolo precipizio.
 
La lupa toccò la guancia del compagno con il naso umido, per poi rivolgere il suo sguardo dorato verso la Luna piena. Il lupo nero la imitò, volgendo le sue iridi d’un arancio caldo, intenso, verso quella grande apparizione eterea, talmente bella da sembrare irreale, come in un sogno.
 
Entrambe le creature fissavano ora quel disco pallido, sentendosi legati ad esso da una forza indistruttibile e misteriosa, una lunga catena argentea che gli collegava a quella divinità celeste, che donava loro allo stesso tempo la virtù di un’esistenza indomita, dedita a non dover mai divenire schiavi.
 
In quel preciso istante, nel quale tutto era collegato e non esistevano distinzioni tra cielo e terra, tra sovrannaturale e terreno, le due figure, come se condividessero la stessa mente, lo stesso corpo e lo stesso spirito, contrassero i muscoli del torace, le loro gole si dilatarono e dal profondo del petto, dettato dal cuore nacque quel grido che è melodia, quella melodia che è canzone, quella canzone che è preghiera. Quell’unico singolo suono che racchiude l’anima di colui che lo innalza.
 
I due lupi Ulularono.
 
Ulularono forte, festosi e gioiosi; non avevano un motivo preciso, solo, nel profondo, sapevano di dover rivolgere la loro ode a quella magnifica creatura celeste, colei che era Regina,Madre, Sorella e Amica.
 
Quello di un lupo che ulula alla luna è il desiderio martellante e incontenibile che sorge dal profondo, una sensazione perforante che non può venire ignorata, un bruciante bisogno che se non viene soddisfatto  rimbomba nel cuore, incessante, fino a che non viene liberato all’esterno con un piacere immane e una volta fuori può brillare in tutto il suo incomparabile splendore.
 
Dalle gole larghe e dai petti possenti soffia ipnotica la ninnananna notturna, meravigliosa e terribile.
 
Sotto le loro voci tremano le stelle e danza leggiadro il vento, cullato da quelle rime pregne di speranza che escono dalle bocche di poeti incompresi.
 
D’innanzi a quel suono celeste la natura selvaggia si inchina, gli animali rifuggono nelle loro tane, lontano da quegli echi incessanti presagio di morte. L’universo per un istante che sembra eterno si ferma, immobile, ammaliato dalle voci di cantori tanto capaci, riconosce il loro valore e teme con muto timore la loro presenza.
 
Essi raccontano storie, raccontano emozioni e sentimenti. Le loro nere labbra disserrate compongono canti che si perdono in sussurri nel vento, che giungono a colui che sa ascoltare il respiro della terra.
 
Apparizioni somiglianti a chimere lontane. Sogni fatti di sospiri, sospiri fatti di sogni.
 
I musicisti della notte compongono melodie prive di note, dalle loro lingue si tesse la canzone serafica e vigorosa.
 
Il torace adesso brucia, svuotato da quel fuoco indomabile che sormontava nel petto qualche attimo fa. La cassa toracica, prima dilatata per permettere di far entrare più aria possibile, ora deve rilassarsi e tornare alla sua caratteristica quiete.
 
Il cuore pompante di sangue vermiglio che romba nelle orecchie e scorre in ogni singola parte del corpo, ritorna a battere calmo, quasi impercettibile, come una piccola creatura appena nata che si affaccia alla vita.
 
I due lupi terminarono il loro canto glorioso, udito in ogni luogo di quelle terre sconfinate, giunto forse sino a orecchie umane, trasportato dal vento.
 
I muscoli delle possenti gole ora sciolgono la tensione, mentre il respiro riprende appena irregolare e si condensa in nuvolette candide nell’aria fredda, disperdendosi come leggera nebbiolina trasparente.
 
Entrambe le creature rimasero ancora lì, immobili, ad osservare la Luna bianca, la sua luce nivea che rischiarava l’oscurità ed accarezzava dolcemente i loro musi. La contemplarono con sguardo intenso, soddisfatto, consci di aver adempito al loro dovere, di aver esternato il loro inno illustre. Quella che poteva sembrare l’ombra di un sorriso increspò le loro labbra sottili: l’avevano resa felice, sia Lei che loro stessi.
 
Con un ultimo sguardo carico di dolce innocenza, scrutarono la Luna piena, astro che gli dominava e gli rassicurava nei momenti bui, che rischiarava l’angosciante oscurità della solitudine, salvandoli  dall’oblio eterno. Un’ Amica a cui confidarsi e alla quale cantare il proprio dolore, cercando poi conforto. I suoi raggi che ai tanti parevano freddi e distanti per loro erano il più caldo abbraccio che una Madre potesse offrire.
 
Quando giungeva la notte tutto quello che desideravano era bagnarsi con una limpida cascata della sua luce pallida, giocare sotto di essa ed intonare canzoni che ne esaltavano la regale magnificenza.
 
Essi erano figli della notte, figli della Luna.
 
Nei loro sguardi dorati e limpidi, increspati e profondi come specchi lacustri, risplendeva il riflesso di Colei che riusciva ad amarli per quello che erano. Ella era l’unica, insostituibile.
Gli amava, e sempre gli avrebbe amati.
 
Altri corti ululati si levarono nel cielo terso.
 
Le due creature passarono molte ore sdraiati lì accanto, godendosi la quiete della notte e coccolandosi amorevolmente. In quella situazione non sembravano nemmeno più enormi macchine assassine, solo dei semplici cagnoloni dalla stazza insolita e dallo sguardo curioso. Degli occhi predatori che non parevano del tutto animali, ma saturi di un’intelligenza umana, specchi d’arancio e d’oro che esercitavano un magnetico mistero.
 
Chiunque  si fosse riflesso in quello sguardo avrebbe giurato di vedere lo spirito di un compagno intrappolato in un corpo diverso, una nuova pelle che veniva fuori ogni plenilunio per ricordare al mondo intero la vera natura di quegli esseri straordinari.
 
Dall’interno, l’uomo rigira la sua pelle; spuntano il pelo e le zanne, le unghie divengono artigli , si risveglia l’istinto animale. Esseri capaci di mutar forma, sia uomini sia lupi.
 
O forse, nessuna delle due cose.
 
Adesso le due spaventose figure gioconde si davano morsetti sulle orecchie, talvolta tirando con foga. Ruzzolavano sulla schiena e sulla pancia,rischiando di cadere diverse volte. La lupa castana si ritrovò stesa su un fianco a ventre esposto, mentre scalciava con tutte e quattro le zampe  per non far avvicinare il compagno a quella zona delicata, vellutata e dal pelo più chiaro. Il lupo nero assecondò il suo comportamento, facendo finta di smettere per poi riprovarci venendo respinto da piccoli ringhi e latrati e dalle unghie affilate.
 
Cercò allora di morderla sul collo, strattonando la pelliccia setosa, ma la lupa spalancò le fauci e lo morse a sua volta con malcelata ferocia sulla parte inferiore della gola, appena sotto il mento.
 
Il compagno la mollò quasi immediatamente, osservando che il respiro di lei si faceva affannoso, la sua bocca spalancata dalla quale penzolava una lingua rosa lasciava intravedere a sprazzi i denti bianchi e affilati. Sembrava come un cane dopo una lunga corsa.
 
Il lupo nero inclinò la pesante testa pelosa da un lato, con la stessa parvenza di un bambino che non capisce un concetto.
 
Con passo felpato, aggirò velocemente la compagna e la prese alle spalle, ed ella in men che non si dica se lo ritrovò addosso. Cercò di scacciarlo goffamente con gli arti posteriori, ma lui le si appiattì contro, annusandola bramoso con il grande tartufo nero. L’odore della lupa gli saturò le narici e lo eccitò: sapeva di terra e di pino selvatico, un aroma acre seppur con qualche nota dolciastra, femminile.
 
Iniziò a uggiolare contento, il suo istinto più animale intenzionato a risvegliarsi, la coda morbida che si agitava dietro le gambe.
 
La lupa però non era del suo stesso pensiero e con un ringhio basso, infastidito, se lo scrollò di dosso con una forza immane. Si rialzò velocemente e sovrastandolo con la sua stazza gli latrò contro, le orecchie dalla punta arrotondata appiattite leggermente contro il capo.
 
L’altro indietreggiò e mugolò pentito, leccandosi il muso con la lingua e mettendosi in una posizione che ricordava vagamente quella di un gatto quando si stiracchiava, la parte superiore del corpo chinata a terra e la testa tra le zampe, mentre il sedere rimaneva dritto e la coda bassa.
 
La compagna sembrò quietarsi dopo questo segno di sottomissione, lasciò le orecchie alte sul capo e  abbandonò ogni traccia di istinto aggressivo. Si avvicinò a lui con la testa china, concedendogli il suo perdono e cercando di morderlo giocosamente sul muso, dal colore d’un nero più sfumato tendente al grigio.
 
D’un tratto, qualcosa nella radura sottostante si mosse, producendo un quasi impercettibile rumore di fronde scostate. Le due creature rizzarono le orecchie e si acquattarono a terra, ombre invisibili nella notte.
 
Tutti i loro sensi erano in allerta, i corti baffi scuri fremevano nel buio.
 
E fu in quel momento che lo videro: un bell’esemplare maschio adulto d’alce, forse appena un po’ vecchiotto, passeggiava con cautela in quella immensa valle innevata, uscendo dalla selva con timore.
 
Doveva essere di certo un animale sordo, altrimenti non avrebbe azzardato ad avvicinarsi in quella zona con i raccapriccianti ululati lanciati qualche ora prima. Sarebbe stato incredibilmente stupido altrimenti, o forse era così pazzo da non volersi salvare la pelle.
 
I due esseri predatori si leccarono i baffi, pregustando già quell’ammasso di carne che ancora camminava ma non sapeva di essere morto.
 
Con ferocia, il lupo dal manto di tenebra sfregò gli artigli sulla roccia nuda, producendo un rumore tremendamente graffiante che lasciò il segno dei suo grossi unghioni neri sulla grigia pietra. Tutto il suo corpo fu pervaso da un brivido d’eccitazione, i muscoli ed i tendini che già fremevano sotto la pelle, guizzanti. La coda si agitava inquieta, spazzando la neve sul terreno.
 
Dischiuse le fauci, non riuscendo a reprimere un ringhio sordo. Solo ora si rendeva conto di aver fame, una fame intensa, logorante.
 
La lupa al suo fianco invece, sembrava non aver nemmeno visto la preda di fronte ai suoi occhi, tanto era glaciale la sua calma e la capacità di controllarsi, tutto l’opposto del fremente cacciatore accanto a se. Al suo interno l’istinto si era risvegliato, ma la sua capacità di domarlo la rendeva una predatrice più temibile e micidiale del compagno ancora inesperto.
 
La femmina vide che l’alce si era ormai allontanato completamente dall’intrigo di rami e tronchi all’interno del quale avrebbe potuto fuggire, perciò rivolse al lupo uno sguardo penetrante che era il segnale di inizio alla caccia. La grande bestia nera dischiuse le spaventose fauci mostrando i denti lucidi di saliva in quello che poteva sembrare un sorriso ferino.
 
Con un’intesa sorprendente, si scambiarono e compresero tutte quelle che sarebbero state le fasi dell’attacco; il maschio sarebbe rimasto accucciato lì sull’altura, silenzioso, in attesa che la compagna gli desse il segnale  per passare all’azione. Ella invece, avrebbe attraversato il bosco per giungere alle spalle della preda.
 
La creatura si immerse nella boscaglia, strisciando tra i tronchi e gli arbusti, strofinandosi contro la terra. Procedette con il capo e le spalle basse, attenta a non essere scorta. Sola lì in mezzo, sentì di appartenere a  quell’intrigo di rami e fronde, una parte della foresta che si discostava da essa per agire di sua autonoma volontà, con l’unica differenza che ella non si sarebbe nutrita di acqua e sali minerali, ma di dolce sangue e saporita carne.
 
Si leccò i baffi e aumentò il passo, ora divenuto una specie di trotto sostenuto; gli occhi dorati erano dilatati e le pupille erano divenuti due piccoli pallini neri immersi in un lago ambrato che mandava riflessi agghiaccianti nell’oscurità.
 
Rallentò quando alla fine del sentiero nascosto dalle ombre della selva, adocchiò  il possente animale di fronte a se.  Quella vista smosse qualcosa al suo interno:
 
Fame.
 
Fino a quel momento, aveva cercato di assecondarla, di assecondare i suoi istinti per poter ragionare più lucidamente, ma in quell’istante capì che non ci si può sottrarre ad essi. Sono sempre nel profondo, primordiali, insormontabili. Ti controllano e ti rendono vivo, dirigono ogni tua singola azione, ogni singolo pensiero.  
 
Solo ora capì perché tutta la sua specie, il compagno ed ella stessa erano diversi dagli uomini; loro non sopprimevano l’istinto, anzi, lo esaltavano e si lasciavano guidare da esso poiché gli era stato fornito dalla grande Madre e di certo Lei non commetteva errori.
 
Gli uomini lo avevano dimenticato, lo avevano rinnegato ritenendolo fonte di impurità, di selvaggia stupidità. L’unica cosa che sapevano ascoltare erano le loro idee e convinzioni: lottavano tutta la vita per sostenerle, per salvaguardarle. Erano anche disposti a uccidere per le loro convinzioni, così astratte, talvolta prive di fondamenta. Ci si aggrappavano disperatamente  per poi vederle distrutte in un attimo, arse senza pietà e venir spazzate via dal vento, rimanendo così senza più speranza, senza niente in cui credere.
 
L’uomo crea per poi distruggere, trasforma e rimodella incurante delle conseguenze. Ha imparato ad utilizzare il fuoco per poi brandirlo contro i suoi stessi simili, senza alcun rispetto per la vita, ne di quella altrui che della propria. Vuole somigliare a Dio, ma ogni suo tentativo viene miseramente annientato, forse dalla stessa potenza superiore che tanto loda e acclama.
 
L’umanità rinnega, deruba, tortura. Uccide. Senza distinzione alcuna.
 
Qual è dunque,la differenza tra l’uomo e le bestie?
 
Per un fugace attimo, la creatura fu disgustata dall’idea di somigliare a loro, di essere per metà uno di quegli esseri ripudiati dalla natura stessa, maligni barbari feccia della Terra.
Ringhiò a denti stretti dietro le fronde. No, non sentiva di appartenere a una razza tanto orribile, la stessa razza che gli denominava con l’appellativo di “mostri” ma che evidentemente non si era mai scavata nel profondo, non aveva mai visto e riconosciuto chi era realmente.
 
Cechi. La loro stessa cecità gli avrebbe portati alla rovina.
 
Folli. Nient’altro che questo.
 
Una grande popolo di pazzi senza speranza, incapaci di guadarsi attorno, incapaci di vedere  ciò che stavano realmente compiendo. Non si sarebbero fermati fino a la terra non avrebbe avuto altro da offrirgli, la stessa terra che gli aveva ospitati e gli aveva visti crescere, passo dopo passo.
 
Se non si fossero fermati da soli forse a qualcun altro spettava il compito di farlo, qualcuno venuto al mondo appositamente con questo compito. E se fosse spettato a lei, sarebbe stata ben felice di portarlo a termine.
 
Cenere alla cenere. Ogni era deve giungere al suo crepuscolo.
 
La lupa raggiunse infine la grande sagoma scura dell’animale, che cautamente stava muovendo i primi passi sulla neve.
 
Avanzò per uscire dalla selva e avvertì la fame aumentare, una voragine nello stomaco che lentamente si allargava e gridava di essere colmata.
 
Assali la preda, saziati delle sue carni così che il ciclo possa nuovamente compiersi.
 
Si, oramai era giunto il momento.
 
Occhi d’un giallo ambrato, intenso, emergono dalla boscaglia, come sfere luminose salite a galla da un lago nero. Un muso pesante, lungo e affilato, scosta le foglie verde smeraldo macchiate di bianco, producendo un fruscio ovattato. Le fauci si dischiudono e le chiostre di zanne candide grondano di lucida saliva.
 
Quello era il volto del predatore per eccellenza, il terribile cacciatore giunto per ghermirti dai meandri del tempo. Nella memoria si perdono le sue origini, possente creatura che da sempre popola i miti e gli incubi dell’uomo.
Quello, era il volto del lupo.
 
 
Con passo felpato uscì fuori dalla selva e con le nere labbra tirate sopra le gengive, levò un lugubre ululato che diede il segnale di iniziò alla caccia.
 
L’alce infermo non lo sentì, ma con le grandi narici dilatate avvertì un nuovo odore che prima non aveva percepito. Un odore pericoloso.
 
L’animale diede una fugace occhiata alle sue spalle, giusto in tempo per vedere un enorme lupo dal pelo castano che partiva a passo di carica verso di lui, le orecchie appiattite dietro la testa e le gengive scoperte in un ringhio feroce. Dietro di se, un gran polverone di neve sbalzata veniva sollevata.
 
L’alce, impaurito, partì al trotto, con uno scatto e una velocità che mai ci si sarebbero aspettati da un’animale  così grande.
 
L’istinto di sopravvivenza si fece largo dentro di se; doveva fuggire, il più lontano possibile fino a che il predatore non si fosse stancato di inseguirlo. Quando si ha paura, questa è la prima reazione, la seguente –se si viene messi con le spalle al muro- è difendersi.
 
Un ringhio bestiale si levò da sopra un’altura, ed un enorme ombra scura balzò sulla neve candida. Un altro lupo, dagli innaturali occhi d’un arancio brace e lo sguardo folle, cercò di scagliarsi sopra l’alce in fuga, ma il suo tempo di reazione fu troppo lento poiché l’animale già in corsa scartò con destrezza verso destra, facendo rimanere la grande creatura a mani vuote.
 
Un ruggito frustrato e furioso si levò dalla sua gola e con uno slancio si mise anche lui all’inseguimento della preda, appena davanti alla compagna.
 
I due lupi correvano e ringhiavano, i muscoli e le vertebre tirati e scattanti, ogni loro singolo respiro, ogni minima energia era dedita a quella folle corsa.
 
Si muovevano rapide le zampe possenti dagli artigli scuri sguainati, le code irsute tenute alte e il cuore che pompava sangue a più non posso.
 
La voglia di sbranare, di mutilare e di immergersi nel dolce sangue era immane, sopra ogni cosa.
 
L’istinto è desiderio, il desiderio è istinto.
 
Il lupo dal manto nero accelerò, accecato dalla fame. I polpastrelli consunti erano rinfrescati solo dalla gelida neve, il rosso muscolo nel petto sembrava scoppiare e il respiro veniva meno. Si stava spingendo oltre i limiti, ma non gli importava. Tutto ciò ch desiderava era saziarsi, uccidere quell’essere che viveva per poi sentire il sapore ferroso del suo sangue scarlatto sopra il palato, gocciolare lento dentro la gola, caldo, per dimenticarsi del gelo che lo circondava.
 
Di fronte a se, a pochi metri di distanza, si trovava l’oggetto del suo desiderio. Lo bramava, lo voleva più di ogni altra cosa al mondo. In quel momento, si ritrovava a inseguire il suo tutto, il centro di ogni cosa.
 
L’alce correva e appena dietro di lui il lupo lo inseguiva.
 
Lo spazio di fronte a loro era immenso, non c’erano luoghi per nascondersi, si poteva solo proseguire in linea retta e sperare prima o poi in un errore dell’altro.
 
E l’errore arrivò.
 
Un grande sasso, nascosto sotto la neve, si ritrovò sulla traiettoria dell’alce che inciampò rovinosamente. Non cadde, ma la sua andatura rallentò parecchio, dando tempo alla bestia nera fremente di gioia di avventarsi su di lui.
 
Con gli artigli, lacerò la parte posteriore dell’animale, che colpito dal dolore emise un muggito straziante. Il lupo si arrampicò sulla sua groppa, affondando le grinfie ricurve in profondità. Il sangue iniziò a scorrere lento, macchiando di rosso il manto dell’alce.
 
L’animale ancora in corsa, cercò allora di allontanare il lupo con le grandi corna, provando a colpirlo. Scalciò anche, nonostante ciò gli procurasse sofferenza a causa delle ferite subite.
 
Saltò nella neve, si agitò come un ossesso, al fine di disarcionare il predatore.
 
La bestia strinse ancora di più la presa con gli artigli, cercando di non cedere a quella forza irruenta che voleva scacciarlo. Le corna dell’alce gli sfiorarono il muso, sibilando come una lama, ma esso tolse il capo velocemente dalla sua traiettoria e con un ringhio inferocito cercò di colpirgli il viso con una zampata, senza successo.
 
Il cacciatore ostinato, al fine cedette e ricadde sulla neve con un balzo, vedendo con sommo orrore la preda che di nuovo si allontanava e riprendeva la sua corsa.
 
Latrò inferocito e stava quasi per mettersi nuovamente al suo inseguimento, quando vide passare al suo fianco un lampo chiaro, che velocemente lo superava e si avventava sull’alce  ferito, mordendolo appena sotto la gola.
 
L’animale rallentò, colto dal brucante dolore e vide sotto di se un grande lupo che con una stretta ferrea gli attanagliava il sotto gola, fissandolo con dorati occhi languidi.
 
A quella vista, qualcosa nello sguardo dell’alce si smosse: terrore.
 
Disperato, cercò di staccarsi di dosso anche quella bestia, agitandosi e minacciandola con gli imponenti palchi, ma ella non cedeva, anzi, la sua presa si faceva più ferrea e cercava lentamente  di risalirgli la gola.
 
La sua già disperata situazione si complicò non appena sentì nuovamente altri artigli ferirgli la schiena e lacerargli la carne. Il lupo nero era su di lui, si arrampicò ferocemente sulla groppa e una volta giunto in cima al grande corpo del ruminante, lo morse con violenza dietro il collo.
 
L’alce emise un altro muggito di dolore, straziante. In cuor suo conosceva già l’esito della lotta e sapeva che non poteva fare niente per fermare tutto ciò. Ma poteva continuare a lottare, fino a che il fisico gliel’avrebbe permesso, fino a che il suo cuore avrebbe continuato a battere all’interno del petto, lui non si sarebbe arreso.
 
Con un esamine movimento del capo, cercò di colpire il lupo dietro di lui, ma quello lo scansò e affondò le fauci ancor più in profondità, fino a che con uno scricchiolio lugubre riuscì a spezzargli il collo.
 
L’alce spalancò la bocca, ma non uscì alcun suono da essa, solo una zaffata di alito caldo che si condensò in una nube di nebbia nell’aria gelida. Il lupo sotto la sua gola completò ciò che il compagno aveva iniziato e con uno schiocco di mandibole, gli squarciò la gola.
 
Il corpo dell’alce, ormai senza vita, si accasciò a terra, mentre  rivoli di sangue scarlatto grondavano da tutte le ferite. La gola era aperta, dilaniata, un ammasso di carne rosso e viscido.
 
La lupa, che ancora teneva il collo dell’alce stretto tra le fauci, lo adagiò a terra.
 
Il sangue gocciolò lento, senza produrre alcun suono, macchiando di scarlatto quella terra bianca; la ridipinse completamente, riuscendo forse a penetrare il terreno sottostante e sporcare i piccoli germogli che già stavano nascendo sotto quel manto innevato.
 
La terra si tinse del sangue del caduto, intriso della sua volontà ferrea, che magnificamente veniva rappresentata da quel liquido denso.
 
Perché una cosa talmente impura è l’essenza stessa della vita?
 
Le due creature finalmente potettero banchettare con il proprio bottino di guerra, gli squarciarono il ventre ed entrambi iniziarono a nutrirsi dei viscere e carne.
 
Il lupo nero si avventò per primo su quel corpo dilaniato e con foga iniziò a strappare abbondanti brandelli di carne. Si immerse fin con la testa nel ventre caldo e bevve il sangue, lo stesso sangue che aveva tanto desiderato fino a quel momento.
 
Il suo odore dolce e ferroso lo inebriò fin nel profondo, facendo nascere dentro di lui un insano compiacimento e voglia di uccidere ancora. Già, perché era quello il momento più bello, l’unico attimo che veramente  valeva la pena vivere.
 
Ogni boccata di sangue che assumeva ne desiderava ancora, addirittura la carne in quel momento era divenuta superflua; quel dolce fiele vermiglio era la sua unica vera gioia.
 
Fino a che non ebbe svuotato interamente le interiora dell’animale, la bestia dal manto scuro non tornò con il capo in superficie, ma non appena ebbe terminato la sua opera, vide la compagna che al contrario di lui, strappava grandi pezzi di carne irsuta e masticava con foga. Persino il cuore era stato strappato dal petto aperto, le sue stesse zanne lo avevano estirpato e poi lo aveva inghiottito velocemente. Ciò non piacque molto al compagno: tutti sapevano che il cuore era la parte migliore della preda.
 
Ma in fondo, lei se lo meritava, forse più di lui.
 
Il lupo alzò il capo verso il cielo, come per controllare che tutto fosse sempre al suo posto: nubi, stelle, Luna. La stessa Luna che gli faceva compagnia tutte le notti e che solo in quella parte di vita era veramente riuscito ad apprezzare.
 
Inspiegabilmente, un ricordo del passato emerse dalla sua memoria, un ricordo perso nel tempo che conteneva uno dei loro primi incontri.
 
 
 
Era una notte come quella, identica, con la sola eccezione che quella notte nel cielo non si stagliava un imponente cerchio perfetto, ma un’elegante falce di luna.
 
Anche i loro corpi erano diversi, non erano come adesso ma erano nudi, privi della folta pelliccia e delle bianche zanne. Quella notte, la Dea celeste non era sorta per impossessarsi del loro spirito e risvegliare la parte assopita, ma era rimasta divisa, intenzionata ad osservarli nei momenti quotidiani.
 
La selva gli circondava. Erano soli.
 
Soli in mezzo alla natura.
 
Seduti in una piccola radura, piedi scalzi e petto nudo, osservano il cielo, osservavano la Luna. Affascinati come se la vedessero per la prima volta.
 
“Ei, Connor.” Lei lo chiamò, i brillanti occhi castani che splendevano di una scintilla selvaggia anche in quella forma.
 
“Cosa c’è?” Le aveva risposto lui senza distogliere lo sguardo dal cielo. La sua voce in quel momento fu quasi un sussurro, come se gli fosse mancato il respiro.
 
“Tu sai perché i lupi ululano alla luna?”
 
L’uomo, all’udire quella domanda, si voltò verso la compagna, con un’espressione quasi sorpresa. Lei gli rivolse uno sguardo intenso. Conosceva la risposta.
 
Connor distolse lo sguardo e fissò un punto indefinito della boscaglia. Poi, un sorrisetto a labbra serrate comparse sul suo viso. Certo che conosceva la risposta.
 
“I lupi ululano alla luna per richiamare il branco, la famiglia. Ululano per spaventare coloro che troppo osano avvicinarsi al loro territorio e infine, ululano per iniziare la caccia. Ecco perché lo fanno.”
 
Le parole erano scivolate fuori dalle sue labbra senza che lui le avesse cercate. In quel momento, gli era parsa una cosa ovvia, una verità inconfutabile che chiunque avrebbe dovuto conoscere.
 
Forse un tempo non avrebbe saputo dare la risposta, anzi, non si sarebbe nemmeno interessato a una domanda del genere. Ma adesso, trovare una soluzione a tale quesito gli riusciva semplice come respirare.
 
Ma le due sillabe che uscirono fuori dalla bocca della compagna non erano quelle che si aspettava.
 
“No.” Aveva risposto, con semplicità.
 
L’uomo la guardò incredulo “Come no? Io lo so perché lo fanno, l’ho provato. Nessuno meglio di me lo sa!”
 
“Io lo so, meglio di te” proseguì lei con fermezza “ E non è questo il motivo essenziale.”
 
Connor la osservò, quasi scocciato. Non gli piaceva essere contraddetto, faceva parte del suo carattere. Però, sapeva che ella aveva ragione. Disponeva di più esperienza rispetto a lui, la sua natura era tale fin dalla nascita. Mentre lui, bè lui, diciamo che aveva scelto una scorciatoia. Una scorciatoia infinitamente più spaventosa e dolorosa.
 
Con un cenno della testa la invitò a proseguire.
 
La donna, emise una breve risata, i capelli ribelli di un biondo sporco, corti fino a metà collo, gli incorniciarono il volto tondo.
 
I suoi occhi vennero attraversati da venature ambrate, mentre una strana scintilla gli percorreva.
 
“Ululano per amore.”
 
“Cosa?” Quasi urlò Connor, incredulo. Tutto si sarebbe aspettato fuorché quella risposta. Era assurdo.
 
“Scusami, ma non è possibile! Come fanno a-a ululare p-per…amore.” L’ultima parola l’aveva pronunciata con malcelato disgusto.
 
Ella scrollò le spalle e si mise le mani sui fianchi “Libero di non crederci giovanotto, ma è così.” Disse con nonchalance.
 
“Le tue risposte erano scontate, tipiche dei giovani alle prime armi.”
 
La sua ultima affermazione colpì Connor nell’orgoglio; lui non era un moccioso qualsiasi, era un adulto grande e vaccinato.
 
“Mi hai fatto solo un elenco delle cose che vedi e che già conosci. Qualsiasi umano con un minimo di documentazione avrebbe risposto come te.” Gli spiegò lei, con tono duro e saputo.
 
Era una maestra spietata.
 
L’uomo sbuffò e si portò una mano dietro la testa, massaggiandosi il collo.
 
Levò gli occhi al cielo “D’accordo, professoressa. Allora mi spieghi lei perché i lupi ululano alla luna, dato che io sono tanto incapace.”
 
La donna rise di nuovo “Tel’ho già spiegato.”
 
“No, intendo dire, cosa significa che ululano per amore.”
 
Lei lo guardò furbescamente “Eh, no!  Questo non te lo posso spiegare io, dovrai capirlo da solo.”
 
“M-ma…”
 
“Fidati, quando sarai pronto, lo capirai” asserì solennemente, chinando la testa.
 
“Ah, dannazione!  Sembra una di quelle stupide frasi da film…”
 
“Tsk, se l’ho pronunciata io, non credo proprio che sia tanto stupida, non credi?”
 
Connor la osservò con espressione neutra,indeciso su cosa rispondere, ma poi optò per la via meno dolorosa “Ah, no no, ci credo. Hai ragione tu.”
 
“Lo immaginavo.”  Esclamò lei, soddisfatta.
 
“Ma il maschio alpha rimango pur sempre io!” Disse Connor superbamente, puntandosi il pollice contro.
 
“Ah, non credo proprio lupacchiotto!”
 
La donna si avventò su l’uomo e ridendo iniziarono una finta lotta, rotolandosi tra le foglie e protetti dai rami, mentre l’occhio vigile della luna gli osservava dall’alto.
 
 
 
Già, ora che se lo ricordava, quella era stata una delle notti più belle della sua vita.
 
Il lupo nero osservò con dolcezza la compagna, che intanto aveva terminato il suo passo. Lei lo guardò stranita, non sapendosi spiegare il perché di cotanta tenerezza.
 
Il maschio, si diresse a capo chino verso la lupa, aggirando la carcassa ormai quasi completamente spolpata.
 
Si accucciò accanto a lei, strofinandosi contro il suo pelo. Quella, lo lasciò fare, quasi incurante.
 
Come in un ciclo infinito, entrambi si ritrovarono nuovamente a fissare la Luna.
 
Bella, eterna, maestosa, candida Regina.
 
Finalmente, dopo tanto tempo, il lupo nero conosceva il significato delle parole d’un tempo, capace oramai di attribuirgli un senso.
 
Ecco, per cosa i lupi veramente ululano alla Luna.
 
 
 
Per amore.
 
 
 
“Magari un giorno, lo saprete anche voi…”
  
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