PROLOGO
( *** )
L’America
è sempre stato il posto giusto per la
gente sbagliata.
Appena
ha messo piede sul suolo di New York, Olive
Davies si è sentita subito spaesata. Non vi è
nulla della sua cara Londra,
della vivacità sobria delle sue strade, del rispetto dei
suoi cittadini. Questo
nuovo luogo, dove sta cercando di innestarsi come una pianta portata dalla brezza, le sembra
arido e
caotico, rumoroso e insignificante, ma spera comunque di riuscire a
dare i
frutti dovuti.
Intorno
a lei
le persone si muovono senza attenzione, urtandola senza il minimo
riguardo, le
viene voglia di fermare tutti i passanti e obbligarli a scusarsi, ma si
ricorda
di essere un’inglese civile, ben educare e quindi desiste
velocemente.
−
Se avessimo preso una suite sul Titanic, il
viaggio sarebbe durato molto di meno, e non ti saresti annoiata
così tabto. –
la rimprovera l’uomo che le sta al fianco, ma la donna finge
di non sentire,
per non dovergli di nuovo spiegare tutte le sue teorie sulle tabelle di
marcia,
che vanno rispettate, a costo di partire due settimane prima, per
arrivare
anche solo sette giorni in anticipo.
La
voce dell’uomo le sembra così famigliare e
rassicurante, se paragonata a quell’accento cantilenato,
tutte quelle “erre”
marcate, pronunciate sgraziatamente dalle persone, che le camminano
vicino, anche
se probabilmente è il suo olfatto ad aver più
risentito del viaggio.
Le
sembra singolare non essersi ancora abituata all’odore
del mare, forse perché sul transatlantico è stata
costretta a rimanere sempre
all’interno, a causa della nausea, passando pochissimo tempo
sui ponti. Spera
solo non si sia attaccato ai vestiti che si è portata dietro.
I suoi
capelli sono rimasti scuri, mentre quelli dell’uomo che le
sta accanto si sono
schiariti, a causa della lunga esposizione al sole, a cui non erano
abituati.
Si
porta il fazzoletto al naso, e al suo
accompagnatore non sfugge il gesto veloce.
−
Cara cugina, spero che il vostro giudizio sulla
città non venga -----, in fondo questo è solo il
porto! – le fa notare
amabilmente il consanguineo, prendendola sotto braccio.
Ezra
Alexander Lawrence è quel genere di uomo, che,
passando per strada, ignorerebbe volentieri il suo migliore amico, per
lanciare
un’occhiata ad una donna e venderebbe suo padre per riempirla
di regali, anche
solo dopo una minima infatuazione. Così, quando la sua
adorata cugina ha
espresso il bisogno di trasferirsi per un poco negli Stati Uniti, ha
fatto i
bagagli ed è passato a prenderla con la sua macchina nuova,
rossa fiammante, un
autista e due biglietti per il Titanic, che hanno poi scambiato senza
profitto
per due su un più modesto transatlantico.
Batte
tre volte il bastone da passeggio, avvertendo
i due ragazzi americani con i bagagli di muoversi, per arrivare in
hotel il
prima possibile.
−
Ezra, mi meraviglio della tua inesperienza. – lo
canzona vivacemente aumentando il passo, con la sua voce dolcissima,
come un
cucchiaino di melassa – lo sanno tutti che il valore di una
città si riconosce
dai sobborghi.
−
Come il valore di un uomo si riconosce dalla
donna, che lo accompagna. – si fermano davanti un taxi scuro,
l’autista scende
e carica le loro valigie, li guarda con l’acquolina alla
bocca, è sicuro di
ricevere una buona mancia. Sono dei grandi signori questi, li si
noterebbe
persino dall’altra parte della strada.
−
Allora ritieniti molto sfortunato ad aver
accettato di scortarmi. – la donna si siede e la vettura
parte, lasciando
dietro di sé una nuvola scura, e il rimbombo del motore.
−
Hotel Plaza, grazie – il signor Lawrence comunica
al conducente, mentre prende una mano della cugina e se la porta
vicinissima
alle labbra, lasciandovi sopra un soffio leggero, che sa di tabacco e
di baci
umidi – Olive, la tua compagnia è sempre una
benedizione per me, e poi era
tempo che volevo tornare a New York, queste ex colonie offrono sempre
qualcosa
di nuovo. Magari l’amore, chi può saperlo.
Lei
non tenta di portare avanti la conversazione,
appoggia il gomito fuori dal finestrino, per sentire il vento lambirne
la pelle
olivastra e ride civettuola, piano, pianissimo, ma fa in modo che lui
la senta
nel caos che circonda la vettura.
I
palazzi prendono forma e poi la perdono
facilmente, mescolati dalla velocità, dai colori e dai
profumi, che avverte e
dimentica immediatamente.
È
la sua prima volta in America, e qualcosa le dice,
che dovrà aspettare molto prima di tornare nella sua amata
Londra, dalle sue
compagne.
Si
sente un pesce fuor d’acqua, ma non ha potuto che
allontanarsi dal suo acquario perfetto, per fuggire in quel mare
sconosciuto.
Le circostanze non sono mai state fortunate per lei, ma ha deciso che
si
impegnerà a rendere il suo soggiorno obbligato il
più proficuo possibile.
L’Hotel
Plaza li inghiotte con la sua imponenza,
sono scesi dal taxi da pochi secondi e già due facchini
hanno preso i loro
bagagli, per accompagnarli al check-in.
Olive
rimane quasi ipnotizzata dallo sfarzo della
hall, ma si avvia subito a prendere un giornale, lasciato su un
tavolinetto
basso vicino alla zona lettura.
Sul
piroscafo avevano pochissime notizie dalla terra
ferma, se non nulle, e non può che avvicinarsi la carta al
viso, per sentirne
l’odore così famigliare. Il
New York Times titola:
16th April, 1912
TITANIC SINKS FOUR HOURS
AFTER HITTING ICEBERG; 866 RESCUED BY CARPATHIA, PROBABLY 1250 PERISH;
ISMAY
SAFE, MRS. ASTOR
MAYBE, NOTED NAMES MISSING. (*)
Porta
una mano alle labbra, soffocando una preghiera
per un dio che non hai mai posato il suo occhio su di lei, mordendo
appena la
pelle morbida dell’indice, per poi passare a quella
inspessita sotto l’unghia.
La buona sorte, forse, finalmente è dalla sua parte.
Il
giorno successivo, il diciassette aprile 1912,
milioni di europei alzeranno gli occhi al cielo, per osservare una
delle
eclissi di sole più straordinarie dei precedenti
cinquant’anni. Qualcuno, in
Inghilterra, in un salotto davanti a the e pasticcini,
sorriderà, rigirando il
cucchiaino nella bevanda con un po’ di latte, forse si
capirà che perdere Olive
Davies è stato come perdere una stella.
Ora
brillerà dall’altra parte del mondo.
(§)
PRIMO
CAPITOLO
MARIE
OLYMPE DE GOUGES
“Le donne avranno
pur diritto di salire alla tribuna,
se hanno quello di salire al patibolo”
Sono
i tempi dei primi
veri condom, quelli di
gomma, guardati con sospetto e allo stesso tempo con ammirazione,
quelli che
gli uomini comprano di nascosto e portano contenti alle mogli o alle
amanti.
Sono
i tempi delle gonne lisce ad un palmo dalla caviglia per lasciare
intravedere
lo stivale, degli scolli ampi alla sera e dei primi strass.
È
l’estate cruda della splendente Belle Époque,
tuttavia questo lo ha potuto
decidere soltanto il tempo.
Sono
i
primi giorni di un novembre tiepido, il Ringraziamento è
passato da poco ed uno
dei club delle “ragazze” di New Town, piccola
cittadina non lontana da Washington,
da questa mattina conta un nuovo membro. È una
novità inaspettata, una piccola
scossa a turbare la loro vita liscia come l’olio.
C’è un aria frizzante,
elettrica, quasi esasperante. Le donne presenti si sentono osservate da
una
presenza sconosciuta, che filtra sotto la porta, dagli spifferi delle
finestre.
C’è
qualcosa di tragico nello spezzare della loro monotonia, come il moto
di un
pendolo a cui si inceppa un ingranaggio.
−
Non
potete capire −
va dicendo la padrona di casa da un buon
quarto d’ora – è una donna
così colta e
poi ha un portamento così elegante, ha un armadio da far
vergognare ognuno dei
nostri, mie care. Non ho visto in vita mia dei cappellini tanto
deliziosi, come
vanno adesso in Inghilterra. Vi ho accennato che viene da
lì? –
parole così
delicate sembrano fuori posto sulla lingua di Caroline Watson, la
zitella-vedova (“dipende dai punti di vista” dice
lei) dell’allegro
gruppetto: grassa come un maiale
e spicciola come il più insignificante dei penny, figlia di
quella borghesia
agiata, ma semplice e diretta.
Per
questa
riunione ha tirato fuori il servizio da the buono, quello di porcellana
fine
con le decorazioni blu finto cinese, i cucchiaini d’argento
ed è persino andata
ad ordinare i pasticcini nella più famosa e cara pasticceria
della città, ma non
sembra averne abbastanza. Cammina avanti e indietro per la stanza,
togliendo
gli ultimi residui di polvere dai soprammobili e nascondendo quelli
meno
carini, per poi passare a requisire il cappellino di una delle presenti
facendolo aderire meglio alla testa.
−
Ehi! −
si
lamenta Tracy Morris dalla comoda poltrona sulla quale credeva di aver
trovato
pace.
−
Scusa,
cara, ma abbiamo ospiti! −
−
E noi
non siamo ospiti, Caroline? −
la schernisce Marie Allen,
dall’altra parte della stanza, mentre sfrega con le unghie
sulla copertina del
libro, del quale avrebbero dovuto discorre quel pomeriggio.
−
Voi
siete mie amiche e mi aspetto che, da tali, vi comportiate in modo
affabile,
così da far diventare amica nostra anche la signorina del
piano di sotto. –
la donna si ferma davanti ad uno specchio, si sistema i boccoli scuri e
gli
orecchini, che riflettono la luce del lampadario.
Marie
la
guarda contrariata, si trovano così bene tra di loro, da
anni, e non ha mai
apprezzato i cambiamenti, quest’intrusa non può
sconvolgerle i giovedì
pomeriggio, con quale diritto arriva e prende il posto
d’onore?
−
Suvvia,
non arrabbiarti. Magari sarà una persona piacevole. –
le
suggerisce un’amica, vedendo la sua perplessità.
−
È che
tu, Tracy, vedi il bello anche dove io, più razionale, vedo
un’incognita.
−
Da
quando sei diventata così matura, Marie? Oh sì,
giusto, da quando sei diventata
la signora Allen! –
le risponde Miss Morris le
risponde così, tentando di prendere un pasticcino dal
vassoio sul tavolino al
centro della stanza, ricevendo occhiate da tutte le presenti.
−
Dovresti
cercarti marito anche tu Tracy. Hai quasi vent’anni e non
puoi aspettare i
cinquanta, o finirai come la nostra Caroline. −
alza
la
voce, Marie, per fare in modo che l’interessata la senta.
−
Parli
bene, tu, ma io ho vissuto la vita nel modo migliore! Ho ereditato
dalla mia
famiglia tre negozi, dico io: tre! Quanto tempo avrei avuto da dedicare
ad un
uomo? E poi ho avuto anche io i miei flirt qua e là! −
risponde muovendo le mani convulsamente.
−
Ma se
non sei mai uscita da *****! dice Mrs. Thomas, facendo
ridere le compagne.
−
E
allora, mia cara Amber, dovresti stare attenta a tuo marito. −
le
sorride complice.
Caroline
ha una parola pronta per tutti: che sia il pastore di cui non le
è piaciuto il
sermone o una delle sue clienti che si lamenta, non risparmia niente a
nessuno,
come non risparmia nella vita.
Ha
comprato da dieci anni un appartamento al terzo piano di uno splendido
edificio
e lo ha arredato come una reggia: i tendaggi migliori, tappeti italiani
e
lampadari di cristallo.
Riempie
casa
per riempire il vuoto che ha dentro, dicono alcuni, ma Marie
è certa che
quell’abitazione, per quanto pacchiana possa sembrare,
è l’espressione di ciò
che è Mrs. Watson: ricca in maniera spropositata,
intelligente, per niente
modesta e un poco permalosa.
È
la sua
celebrazione, un tempio che si è costruita intorno beandosi
di sé stessa.
Casa
sua
è molto più semplice: un appartamento simile per
dimensioni e colore delle
pareti, ma arredato da una giovane coppia sposata da neppure due anni.
Le piace
pensare che crescerà con loro, magari si
arricchirà come lo farà il loro amore
e alla fine sarà un posto bellissimo per ospitare i nipoti
per le feste,
sedersi sul divano a fine giornata o guardarsi semplicemente negli
occhi.
Suo
marito è l’essenza del capitalista prudente:
possiede una piccola attività che
gestisce personalmente firmando scartoffie su scartoffie e mette da
parte una
porzione dei risparmi da investire in borsa nelle società
che ritiene più
opportune.
È
un
calcolatore Robert Allen, uno di quelli i cui calcoli hanno sempre un
buon
fine, e lei se ne è innamorata per questo: per la sua
capacità di calcolare fin
nel dettaglio ogni possibilità di errore e perché
è un ottimo giocatore di
carte proprio come lei.
Qualcuno
bussa alla porta.
−
Deve essere
lei! −
squittisce eccitata Caroline.
−
Spero
che ne valga la pena. −
sbuffa Tracy guardando la
pendola che segna la puntualità dell’ospite.
Una
figura sguscia del salottino, seguendo Caroline, che le ha aperto la
porta con
molta enfasi, rivelandosi ai loro occhi, come un’immagine
sacra tirata fuori
dal portafoglio.
−
Oh,
spero vivamente di valerne la pena signorina. –
dice una voce,
che ancora non conoscono, ma che tra poco sapranno individuare persino
in mezzo
ad una folla.
Olive
Davies non è poi così male, anche se
dell’inglese ha un po’ poco.
Ha
i
ricci neri impreziositi da un fermaglio argentato, le labbra carnose e
il viso
paffuto da donna ricca in vacanza e un sacco di lentiggini scurissime
sotto gli
occhi castani.
Mettendole
vicino, Marie ci giurerebbe, parrebbe lei quella British,
con i suoi capelli biondo slavato, il naso appuntito e
un’altezza discreta, ma basterebbe una piccola frase uscita
di bocca per far
capire che lei, di inglese, ha solo le scarpe.
Olive
Davies è davvero una donna deliziosa, dai modi gentili ed
educati, e possiede
anche un humour gradevole e non pesante.
−
Raccontaci qualcosa della tua vita
in Inghilterra. – le chiede Caroline, ammaliata, offrendole
un altro
pasticcino, un cannolo italiano, e tornando a sedersi sulla sua
poltroncina
beige.
−
Anche là facevo parte di un club −
risponde avvicinandosi alla finestra e scostando le tende bordeaux di
broccato per
guardare fuori, richiudendole subito, riportando la penombra nella
stanza – un
po’ particolare, direi, ed abbastanza numeroso.
−
Di che si trattava? − chiede Marie,
soppesando il silenzio che le ha circondate.
Si
gira di nuovo verso le compagne e
con un sorriso furbo azzarda:
−
Sono una suffragetta.
**
Il
letto
di Marie è freddo, il corpo vicino al suo è
lontano, sotto le coperte i piedi
si sfiorano, le pagine dei libri vengono sfogliate rapidamente, come in
una
gara. Sono sincronizzati in modo patetico, sono sposati da solo due
anni e
respirano già alla stessa frequenza.
Eppure
non vi è noia nei loro movimenti, solo la tacita scelta di
fondersi in un unico
essere molle, con due cuori e quattro occhi. Marie si chiede spesso se
i loro
pensieri siano connessi o gli stessi. Se potesse leggerle nella testa
riderebbe?
Chiude
il libro, Robert fa lo stesso, nell’identico momento, si
voltano l’uno verso
l’altro e forse ha già capito tutto e
vuole solo farla sentire una bambina stupida.
−
Robert?
−
Mh?
Le
novità non le piacciono per nulla, le fanno venire delle
orribile chiazze rosse
sul collo e sul seno, le fanno prudere le braccia e quella donna ne ha
portata
una grandissima, che l’ha colpita in fronte come un sasso.
Le
piace, non le piace, è troppo presto per capirlo, per
sentirla propria.
−
Ti ho
già detto che oggi al mio club si è aggiunta una
signorina inglese? –
cerca
un’unghia con i denti, ma si accorge di averle già
mangiate tutte.
−
Davvero? Di buona compagnia, spero.
−
Non
posso ancora saperlo con certezza… è di Londra,
penso si senta un po’ spaesata.
–
prende
un respiro lunghissimo prima di aprire bocca e scoprire che non si
ricorda dove
ha messo le parole –
sai, lei è una suffragetta. –
dice,
rivelandolo come un segreto terribile e dolciastro.
Robert
sorride,
non è poi così orribile allora, poi scoppia in
una risata che copre il silenzio
tra loro, qualche secondo, poi sente le lenzuola muoversi e lo vede
girarsi su
un fianco per poi cingerle la vita con il braccio con cui non si regge.
Si
avvicina al suo viso, le sorride, e la bacia.
−
Ne
possiamo parlare domani mattina? –
le
chiede, accarezzandole il viso.
Marie
ride, avrà tutto il tempo il giorno seguente per parlarne.
Ha
altro
a cui pensare in questo momento.
**
C’è
una donna, seduta scompostamente ad una
scrivania scura, scrive veloce, precisa, decisa. È
concentrata, lo dimostrano
le rughe sulla fronte e le dita che stringono la penna d’oca
in modo
innaturale. Non è molto giovane, ma il suo viso è
fresco e limpido, il
rimasuglio di una purezza che l’ha lasciata tempo addietro.
Un
uomo, sdraiato su un letto poco distante da
lei, sbuffa irrequieto alzandosi da quella comoda posizione.
−
Qu’est-ce que tu fais?(**) −
le chiede avvicinandosi.
È
completamente nudo, non ha nemmeno la buona
creanza di raccogliere le brache sul pavimento e indossarle.
−
Scrivo.
−
risponde mentre si sposta un poco per
lasciargli leggere il titolo. Lui si appoggia come un uccellino curioso
alla
sua spalla, le posa un bacio sulla pelle candida lasciata scoperta
dalla
vestaglia, sotto il collo lungo e magro. Sbircia tra i suo capelli
sciolti, li
morde.
− Déclaration
des Droits de la Femme et de la Citoyenne(***)? Mar…
−
legge,
quasi non ci pensa, se lo rigira tra i denti e quasi si strozza con la
propria
saliva quando capisce.
−
Ho
preso dei contatti con Maria Antonietta. –
rivela la donna, intingendo la piuma nel
calamaio.
L’uomo
muta completamente espressione, è
preoccupato, porta le mani al viso.
−
In che guaio ti stai
cacciando? Robespierre ti
odia e non è l’unico, scrivi pure tutto quello che
ti pare, ma non immischiarti
nella politica, non è il momento. Non adesso,
c’è una rivoluzione là fuori! Non
compromettere di più la tua situazione.
−
… ne
parli come se la vita in gioco fosse la tua. −
ride voltandosi verso di lui che ha già
ripreso posto sul letto.
−
Ti ho
mai detto che sei la mia vita? −
−
Je ne
croix pas(****). –
ride,
raggiungendolo e baciandolo
con una delicatezza che li sorprende entrambi.
−
Sei
bellissima. −
le sussurra a fior di labbra, e riprende a
baciarla sempre con più passione.
Intanto
sulla scrivania la carta è irrequieta,
incompleta, scalpita per essere finita, ma Olympe ha altro a cui
pensare,
nonostante abbia poco
tempo prima della
sua fine.
Una
testa rotola sul patibolo, il boia l’ha
tagliata, ed il sangue scorre come prima scorrevano le parole.
La
Francia non ha più la sua Olympe, ha una
martire di una guerra combattuta da troppi pochi per esser definita
tale.
Robespierre
guarda la testa che continua a
rotolare, l’emblema di un cranio che ha dato tutto per
ciò in cui credeva.
Il
risveglio dall’incubo è veloce, traumatico.
L’amaro
ancora in bocca e un mattino ancora lontano.
Muove
le
dita fino al collo per vedere se tutto è ancora al suo posto.
In
fondo
la testa saltata non è la sua.
Nda:
prima di iniziare un papiro voglio lasciarvi
due note.
(*)
è il vero titolo del New York Times del 16
Aprile 1912, l’ho trovata sul sito del giornale, dove sono
disponibili alcuni
numeri “storici” davvero interessanti, se ha
qualcuno può servire questo è il
link.
(**)
“Che stai facendo?”
(***):
Dichiarazione dei diritti della donna e della
cittadina.
(****)
“Non ci credo.”
Allora
questo capitolo è dedicato al mio personaggio
storico preferito: Marie Olympe de Gouges, che durante la Rivoluzione
Francese
scrisse veramente la Dichiarazione e fece davvero la brutta fine
sopradescritta, perché contro la pena di morte per i reali e
perché era un
personaggio parecchio scomodo per Robespierre. Vi lascio anche il LINK
per leggere
la Dichiarazione se può interessarvi, è molto
breve non vi prenderà più di
cinque minuti scarsi.
Piano piano tutti i personaggi salteranno fuori, si legheranno insieme alle donne famose a cui dedicherò ogni capitolo con un breve flashback. Il prologo e il primo capitolo hanno dovuto presentare tutta la storia, ma dal prossimo prometto di entrare più nel particolare. Questa storia tratterà della lotta per il diritto al voto negli Stati Uniti, attraverso la vita di alcune donne, che dovranno lottare per cambiare la propria vita in meglio.
Spero
vi sia piaciuto, a presto!