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Autore: Megs Sully    30/04/2014    14 recensioni
Strawberry Hill è una graziosa cittadina inglese, un luogo come tanti apparentemente. Ma in esso si muovono le creature più disparate, alcune tentando di celare o reprimere la loro vera natura, altre non ancora consapevoli di chi siano in realtà e quale sia il loro ruolo nel grande disegno tracciato da qualcuno in un'epoca remota. Incontri, scontri, inganni, antichi rancori si alternano alla nascita di nuove alleanze, amicizie, amori. E nel frattempo qualcuno, nell’ombra, continua a tramare…
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1
 


      Il cielo si stava gradualmente rischiarando assumendo tonalità ambrate, anche se il sole tardava a mostrarsi. Sarebbe stata una giornata limpida con una temperatura gradevole, una vera e propria giornata di primavera, non di quelle grigie e fosche che ricordano l’autunno.
      Ryan Norwest percorreva la strada che dall’aeroporto di Heathrow portava a Richmond e che lo avrebbe condotto presto a Strawberry Hill, considerata la velocità sostenuta con cui guidava la fiammante Audi R8 che aveva acquistato appena rimesso piede in Inghilterra. Abbassò il finestrino e gustò la piacevole brezza mattutina sul viso e tra i capelli, poi rivolse uno sguardo alla sorella Amelie che sedeva di fianco a lui mantenendo lo sguardo ostinatamente rivolto verso un punto indefinito nello spazio di fronte a sé.
      Ryan corrugò la fronte e premette improvvisamente il piede sull’acceleratore aumentando notevolmente la velocità ma ancora, nonostante il contraccolpo, non ottenne nessuna reazione da parte della sorella. Accese la radio e la melodia di Candle in the wind si diffuse nell’abitacolo. Amelie alzò gli occhi al cielo con espressione annoiata.
      «Tanto la nostra candela non brucerà mai…» sbuffò e incrociò le braccia sul petto, corrucciata.
      «Ne sei davvero così convinta?» la interrogò il fratello soddisfatto di aver provocato una reazione in lei.
      Ma in risposta Amelie si strinse nelle spalle e voltò il viso dall’altra parte guardando nuovamente fuori dal finestrino.
      «Non manca molto…» aggiunse Ryan sospirando nervoso a causa dell’ostinazione della sorella.
      «Già» fu l’unica risposta che ottenne.
      «E tu come sempre sei arrabbiata» concluse Ryan stringendo il volante con più forza tra le mani.
      «Arrabbiata non rende l’idea» replicò Amelie senza voltarsi ma incominciando a giocare con una ciocca di capelli scuri che arrotolava nervosamente intorno al dito.
      «Insomma…» sospirò Ryan aggrottando la fronte «quando ce ne andiamo hai le crisi perché vuoi restare e mi accusi di strapparti dalle tue radici, quando decidiamo di tornare vai in depressione e fai l’offesa!»
      «Quando decidi…» lo corresse Amelie voltandosi verso di lui risentita.
      «Quando decido!» Ryan rilasciò per un istante le mani con cui reggeva il volante e poi lo riprese, stringendolo con vigore quasi rabbioso. «Quando è giunto il momento di tornare, insomma!»
      Amelie non replicò e tornò a rivolgere la propria attenzione fuori dal finestrino, come totalmente assorbita da uno spettacolo interessante a cui a nessun altro era concesso partecipare. Ryan lanciò uno sguardo nella sua direzione. Era solo la semplice, monotona e verdeggiante campagna inglese, là fuori. E Amelie aveva ancora quattordici anni. Ogni volta che tornavano a casa, a Strawberry Hill, Ryan si illudeva potesse cambiare qualcosa. Qualsiasi cosa. Invece le sue speranze venivano annientate ogni volta. Amelie era ancora la quattordicenne nervosa e facilmente irritabile della volta precedente e di quella prima ancora. E probabilmente quel luogo aveva la prerogativa di rammentarle il suo dramma più di ogni altro. Doveva arrendersi. Non le sarebbe mai passata. Avrebbe dovuto imparare a convivere con la silenziosa e ostinata furia della sorella minore nei suoi confronti. Sempre e per sempre.
      Ryan Norwest scacciò il pensiero e continuò a guidare, apparentemente tranquillo. Poi tornò a osservare Amelie con la coda dell’occhio. In effetti, come darle torto? Lui stesso incominciava a sentirsi stizzito mentre si avvicinavano sempre più alla cittadina dove tutta la loro vita era cambiata in pochi istanti. Trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato era stata la loro unica colpa, se così si poteva chiamare. L’alternativa sarebbe stata soccombere come tanti altri. Al contrario lui aveva deciso di scendere a compromessi. Forse era stato codardo, oppure coraggioso. I punti di vista potevano essere divergenti in proposito. Meditava intanto su tutte le tappe necessarie che avrebbe dovuto percorrere una volta arrivati. Sempre le stesse, del resto. Doveva annunciare la propria presenza e quella di Amelie in quella città che sarebbe stata sua per un periodo di tempo ragionevole prima di essere costretti a sparire di nuovo. Giusto il tempo di un ricambio di tre o quattro generazioni, in modo tale che nessuno potesse più ricordarsi di loro. Anche se ultimamente la situazione si era resa più difficile da gestire a causa di tutti i mezzi tecnologici a disposizione dell’umanità. Grandi passi in avanti per l’umanità che però a loro complicavano l’esistenza. Ryan temeva che prima o poi sarebbe giunto il momento in cui non sarebbero più potuti tornare lì o in qualsiasi luogo in cui erano già vissuti. Chissà, forse proprio quella sarebbe stata la loro ultima volta, la loro ultima visita a Strawberry Hill.
      Ryan Norwest socchiuse per un attimo gli occhi verdi e rallentò notevolmente la corsa facendo attenzione che l’auto non sbandasse. Forse sarebbe stata la soluzione migliore, non tornare più in quel luogo. Mai più. Non appropriarsi mai più del palazzo che avevano ricevuto in eredità, anzi, in ricompensa. Lasciare andare tutto, per sempre. Tutti i ricordi e tutti i rimpianti. Avvicinandosi sempre più alla meta Ryan decise di modificare il tragitto, allungando ulteriormente la strada. Amelie distolse l’attenzione ostinata dal finestrino e gli rivolse uno sguardo vagamente interrogativo. Ryan scrollò le spalle con noncuranza mentre Amelie tornò a guardare fuori dal finestrino, ripiombando nell’indifferenza.
      Accelerò nuovamente e percorse la strada alberata che lo avrebbe condotto direttamente in centro città. Rievocò con la mente tutti i cambiamenti che la sua cittadina natale aveva subito nel corso delle epoche e di cui, come sempre, lui e Amelie sarebbero stati testimoni. I colori sembravano essere diventati più vivaci dall’ultima volta. O forse era solo un’impressione. Era primavera e probabilmente giorno di mercato.
      «A quanto pare siamo arrivati!» Amelie si decise a parlargli ma raggiungendo la stradina dissestata che conduceva al palazzo Ryan aveva perso qualsiasi volontà di fare conversazione.
      Fermò la macchina davanti al portone principale, senza nemmeno guardare l’immenso edificio che ormai era diventato residenza temporanea dei Norwest ogni volta che si ripresentavano in città.
      «Alfred ci aspetta, ha già preparato tutto come al solito» disse scendendo dall’auto e sbattendo la portiera.
      «Perché tutti i nostri maggiordomi si chiamano sempre Alfred?» sospirò la sorella scendendo svogliatamente dalla macchina.
      «Non si chiamano sempre Alfred» replicò Ryan avviandosi verso l’ingresso. «Alla fine è solo un nome che usiamo per comodità.»
      Amelie alzò gli occhi al cielo e lo seguì scuotendo la testa.
      «Se sei troppo pigro per ricordarti i veri nomi, ovviamente…» si fermò con il fratello davanti al portone. «E perché non siamo entrati in macchina dal portone?»
      «Perché non abbiamo l’aggeggio automatico ancora…» borbottò Ryan cupo.
      «Vuoi dire il telecomando?» Amelie lo guardò con espressione di scherno. «È così che si chiama l’aggeggio automatico. Te-le-co-man-do!» scandì la parola.
      «Voglio dire il telecomando» annuì Ryan premendo il pulsante a lato del grande portone di legno che dopo alcuni istanti si aprì con un leggero fischio.
      Ryan risalì in macchina, aspettò che la sorella facesse lo stesso ma la ragazza scrollò le spalle e si avviò a piedi all’interno dell’ampio cortile.
      Sulla porta di casa Alfred li aspettava. Era un uomo alto e lievemente curvo, ormai anziano ma con un’espressione ancora vivace nello sguardo. Attese in silenzio che Ryan parcheggiasse e scendesse dall’auto e aprì la porta per far passare lui e Amelie.
      «Bentornato padrone» piegò lievemente il capo, rivolgendosi poi ad Amelie con un cenno di saluto. «Signorina.»
      Ryan annuì e lasciò vagare fugacemente lo sguardo per il salone principale.
«A casa» bisbigliò pur sapendo che quella era solo parzialmente la verità. Non riusciva a dimenticarsene, era come se qualcosa ogni volta gli rammentasse che quel luogo in realtà non gli apparteneva, non gli era mai appartenuto.
      Amelie lo sorpassò e andò a stendersi sul primo divano che si trovò di fronte. Chiuse gli occhi ignorando totalmente lui, Alfred e il resto della casa. Come se intendesse estraniarsi da tutto, in un mondo in cui loro non erano invitati.
      «Posso preparare qualcosa per pranzo, signore, oppure…» Alfred si rivolse a Ryan con tono cortese.
      «Non prendiamoci in giro, Alfred» sorrise Ryan rivolgendogli un’occhiata benevola ma perentoria. «Sappiamo entrambi che non è necessario. Grazie comunque.»
      «Perché no?» intervenne Amelie voltandosi su un fianco e sostenendosi su un gomito. «Potrebbe anche venirmi voglia di sgranocchiare qualcosa.»
      Ryan scrollò le spalle e corrugò la fronte. Eppure lo sapeva che Amelie non avrebbe mai perso una sola occasione per contraddirlo. Perché continuava a illudersi che la situazione cambiasse e che il disprezzo della sorella nei suoi confronti diventasse un giorno meno palese?
      «Va bene allora, mangia se vuoi mangiare!» rivolse uno sguardo al maggiordomo che annuì condiscendente. «Io devo fare il solito giro di visite.»
      Il solito giro di visite che effettuava ogni volta che si rifaceva vivo in città, pensò. Ogni volta che si rifaceva vivo, che assurdità riferito a lui. Che alla fine il solito giro di visite si riduceva di norma a una sola visita obbligatoria. Quella a Jean Claude von Klausen. Avrebbe pensato lui a tutto, a mettere tutto in regola. Per il resto doveva semplicemente dare un’occhiata intorno per rendersi conto di cosa fosse cambiato e cosa fosse rimasto uguale. La cittadina in fondo aveva ben pochi punti fermi. Punti fermi viventi con cui fosse possibile interagire nuovamente, quasi nessuno. Lo distolse la voce suadente di Amelie.
      «Cucina bene come suo nonno, Alfred?» ridacchiò. «Sa, mi è venuta una certa fame! Vorrei un tè all’inglese con una bella fetta di torta di mele! Come l’ultima che ho mangiato qui magari!»
      «Probabilmente non tanto bene» sorrise ossequioso il maggiordomo, assecondandola. «Ma spero sia comunque di suo gusto, signorina. Preparerò subito.»
      Ryan si voltò verso la sorella che si era alzata di scatto dal divano e le rivolse un’occhiata gelida. Non poteva permettere che cominciasse già a combinare guai, erano appena arrivati.
      «Poi farò una visitina a scuola» lo sfidò la ragazza inclinando leggermente il viso e mordendosi le labbra rosate, come una novella Lolita in vena di dispetti. Ecco, esattamente ciò che Ryan temeva.
      «Già che ci sei ritira i moduli d’iscrizione» annuì cercando nonostante tutto di mantenere un tono indifferente.
      «Voglio iscrivermi a medicina» Amelie incrociò le braccia sul petto e si morse il labbro inferiore con più intensità. «All’università! Che ne dici Alfred, potrei essere una dottoressa eccellente vero?»
      «Non dire sciocchezze» ribadì Ryan senza nemmeno guardarla, prima che Alfred potesse rispondere. «Sei troppo giovane per frequentare l’università e lo sai!» Alfred ne approfittò per andare a ritirarsi in cucina.
      «No, non sono troppo giovane!» gli si avvicinò la sorella per attirare forzatamente il suo sguardo, pronta a lottare pur di averla vinta. «E lo sai bene anche tu!»
      «Ne abbiamo già discusso, Amelie, tante volte anzi troppe!» Ryan evitandola si avviò verso la porta d’ingresso, poi si voltò verso di lei. «E non voglio più tornare sull’argomento. Vai a ritirare i moduli d’iscrizione del liceo, domani cominci le lezioni. E non combinare guai nel frattempo. E non infastidire Alfred!»
      «Sarebbe assurdo iniziare ora!» borbottò Amelie. «Siamo in primavera ormai, la scuola finirà presto!»
      «Lo so bene che siamo in primavera e non mi importa» replicò Ryan per ripicca, sebbene si rendesse conto che la sorella aveva effettivamente ragione questa volta. «Domani tu inizi la scuola, il liceo, che ti piaccia o no!»
      Non attese risposta. Se ne andò nervoso sbattendo la porta dietro a sé.
 
                   
                                                                  ********************
 
      Nascondersi era ormai un gioco. Un gioco di cui conosceva alla perfezione ogni regola. Ormai i mascheramenti non erano più un espediente con cui difendersi, ma qualcosa di cui servirsi per arrivare alla meta. Sempre più vicino. I tempi erano cambiati. Non vi era più costrizione, non vi era più sottomissione a regole stabilite da altri. Ma sadismo, manipolazione. Aveva imparato a giocare la sua partita, finalmente. Aveva avuto ottimi insegnanti, del resto.
      Spiare il ritorno dei Norwest e il loro ingresso a palazzo era solo l’inizio. Erano ancora tanto ingenui, tanto indifesi e ubbidienti, nonostante il trascorrere degli anni. Decisamente non erano nati per regnare, ma per servire. Ryan soprattutto. Bastava comandare e lui prontamente eseguiva. Tutto secondo copione, come un bravo attore sulla scena. Del resto il prezzo che avevano pagato era stato alto, anche per loro. Ma evidentemente era una questione di carattere e di principi. E a loro mancavano entrambi. Invece la sua rabbia non aveva prezzo, non aveva ricompensa. Voleva riprendersi tutto, tutto quanto era stato suo. Ma per il momento non restava che attendere. Non era ancora arrivato il momento. Doveva avere pazienza.
 
 
 
                                                                  ********************
 
      L’appartamento sopra la libreria di libri antichi era piccolo ma gradevole e abbastanza accogliente. Ciò di cui aveva bisogno per riprendere contatto con un’esistenza quasi normale. Aveva avuto difficoltà a riadattarsi alla vita di superficie ma ora che la primavera era finalmente arrivata non riusciva a spiegarsi come avesse potuto rinunciarvi per tanto tempo. Il cielo azzurro che scorgeva dalla finestra e i nuovi colori erano invitanti, l’aria tiepida stimolante.
      James Foster aprì il frigobar nella sua minuscola cucina e afferrò una birra. La stappò e la sorseggiò lentamente andando a sedersi sul divano, poi accese la televisione con gesto automatico. Il programma su cui era sintonizzata non gli interessava, ma gli serviva solo per sentire voci e vedere immagini di persone. L’umanità gli era diventata estranea nel sottosuolo. Doveva imparare a vivere ancora tra i due mondi. Con il mondo sotterraneo aveva sempre avuto più confidenza, con quello di superficie invece no. Come se costantemente gli rammentasse la sua colpa. Come se ogni forma vivente lì fosse testimonianza della sua diversità, del suo costante mutamento. E lo giudicasse per una condizione che comunque non era dipesa da lui.
      La verità era che nessuno poteva vederlo realmente, a meno che non fosse lui a volerlo. Ma questo significava anche che nessuno poteva conoscerlo per ciò che era effettivamente. Tranne Andres Flick, il proprietario della libreria sottostante e del piccolo appartamento in cui gli aveva concesso di vivere. Herr Flick, come tutti lo chiamavano, sapeva più di quanto a lui stesso fosse mai stato concesso di sapere. Non solo perché era notevolmente più anziano di lui. James cambiò canale e sintonizzò la televisione su un programma di cartoni animati in cui un gatto bianco e nero dall’aria imbronciata minacciava di mangiarsi un uccellino giallo che non ne voleva sapere di tacere. Sorrise sorseggiando la sua birra. Herr Andres Flick era un eterno. Ne doveva aver viste e sentite parecchie, più di quante ne avrebbe mai rivelate probabilmente. James Foster invece era soltanto un mutaforma poco più che ventenne.
 
 
 
 
   
 
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