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Autore: RLandH    01/05/2014    3 recensioni
“Mamma dice che devo tenervi d’occhio” aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine.
Leonardo Da Vinci incontra in un sogno un ragazzino che sembra presentarsi come un'altra sorsata alla fontana della conoscenza.
Girolamo è perseguitato da incubi.
Una serva, un artista, una madonna ed un indovino.
E tutti sono legati inevitabilmente dal desiderio di una donna di conoscenza, incapace di viver ancora nel dubbio.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto.
Genere: Avventura, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Precisazione doverosa: Non mi sono fidata di Chemical lady, dunque la MIA Zita è ancora viva! Riario ha trovato il modo di salvarla (per ora … ù.ù), anche perché per questa storia mi serva, non che abbia un gran ruolo, ma insomma ne ho scritto parzialmente uno per lei … Dunque … Non mi sembrava carino eliminarla così …

Ho cercato di seguire i vostri consigli e fare frasi più brevi con più o meno virgole a seconda dei casi(?) ma sono un caso fallimentare, prometto di migliorarmi! Non possedendo ancora una Beta e non essendo riuscita a costringere la mia vicina di banco a correggerlo (ma ci sto lavorando! Ho dei dannatissimi occhi da cerbiatto! Posso farcela!), fino a quel momento non esitate ad essere spietate e date bandierine dei colori che volete.

Il resto delle precisazioni a fondo pagina.

Con amore, RLanH.

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

Atto II: Perché è abbattuto il tuo volto?

 

 

(1479)

Yana osservava quasi divertita i due giovani, mentre se ne stavano reclini quasi affetti da gobba per cercare di creare il disegno migliore, che avrebbe potuto permetterli di vincere la competizione per poter ritrarre la madonna che era venuta qualche giorno prima a richiedere un suo ritratto. Lei voleva Leonardo Da Vinci, da quello che aveva capito, ma s’era dovuta accontentare degli altri due, aveva detto loro che chi avesse creato il dipinto più bello avrebbe vinto la commissione ed anche la possibilità di incassare la ricompensa. Non che Yana capisse questa cosa, nella sua cultura le era stata insegnata che l’arte era il linguaggio degli dei, non un mero vanto degli uomini, per questo quelli che erano artisti erano incaricati di disegnare i tratti sacri degli dei sulle pelli.

“Ed è una bella donna?” aveva domandato Amerigo Vespucci, che quella mattina era venuto a trovarla, vestito di tutto punto ed elegante come un nobil uomo, ora famoso grazie alla sua America. Tra i due era nata una sorta di affinità, cresciuta nei tre mesi passati ad aspettare Leonardo e Zoroastro sulla spiaggia, mentre quelli erano persi tra divinità lontane e maledette. All’inizio Yana aveva trovato quanto mai sgradevole la presenza dell’uomo, ma alla fine si era abituata. E vederlo tutto ben vestito le piaceva anche di più, peccato che da quando avesse scoperto la nuova terra, Amerigo fosse sempre meno disponibile. “E’ una bambina” aveva detto Yana freddamente, la verità era che non le era piaciuta per niente la ragazzina, aveva lo stesso sguardo duro degli schiavisti, lo stesso furore di Alfonso. S’era sentita in profondo disaggio davanti quegli occhi. “Una bambina ricca” aveva mormorato Amerigo, chiudendo le dita sul mento, “Quanti uomini di scorta?” aveva domandato, “Non-la-deruberai” aveva detto  con voce schietta, incrociando le braccia al petto,  con sguardo truce verso l’uomo, quello aveva riso divertito, “O piccola Yana, non era a quello che puntavo” aveva aggiunto, non riuscendo a cancellare dalla donna l’espressione infastidita.

Yana si avvicinò ai due ragazzi, non capiva quella loro arte, non ci riusciva, aveva trovato nei disegni di Leonardo qualcosa di inspiegabile ed inconoscibile, ma in quegli artifizi ben organizzati erano sterili, non avevano nulla di bello. Guardò i due lavori, senza distrarre in alcun modo gli artisti, cercando di trovare qualcosa che le era sconosciuto. Amerigo le era venuto dietro, lodando di belle parole, quello che era Botticelli, “Siete proprio bravo” aveva detto gentile, “Lo so” aveva risposto l’artista senza preoccuparsi neanche di sollevare lo sguardo, troppo preso dall’immagine che stava disegnando. “Signora …” mormorò Lorenzo con voce gentile, la donna sollevò un sopraciglio a quell’appellativo, “Non sono una signora io” disse fredda, “Potrebbe tornare dove era prima?” chiese innocente, mostrando sulla tela l’immagine del viso d’una donna, Yana sbattè più volte le palpebre prima di sorridere amichevole  e tornare dove era prima, in modo che Lorenzo potesse finire. “Qualcuno si è invaghito di te, piccola Yana” disse profondamente divertito Amerigo, “Non di me” rispose la ragazza, pensando alle gote arrossate e gli occhi rapiti che il ragazzo pochi giorni prima aveva mostrato per Leonardo.

Verrocchio era venuto a supervisionare i lavori, sempre seguito da quel conciatore dal viso carino. Aveva dato qualche consiglio a Lorenzo su come dovesse alzare di più le sopraciglia e per tutto il tempo non aveva fatto altro che far saettare lo sguardo dal foglio a Yana, poi era passato a Botticelli, aveva stretto una mano sulle sue spalle e non aveva detto nulla, aveva sorriso orgoglioso. Il ragazzino l’aveva notato ed aveva sogghignato a sua volta.  “Quindi ho finalmente l’onore di conoscere Amerigo Vespucci” commentò  Andrea alzando le mani verso l’ospite, in piedi accanto alla straniera, “L’onore è mio” aveva detto con falsa modestia l’altro uomo.  “Sa ora che sono così famoso credo di meritarmi un ritratto” aveva aggiunto Amerigo, sollevando le braccia come ad innalzarsi alla divinità, Yana aveva mosso il capo sconsolata, sperando che il buon Verrocchio non decidesse di dargli corda. “Maestro!” aveva detto Benedetto, chiamandolo, quello aveva volto il viso nella direzione del suo conciatore, trovandolo di fianco una giovane donna, “Posso aiutarla signorina?” domandò cortese, la ragazza aveva annuito, aveva dei ricci scuri, come il manto delle pantere, ed una carnagione olivastra, un naso allungato e labbra sottili, coperta da una lunga mantella scura. Aveva un viso dolce, tondo, onesto. “È greca” sussurrò Amerigo nel suo orecchio, “A me non sembra diversa da voi Italiani” aveva mormorato Yana in risposta, le sembrava uguale alla maggior parte delle signore incontrate nella penisola italica, “Fidati, ho conosciuto molte donne, lei è greca” commentò, prima di avvicinarsi, quel malandrino nella speranza forse di sedurla.

“Cercavo un artista” mormorò con voce gentile la greca,  “Siete nel posto giusto” si intromise Amerigo, anticipando Verrocchio, “Qui troverete tutti gli artisti che volete” aggiunse, prima prendendo la mano della ragazza e baciandola elegantemente, “Io sono Amerigo Vespucci, si come lo scopritore dell’America, effettivamente sono io” disse orgoglioso e ammiccante. La ragazza rimase qualche istante stordita, cercando di realizzare quel fiume di parole, “Filippa Demopulo” mormorò lei con un tono di voce basso, “Cercavo Leonardo Da Vinci” aggiunse con più coraggio, guardando il proprietario della bottega. Sandro Botticelli s’era alzato dal suo sgabello irritato, “Per l’amore del cielo! Perché mai cercando tutti quel folle?” sputò fuori infastidito, guardando negli occhi Filippa quasi a bruciarla, la ragazza deglutì pesantemente, sentendosi oppressa da quello sguardo. “Sandro!” lo sgridò Andrea, “Sei stato maleducato con la nostra ospite” disse, prima di tornare il viso verso la fanciulla cercando di apparire gentile, “L’ardore della giovinezza offusca il giudizio del buon Botticelli”  aveva detto cercando di giustificarlo. Le dita di Filippa s’erano strette al petto,  “Lei è Alessandro Filipepi!” aveva esclamato quasi animata d’ardore, “Ho visto alcuni suoi quadri davvero meravigliosi” aveva aggiunto, sorridendo meravigliosamente, Sandro arrossì fino alle punte dei capelli.  “Credo che Sandro possa andarvi bene lo stesso” aveva detto Verrocchio, ma Filippa aveva fatto segno di diniego, “No, signore” aveva sussurrato, estraendo da una bisaccia che aveva sotto i vestiti una moneta d’argento dipinta di nero, Yana lo aveva guardata un attimo, quando avevano fatto ritorno alla spiaggia dopo il lungo soggiorno sulla isola, Zo aveva fatto rifornimento di molti piatti d’oro con quei simboli, lo stesso disegno sulle chiavi di Leonardo, guardò Amerigo ed anche lui sembrò capirlo, “Il Turco mi ha mandato” disse solamente, posando la moneta sulla mano di Verrocchio, “Se  Leonardo Da Vinci vuole sapere dove è la cripta, deve venire  al Cane Abbaiante (*) e chiedere di Aclima Lysimacus” aveva rivelato, “Presto però, lei rimarrà fino a domani” spiegò prima di andare via a passi svelti.  Yana abbandonò il suo posto, non che Lorenzo badasse a questo, s’era alzato anche lui per osservare la moneta, la straniera afferrò la moneta dalle mani del proprietario ed  prego nella lingua dei suoi avi, che gli dei li proteggessero.

 

Filippa crollava dal sonno, quando finalmente la sua Signora aveva stabilito che smontassero da cavallo definitivamente. Avevano viaggiato ininterrottamente per due giorni ed una notte, sulle vie meno battute per non essere notati, sotto le calze, tra le cosce, la pelle della serva era rovinata da piaghe ed irritazioni, senza contare che era stata anche di fatto colta dal suo sangue, cosa che aveva costretto i tre ad una lunga pausa lungo un piccolo fiumiciattolo. Lì avevano avuto la sfortuna di essere aggrediti da dei briganti, Lele aveva tranciato il braccio all’uomo che aveva osato metterle le mani addosso, prima di sgozzarlo come un maiale. La madonna d’altro canto aveva piantato nel femore uno stiletto all’uomo che aveva osato allungare le mani su di lei. Filippa era stata la sola a non poter far nulla, incapace, era stata la causa del loro attacco e non aveva potuto neanche dare una mano per difenderli. La sua signora l’aveva guardata con uno sguardo di mera sufficienza, mentre puliva la sua arma sul vestito del morto, la serva s’era chiesta dove avesse imparato una nobildonna ad uccidere. “Sai cosa succede ai deboli?” aveva domandato retorica, prima di impartire a Lele di gettare i cadaveri nel fiume e ripartire. L’uomo aveva annuito imperturbabile, aveva frugato nelle loro tasche aveva trovato delle monete ma le aveva lasciate lì, perché nessun uomo rubava ad un morto, anche se criminale e ladro, lasciò i corpi nel fiume, prima di voltarsi verso Filippa immobile sull’ansa guardare l’acqua macchiata di rosso. “Alle cameriere non è richiesto sapere uccidere” disse solamente, prima di allungarle quello che aveva tutta l’aria di un pugnale, “O i padroni avrebbero paura di loro” aggiunse. Filippa aveva preso l’arma delicatamente, dal manico, sentendola improvvisamente pesante, sull’elsa vi era un sigillo ma non ne aveva riconosciuto il luogo, poi si era allontanato per salire in groppa allo stallone. L’arma era finita nella bisaccia assieme ai vivere, i vestiti e la sua ancora.

Alla prossimità di una porta,  di quella che pareva essere una città fiorente e popolosa, la signora aveva detto: “Da ora, noi siamo viaggiatori” – smontando da Dalila – “Rivolgetevi a me come Aclima” il suo tono era stato secco, “Senza cerimoniali ed io vi chiamerò Lele ed Ippa” aveva aggiunto, prima di impartire anche loro di scendere. L’uomo aveva eseguito senza esser turbato da un minimo battito di ciglia, ma la ragazza quasi era svenuta quando aveva toccato terra, le sue gambe sembravan fatte d’argilla molle. Lele l’aveva ripresa per la vita e tenuta su come non fosse altro che un fuscello.  “Benvenuti nella Libera Repubblica di Firenze o come piace chiamarla a me : La decima bolgia dell’inferno” gracchiò la signora,  prima di dirigersi verso le guardie, con una mano teneva strette le redini con cui guidava il cavallo,  con l’altra mano giocava con una moneta d’oro.

“Nella vostra compagnia, comanda una donna?” aveva notato una delle guardia, osservando attentamente la figura della signoria poi quella di Lele, ignorando apertamente quella di Filippa. La donna aveva annuito, “Pensavo che voi Fiorentini foste più aperti, in assenza del Magnifico so che la città era stata tenuta da una melanzana bastarda ed una donna romana” disse con un tono irrisorio, prima di posare una moneta sulla mano di una delle guardie, questa l’aveva osservata attentamente, “E’ una moneta di Gerusalemme” commentò, “Sempre oro è” si lagnò la signora, ma ciò bastò a pagare il pedaggio per tutti e tre. Filippa vedeva Lele camminare al suo fianco, l’uomo nascondeva tutto  dietro il suo viso ma capiva che doveva essere animato da un certo numero di perplessità.

La signora sembrava conoscere le strade che percorreva alla perfezione, come se Firenze fosse stata la sua città natia. La curiosità di chiederle quanto spesso avesse percorso quelle vie le era quasi montato, ma alla fine aveva taciuto la sua curiosità seppellendola in se stessa, perché ad una serva non era concesso chiedere. La signora scivolava tra la gente, muovendosi svelta come una gatta, s’era arrestata solo quando aveva riconosciuto le guardie della città, con le monete sonanti, simbolo della famiglia De Medici.  Aveva spinto Dalila davanti a lei in modo che potesse nascondersi dietro di essa, quando le guardie erano scivolate accanato a loro. Lo sguardo di Lele s’era fatto sospettoso, ma la donna non se n’era curata continuando la sua traversata. “Siamo diretti ad una osteria” aveva comunicato agli altri due, mentre li guidava lungo le viuzze, senza neanche voltarsi per vedere se effettivamente i due la stavano ascoltando, non che questo non fosse mai accaduto, Lele era sempre diligente e Filippa non avrebbe mai osato distrarsi.

L’osteria che avevano trovato non era lontana dalla piazza principale e conteneva anche una stalla dove poter sistemare Dalila e gli altri due cavalli. La madonna aveva zittito ogni domanda dell’Oste porgendoli una manciata di monete d’oro, tra scudi, testoni e fiorini. “Viaggiate molto” commentò quello, mordendo la moneta, la donna lo aveva guardato con mera sufficienza accarezzando il muso della sua cavalla con un gesto quasi ritmico, “Voglio una stanza doppia” disse imperiosa, “Ed un pasto che possa essere chiamato tale. E non mi importa che non sia ora del pranzo” aggiunse schietta uscendo dalla stalla, seguita dal locandiere e dai due servi. “Certo, signora” aveva detto ossequioso l’oste, “Chi devo registrare?” domandò, mentre entravano all’interno della locanda, che non sembrava nulla di diverso da una normale taverna, come quella nella città da cui venivano, di cui di tanto in tanto i servi andavano a bere. “Aclima Lysimacus” disse con un tono schietto, osservando la piuma bagnata di nero dell’uomo bloccarsi a mezz’aria prima di toccare il foglio. Filippa vide le spalle della signora irrigidirsi, “Che sia ebreo o cristiano il denaro è sempre denaro” disse con un tono disgustato, posando una moneta d’oro sui fogli delle camere. Il Locandiere sembrò riprendersi dal suo tepore e scrivere il nome della madonna sui suoi documenti, con una mano vagamente tremante. “Perché pensi voglia passar per giudea?” domandò a voce bassa Lele, soffiando nell’orecchio della serva, che aveva alzato le spalle, da un lato disinteressata, se quelli erano i voleri della padrona le non doveva commentarli, ma d’altro canto comprensiva, il loro viaggio era un segreto, era normale che la signora avesse scelto un altro nome. Lele si chiedeva perché ebreo? Perché no? Chi mai avrebbe cercato una cristianissima madonna papista dietro le spoglie di una arricchita semita? La vera domanda, Filippa la sapeva, era un’altra: Da chi si stavano nascondendo?

La signora aveva firmata accanto al nome che aveva scritto l’oste, con estrema naturalezza da sembrare il suo vero nome. Filippa aveva osservato la scena in silenzio, guardando lo scorrere della piuma sulla carta in quei caratteri che non era riuscita mai a comprendere. Non era insolito che una serva fosse analfabeta, anzi era degno di nota il contrario, ma Filippa era diversa, suo padre le aveva insegnato a leggere e scrivere, solo non in quella lingua. “Ed ora vorrei il mio pasto” disse secca, prima di dirigersi ad un vecchio tavolo di legno. S’era seduta, ed il modo in cui l’aveva fatto aveva stupito la sua serva, la madonna s’era slaciata il mantello, lasciandolo afflosciare sulle ventre prima di appallottolarlo sul tavolo, mostrando un abbigliamento prevalentemente maschile, aveva sfilato il capello e lasciato scivolare una lunga treccia sulla spalla e sulla morbida maglia di lana, la sua postura era stata scomposta, stravaccata quasi sdraiata sulla sedia, ben diversa dalle solite pose granitiche che le aveva visto prendere durante i sontuosi banchetti. Eppure pensò per un attimo che la sua signora fosse molto più bella in quello stato, che agghindata di monili, polveri per il viso ed abiti d’alta sartoria. “Ippa, Lele sedetevi anche voi” impartì loro, mantenendo il gioco dei nomi, “Si mia sig …” stava rispondendo Filippa, “Certo Aclima” l’aveva anticipato l’uomo, sedendosi di fronte la donna, che aveva chinato il capo e l’aveva guardata eloquente, così la serva s’era seduta, nel mutismo assoluto, al loro tavolo.

Mangiarono pasticcio di piccione, assieme ad una zuppa di semi e vino con il miele. “Quasi aceto” commentò a mezza bocca Aclima prima di mandar giù un'altra sorsata; una smorfia si era dipinta sul viso.  Filippa aveva mangiato tutto, afferrando il pasticcio con le mani e bevendo la ciotola direttamente dalla scodella, anche la signora l’aveva imitata, tradendo comunque in quei minimi gesti un disgusto ed una nobiltà che non appartenevano ad una persona del ceto che fingeva di essere. La serva era stata completamente esaurita dalle minime scorte di cui si erano dovuti nutrire che quel ben di dio era sto più che luce per i suoi occhi e delizia per la sua pancia. Lele non era stato da meno, sfoggiando caratteristiche da maiale, tanto era stata la fretta di rimpinzarsi e buttar giù vino, che era finito per colargli giù lungo la gola. I servi, o le guardie, osservavano i signori consumare il pasto, ma non mangiavano mai con loro e fu quello che realizzò Filippa mentre sfregava il polso nudo sulla bocca per pulirla dalla sporcizia, davanti lo sguardo della sua signora. “Non scusarti, Ippa” disse angustia Aclima, tornando a sorseggiare il vino che la schifava tanto.

Erano rimasti attorno a quel tavolo a continuando a bevicchiare, non che la ragazza avesse una grande capacità di sopportazione alcolica. La signora aveva estratto dalla sua sacca un'altra moneta, era di ferro chiaro e non perfettamente tonda, la fece ruotare sul tavolo, davanti gli altri due. Filippa aveva osservato le strane immagini che c’erano sopra, quando questa arrestò il suo girotondo, cadendo con una faccia rivolta verso il soffitto. “Ippa, prendilo” impartì la donna, ammiccando alla moneta, la ragazza titubante la prese, osservandola con timore, sembrava il viso d’una bestia, la inquietò parecchio, “Un toro” mormorò a disaggio. Aclima la guardò, “Conosci molti miti, Filippa?” domandò, facendo ticchettare le dita sul legno, la ragazza aveva mosso il capo con un sospiro,  “Sono nata nel cinquantotto,  era già proibito parlare della nostra cultura” aveva mormorato la ragazza,  “C’erano scuole nascoste” aveva sussurrato passandosi la moneta tra le dita, “Quindi non sai nulla del culto di Mitra?” domandò la signora avvicinandosi alla sua serva. Filippa strinse la moneta tra le dita e si morse inevitabilmente un labbro, “No” mentì.  Dio è divenuto uomo affinché l’uomo possa divenire Dio, le era stato insegnato questo, non ve era peccato nel cercare la conoscenza, ma i figli di Mitra, Filippa l’aveva imparato, volevano l’oltre, volevano svelare i misteri di Dio, non volevano elevarsi, volevano atterrire il Signore, renderlo un idolo. Suo padre non aveva mai buone parole per gli ossequiosi osservatori di tali culti. Guardò ancora il viso sulla moneta, la volse e le parve di vedere un labirinto, “Non importa” borbottò la donna.

Aclima si passò una mano sul petto, dove Filippa sapeva aver nascosto la sua croce, “Ora devi ascoltarmi attentamente, ho una missione per te” disse con un tono sterile, giocando con le dita sul tavolo, la serva aveva annuito, “Tutto mia sig … Aclima  mormorò nervosa, posando la moneta sul legno della tavola, vicino la scodella vuota di zuppa, la sua signora aveva mosso la mano,  “Dovrai recarti in un posto” l’aveva informata, prima di trascinare con l’indice sul tavolo la moneta per metterla al centro, “E fare tutto quello che ti dirò” aveva aggiunto, “Soprattutto dovrai ripetere le mie esatte parole” aveva aggiunto, fissandola penetrante con quegli occhi neri come quelli d’un demonio. Filippa aveva annuito, ma sotto il tavolo una mano aveva raggiunto la gambe di Lele ed aveva stretto la stoffa dei calzoni, cercando lo stesso appiglio che di solito cercava dalla sua croce.

 

“Quindi il tuo piano è trovare la cripta” aveva detto Zoroastro, con le mani ai capelli per quella follia, Leonardo era stato per due giorni a disegnare i dettagli del suo sogno, continuando a farlo all’impazzata, tanto che il suo intero taccuino ne era invaso. Aveva guardato Nico in cerca d’appello ma quello non faceva altro che star a scrivere qualcosa su dei fogli volanti e si chiese quale divinità avesse offeso per ritrovarsi quei due. “Si, ma non so dove trovarla” aveva commentato quasi arreso il giovane artista, guardando i palmi delle sue mani chiedendosi come potesse trovare quel ragazzino, sperando che l’unico modo non fosse passare per Girolamo. “Nico non hai davvero nulla da dire?” domandò Zoroastro cercando almeno un po’ d’appiglio, quando Leonardo sollevò lo sguardo, osservando il mercato attorno a lui, “Quel vaso” mormorò avvicinandosi ad un mercante di antiquariato, sul tavolo Zo aveva visto che Da Vinci aveva messo le mani su un vaso, “Mnemosyne” mormorò, mostrando che sul vaso c’era l’immagine di una fonte, sotto quella scritta in greco antico. “Bello, ti è utile?” domandò Nico, crucciando le sopraciglia, Leo aveva storto la bocca, pensando attentamente alla risposta, “Memoria” spiegò frettolosamente, “La fonte della memoria” aggiunse, prima di chiedere al commerciante quanto venisse il vaso, “due fiorini” rispose quello, Leonardo guardò nelle sue tasche prima di posare le monete sul bancone e portarsi via il vaso. “Fantastico ora si è dimenticato della cripta” mormorò Zoroastro esterrefatto. Peccato che quel prezioso orcio fosse finito pochi attimi dopo sul  suolo fiorentino; quando Leo era finito dritto contro una figura.  Zoroastro aveva visto il suo amico cadere nelle ginocchia per terra, cercando di raccogliere i cocci, con un espressione attonita sul viso. Chi lo aveva urtato era ai suoi piedi, una ragazza sotto una mantella azzurra, fermata al collo da un spilla dalla forma di belva: un drago serpente. Una ciocca ruggine scivolava sotto il cappuccio, “La fanciulla dell’altro giorno” mormorò Leonardo, guardando la ragazza dal basso verso l’alto, con un espressione alquanto stupita.  “Non è possibile” aveva mormorato la fanciulla, chiudendo le mani sul seno, inevitabilmente aveva stretto il vestito, cui era apparso inevitabilmente una forma più rotonda al ventre.

Leonardo l’aveva guardato, “È incinta” commentò indicando il ventre della ragazza, “Mi disgustate bifolco” aveva commentato con voce insofferente,  prima di guardare gli altri due, Zoroastro era rimasto intimorito, quella non era che una bambina, ma con occhi davvero spaventosi. Nico era rimasto muto, come se lei lo lasciasse senza fiato. “Chiudi la bocca” li sussurrò Zo. Leo s’era sollevato dalla posizione genuflessa, “Vi chiedo scusa se vi ho arrecato qualche danno la volta prima” aveva mormorato l’artista, fissando quasi ipnotizzato il ventre di quella che era forse poco più di una bambina.  Lei sollevò un sopraciglio abbastanza scombussolata,  “Sono sicuro di poter rimettere apposto il vaso” aveva detto Leonardo amichevole, cercando di tranquillizzarla, “Non mi riguarda” disse perentoria la signora, guardando di sbieco i cocci per terra, “Ma potrei farne arrivare uno da Milano,  a mio zio non creerà impiccio” disse a denti stretti.

Una guardia s’era avvicinata, era vestito d’un ciano pallido, con istori argentei, sul petto v’era cucito il blasone sforzesco, “Madonna questi uomini la hanno minacciata?” aveva domandato l’uomo, con voce cavernosa, “Grazie signor Adelchi, grazie alla vostra prontezza se questi uomini avessero voluto uccidermi, io sarei già cadavere da ore” disse infastidita e stizzita la ragazzina, chiudendo di più le mani sotto il seno e guardo infuocante la guardia. Zoroastro era attonito da quegli occhi, non sapeva deciderne il colore, non capiva se fossero castani, verdi o schegge gialle, sembravano tutti insieme e tutti diversi, erano occhi in grado di metterlo in soggezione. Aveva visto Clarice Orsini, i suoi occhi erano in grado di zittire qualsiasi uomo al mondo, eppure quella bambina aveva un potere maggiore. Erano occhi di brace, ardenti e selvatici, come d’una belva feroce.

La fanciulla aveva sollevato gli occhi e s’era accorto dell’uomo che la guardava, “Adelchi, questo bifolco è un artista a cui ho accidentalmente rotto un vaso” aveva spiegato disinteressata, “Dagli due fiorini” aveva impartito muovendo la mano per sminuire la faccenda, “Dovrebbero bastare” . Adelchi aveva eseguito il comando, estraendo da sotto il farsetto un sacchetto porpora da cui aveva tirato fuori le monete che aveva posto a Da Vinci. “Il mio amico è un indovino, signora, gli permetta di vedere il sesso del nascituro” disse d’un tratto Nico, mentre la madonna s’apprestava ad allontanarsi, tediata dalla loro presenza. Zoroastro lanciò all’amico uno sguardo accusatore e decisamente preoccupato. La ragazza dai capelli di ferrugine, sollevò lo sguardo stranamente intrigata, “Non credo in queste cose” aveva cominciato, mentre guardava Nico, “Ma per una volta” aveva aggiunto con un sorriso sardonico sul viso. E Zoro astro aveva odiato il suo amico molto, specialmente quando il biondo l’aveva indicato, ottenendo su di se lo sguardo della signora con il drago serpente.

“Userai i tarocchi?” domandò la fanciulla, “No, signora, un suo pendente, se possibile” aveva mormorato Zoroastro, davanti quegli occhi di belva. Quella aveva annuito lenta, prima di abbassare il cappuccio, scoprendo una nuca ferruginosa,  aveva sfilato dai lunghi capelli sciolti quella che sembrava una catenella d’ottone scuro, con un pendaglio d’argento dalla forma d’una croce, nel centro dove le braccia si incontravano c’era una piccola gemma d’un verde brillante. “Adelchi, se quest’uomo per qualsivoglia ragione volesse sottrarmi la collana, uccidetelo” aveva detto alla sua guardia con un sorriso raggiante, “Siete un po’ estrema” commentò Zoroastro dopo aver deglutito, “Solitamente si taglia una mano” aveva commentato con tranquillità Leonardo, “Non secondo la mia giustizia” aveva risposto quella, “Ho rotto il tuo vaso, ti ho risarcito. Sottraimi qualcosa ed io farò lo stesso” commentò con voce secca, glaciale come una lama di ghiaccio, “Si sa poi, taglia la mano ad un uomo è potrà ancora rubare con l’altra” aggiunse con un sorriso enigmatico. “Avete una visione della legge estrema” commentò Nico, quasi incantato da quella risolutezza, la madonna batté le palpebre, “Mio zio ha sempre detto avessi un concetto di giustizia, sin da bambina, netta” – aveva fatto una pausa – “Ma dopo il matrimonio ha detto sono peggiorata” aveva commentato, con disgusto per quella parola che non riteneva vera, “Mi ricordate qualcuno” commentò Nico, perdendosi altrove nei pensieri, anche se i suoi amici pensavano di sapere decisamente chi.

Zoroastro cauto, sotto l’attento e vigile sguardo di Leonardo prese la mano della signora, senza osare guardarla in quegli occhi mortali. Adelchi aveva la mano sull’elsa della spada, pronto a sguainarla per eviscerare il ragazzo. Posò il pendente sul palmo della madonna ed improvvisò lo sollevò, lasciandolo oscillare sulla mano, “Se oscilla avanti e dietro è maschio, circolarmente è femmina” aveva spiegato, sollevando appena lo sguardo, osservando la ragazzina guardando attentamente il gioiello, “Si muove verticalmente” commentò con voce a mezza bocca, “Avrete un maschio” esclamò Nico con un sorriso amichevole. La signora sembrava stranamente soddisfatta di se stessa, afferrò il pendente in aria e quasi lo strappò dalle mani di Zoroastro, “Se dovessi aver ragione indovino, ti farò recapitare un testone”  aggiunse, con un sorriso sardonico sul viso,  prima di rivolgere un occhiata di fuoco a Leonardo e poi volgere il viso a Nico, che divenne rosso come una barbabietola, “Mi piacciono i tuoi capelli” aveva commentato, prendendo tra le dita sottili una ciocca dei riccioli biondi del ragazzino, la cui cute stava diventando melanzana causa il non respirare per l’emozione. La signora tirò con forza e strappò il crine, “Grazie” disse.

“Feticista e pazza” commentò Zoroastro, guardando il suo amico che sembrava riprendere un colorito umano, prima di volgere lo sguardo verso Leonardo, le cui dita stavano muovendo nel vento, come suonasse un immaginario clavicembalo od uno strumento simile. “Meravigliosa” sospirò Nico, posando la testa sulla sua spalla, “Tranquillo” disse Leo con un sorriso da pazzo, “Ha ordinato un quadro alla bottega,   si stano sfidando per la commissione Lorenzo Di Credi e Botticelli” aveva spiegato Da Vinci, prima di proseguire per la sua strada, “Come fai a saperlo?” aveva domandato abbastanza perplesso Zoroastro, era stato negli ultimi due giorni solo a parlare della cripta, della tomba e del ragazzino, che non aveva dato segni, “Lorenzo me lo ha detto” aveva spiegato brevemente, prima di sollevare lo sguardo al cielo preso da altro, sminuendo la cosa in fretta. “Hai passato del tempo con lui?” aveva domandato abbastanza perplesso Zo, guardando Nico, chiedendosi come mai il biondo non avesse detto niente, ma quello aveva lo sguardo sognante perso altrove; Leonardo aveva passato i due giorni dietro la cripta e l’altro giovane artista era stato impegnato nel dipingere molto,  non credeva che i due avessero avuto modo di stare assieme in qualche modo e soprattutto che lui non sapesse niente. Raccolse i cocci del vaso e propose di tornare alla bottega.

 

Lucrezia aveva un viso delizioso, tondo come quello d’una bambola, incorniciato in capelli di grano ardente, stretta in un abito casto d’un colore delicato cipria, aveva pochi anni in più di Caterina Sforza, ma appariva più grande, bella, leziosa  ma meno intrigante. Quando era entrata nel Urbe, tutti avevano detto che la belva milanese fosse una delle più incantevoli fanciulle mai viste, non che Girolamo avesse visto qualche sorta di bellezza nella sua compagna, una donna magra, livida ed acerba. Lo stesso Santo Padre che non aveva mai nascosto la voluttuosità verso le donne, aveva mai allungato l’occhio nella misera scollatura di quella ragazzina. Lucrezia Normanni aveva diciannove anni e l’avvenenza di una fanciulla della sua età. “Allora Conte, dov’è la cara Caterina?” aveva domandato con dolcezza la signorina, mentre beveva vino al miele, guardando il capitano generale della Santa Chiesa Romana. Girolamo Riario la guardò con misto di mera indifferenza, “È ad Imola” aveva commentato sterile, “Si sentiva frastornata dal caos cittadino” aveva aggiunto, “Da quanto è via?” aveva insistito la matrona romana con interesse, “Quasi quattro mesi” aveva risposto Raffaele, tagliando un pezzo del suo stufato con movimenti lenti, guadagnando uno sguardo dallo zio, che annui annoiato, il giovane cardinale, coetaneo dell’altra commensale, aveva la sana abitudine di ricordare sempre tutto, di nutrirsi di dettagli. Una cosa che avevano in comune, oltre la passione per gli scacchi. Come Francesco della Rovere si era occupato di Girolamo, insegnandoli la strategia, il conte s’era accollato lo stesso peso per il giovanissimo cardinale di San Giorgio di Velabro. “Ma è troppo tempo” aveva detto Lucrezia quasi sconvolta, chiudendo la mano sul petto florido, “Dovreste andare da lei” aveva aggiunto quasi accusatoria. Girolamo si ripeté alla mente perché non le avesse ancora tagliato la gola con il coltello da dolce dopo tutto quel tempo che la conosceva.

Quando bussarono alla porta, Lucrezia fece notare per l’ennesima volta l’assenza della cameriera, “Ma dov’è finita l’abissina?” domandò con voce innocente,  “C’è qualcuno il cui Dove non ti tange, cara Lucrezia?” domandò ostico il ragazzo, sorridendo arcigno. Un garzone, o nulla di troppo diverso, era entrato quando il conte aveva dato il consenso di entrare nella loro sala da pranzo. “Signore c’è qui suo cugino, il cardinale Della Rovere” annunciò, “Lo aspettavamo” disse asettico, prima di tornare alla loro cena, il garzone annuì, ritirandosi, lasciando sull’uscio vestito di porpora  il cardinale Della Rovere Giuliano.  “Perché ceniamo a Palazzo Orsini anziché Castel Santangelo?” domandò con un sorriso finto l’ultimo arrivato, mentre prendeva posto proprio accanto a Lucrezia, sfiorando con un dito il polso sottile della ragazza, “Perché voi due vivete di luoghi?” domandò  sornione Raffaele, continuando a mangiare. “Il santo padre non aveva interesse nel cenare con noi” aveva risposto annoiato Girolamo, bevicchiando dell’ottimo vino, “Poi non avremo potuto godere della compagnia di questa cinciallegra” mormorò il più giovane, guardando con gli occhi scuri la donna che sedeva di fronte lui. Lucrezia gonfiò le guance infastidita, tingendo le gote di fuoco. “Io adoro le vostre chiacchiere, signora” aveva mormorato suadente Giuliano, prendendo la mano della fanciulla e baciandone le dita affusolate. Il viso della ragazza era rimasto tinto di rosso, ma da rabbioso era scemato ad un cremisi imbarazzo. Girolamo li guardò, quella s’era la condotta dissoluta di suo cugino, pendeva più verso le dolcezze d’una donna che i passatempi fiorentini, stranamente.

“Peccato che il Buon Prefetto sia partito così presto sta mani, sarebbe stata una cena di famiglia perfetta” aveva commentato con voce spinosa Raffaele. La lingua lunga e biforcuta, da rendere ogni sua frase velenosa, era un eredità materna, talvolta Girolamo non vedeva altro che una versione maschile di sua sorella maggiore. “Senza Madonna de Montefeltro e Madonna Sforza, sarebbe stato noioso” aveva scherzato Giuliano, Lucrezia aveva sogghignato, nascondendo le labbra dietro le dita sottili, “Certo senza La Muta e La Tigre” aveva aggiunto Raffaele prima di ridere grassamente. Le mogli dei cugini erano coetanee, una era una terzogenita nobil donna urbinata, sempre ossequiosa, reverente, pia, sempre dedita alla volontà del marito e giustamente sottomessa, certo sprovvista d’una particolare bellezza, ma come la sua personalità caratterizzata da una bellezza anonima, riguardo l’altra: bastarda, nata dalla lussuria, e non dedita alle consuetudini pudiche, quanto sostenitrice delle nuovi corrente, d’altro Caterina non era che la figlia del più pingue maiale mai nato su suolo italiano, Maria Galeazzo Sforza che aveva accolto nel suo letto innumerevoli donne ed uomini, talvolta insieme, e chi sa quante altre nefandezze.

Giuliano continuò a scherzare dei membri della sua famiglia con Raffaele, non smettendo di palpare la sua giovane compagna, finché semplicemente non ne venne a noia. “Mi è stato riferito che la tua serva abissina quest’oggi si fosse diretta nel ghetto Ebraico, caro cugino” disse stranamente famelico al conte, Girolamo posò il bicchiere di vino ormai vuoto sulla tovaglia,  “Ed ecco che ricominciamo con i Luoghi” mormorò Raffaele sollevando gli occhi al soffitto. “Hai fatto seguire la mia serva, cugino?” aveva domandato di rimando Riario, “No è stato un caso” aveva mormorato per sminuire la questione, “Dunque un tuo servitore ha visto la serva di tuo cugino ed ha ritenuto importante dirlo?” aveva domandato Lucrezia, sollevando le sopraciglia, “Certo, voglio sempre sapere che chi è intorno alla mia famiglia sia fidato” disse il cardinale Della Rovere, mangiucchiando una purea di piselli, “E cosa ci faceva un tuo servitore nel ghetto Ebraico?” domandò Raffaele invece con un sorriso malandrino in viso. “Tacete, avevo cominciato io” disse infastidito Giuliano, “Seguiva i miei ordini cugino” disse semplicemente Girolamo, versandosi altro vino. Forse quella sera aveva esagerato, ma non voleva rischiare di sognare ancora, quando beveva molto, la sua mente vagava in un buio silenzioso senza difficoltà. “Ed il tuo?” domandò piccata Lucrezia.

Il resto della cena trascorse come  d’un sogno ad occhi aperti. Tra una risata di Giuliano, una chiacchiera sciocca della sua compagna ed un mellifluo commento di Raffaele. Girolamo sarebbe potuto esser dall’altra parte del mondo e nulla sarebbe stato diverso da quella sera. Quando i suoi cugini lasciarono la sua dimora per tornare agli alloggi che erano stati donati nel palazzo papale come cardinali. Lucrezia era invece tornata alla casa Normanni, dopo un brusco litigio che aveva avuto con Giuliano, dopo aver appurato che vicino al ghetto ebraico, viveva un tale amante del cardinale che quelli aveva nel meriggio fatto chiamare di proposito per una compagnia. Lucrezia s’era infervorata come un’arpia a quello, gelosa in quella maniera morbosa che Girolamo nella sua vita aveva visto una sola volta, s’era porto una mano al collo, dove improvvisamente aveva sentito una stretta così forte da soffocarlo quasi. Ed aveva ricordato qualcosa di sepolto nel suo passato, qualcosa che lo aveva condizionato, aveva quattordici anni ed era stato il primo segno della sua intrinseca natura, qualcosa che aveva permesso di rendersi conto del marcio dentro di lui. Ed il sogno della notte precedente lo aveva ricordato, quando aveva sentito quell’urlo di donna ed aveva avuto l’impulso di seguirlo, come …  “Mio signore” la voce di Zita era stata come un eco lontano, sollevò lo sguardo, dietro la porta chiusa di legno scuro, la musicale chiamata della donna arrivava, “Entra” disse con un rantolo, faticando a ritrovare l’aria nella gola.

Zita era avvolta in un panneggio scuro, tra la mantella, la pelle ed i capelli non sembrava nulla più d’un ombra inconsistente. Vista la lampada ad olio che il conte teneva sul tavolo, spense la candela che le aveva fatto da luce e la stanza sprofondo lievemente nelle ombre. “Un servo di Giuliano vi ha visto” aveva commentato il conte con voce mesta, “Ed io ho visto lui” rispose Zita, “Era Artemisio, nei dintorni della casa d’un  macellaio”  aveva risposto la serva, sbottonandosi la mantella e rimanendo con i pesanti abiti invernali. “Si, Giuliano ha ammesso tutto” aveva commentato timoroso il conto. Suo cugino conosceva più di qualche scheletro nel suo armadio e per quanto curioso di natura, sapeva quand’era meglio tenersi lontano, ma Raffaele sarebbe stato presto mangiato dai dubbi, Girolamo lo conosceva abbastanza di immaginare che avrebbe passato la notte fissando il soffitto chiedendosi che mai volesse il suo grande cugino da qualcuno in un ghetto ebraico. C’erano tante cose di lui che aveva gelosamente custodito dalla mente del ragazzino, non mentiva dicendo che Raffaele avrebbe dovuto sapere, prima o poi sarebbe stato, ma finchè era possibile Girolamo voleva mantenerlo innocente e sotto la Grazia.

“Cosa ha detto ?” domandò alla fine, cominciando a svestirsi degli abiti che aveva indossato l’intero giorno,  Zita fece un passo verso di lui, cauta, “Ha acconsentito ad incontrarvi” aveva mormorato, mordendosi le labbra. Girolamo le sorrise esausto. A nessuno a Roma era concesso il tale lusso di poter decidere se riceverlo o meno,  solo al papa. Eppure il conte era consapevole che tale persona si sarebbe accaparrata quel diritto, perché sapeva d’esser indispensabile, perché se Girolamo s’abbassava a chiedere tale aiuto, era quasi palese fosse disperato. Ed un uomo furbo sa quanto vale la disperazione. “Ha detto di incontrarlo domani” aveva mormorato Zita, cominciando a togliersi il grembiule, “Sceglierò io il quando” aveva impartito secco lui. Quello ancora gli era dovuto e l’altro sarebbe stato alle regole, perché quanto sapeva d’esser importante, era consapevole di non esser indispensabile, specie se adirato il conte l’avesse deciso. S’avvicino alla sua serva e le diede un profondo bacio, mentre ella si liberava degli ultimi residui di vestiario. Aveva bevuto, sperava di non sognare ed aveva bisogno di conforto o la sua stessa gola si sarebbe soffocata, tormentato da ricordi che s’era impegnato a sopprimere.

 

Guardò la Yana disegnata sulla tela, ne studiò i dettagli e quasi la stracciò,  guardò La Madonna che aveva avuto Vanessa come modella, con quel suo viso delicato, con un infante tra le braccia e si chiese dove fosse finito tutto il suo talento. La signora vestita d’azzurro non avrebbe mai assoldato lui contro Sandro, aveva visto in quadro che aveva preparato negli ultimi due giorni, era stato meravigliosamente studiato,  meraviglioso, nonostante non fosse che un mero disegno, lui aveva pitturato e stracciato tutte le tele. Yana era la tavola migliore, con quella sua fiera espressione feroce, domandata da abiti mondani, ma non era abbastanza. Aveva bisogno di qualcosa che lasciasse la signora quasi senza fiato. Aveva bisogno di qualcosa di così innovativo da far sembrare l’eleganza di Sandro una semplice e volgare trufferia.

Un bacio lo colse di sprovvista, dietro il suo orecchio. Lorenzo sussultò, estraendo il pugnale dalla cintola e voltandosi nel tentativo di cogliere alla sprovvista il suo assalitore, ma si ritrovò semplicemente al muro con il polso ferrato tra le mani più abili che avesse mai incontrato ed il viso di Leonardo a meno d’un palmo dal suo. Divenne paonazzo in viso. “Come siete entrato?” aveva domandato, tornando a respirare e calmando il cuore impazzito, mentre il maestro lasciava la presa dal suo polso. Sistemò lentamente l’arma alla cintola, aspettando paziente le parole dell’uomo. “Dalla porta, Lorenzo” disse disinvolto quello, indicando appunto l’uscio spalancato, preso dal tormento l’aveva lasciato aperto? O il maestro l’aveva aperto? “Non vi ho sentito” aveva ammesso, prima di confessare fosse preso troppo dalla sua arte.

Leonardo gli carezzò il viso, come avesse davanti la cosa più delicata al mondo. “Ho bisogno del tuo auito” commentò, prima di riversarli sul letto quelli che dovevano essere frammenti d’un orcio in pezzi, “Che è accaduto?” chiese con un tono confuso, “La sua signora con il drago serpente” commentò Leonardo con un ghigno sul viso. Lorenzo di rimando sorrise semplicemente, cominciando a raccattare i frammenti, speranzoso di poter aiutare, avrebbe dovuto pensare solo alla sua arte, ma era come impossibilitato da Dio in persona di negare qualcosa al maestro. “Memoria” mormorò, riconoscendo la parola greca, “Quante lingue conosci?” domandò Leonardo, mentre univa due frammenti della base, “Poche” ammise il ragazzo, “Ho studiato latino e greco, ma non eccello molto nella seconda, conosco i fondamenti del francese d’Oil” commentò a voce bassa, con un sorriso divertito sulle labbra. Ed alla seconda volta che si riferiva a quella lingua antica a Lorenzo tornò in mente Filippa Demopulo, con quel suo fisico snello ed i polsi fini come spighe di grano, “Domani andrai al Cane Abbaiante ad incontrare Madonna Lysimacus?” domandò serioso, mordendosi il labbro. Leonardo teneva due cocci che scivolarono dalle sue dita, “Come?” chiese, sul viso s’era dipinto, per la prima volta, da quando Di Credi lo aveva veduto, un espressione confusa. “Non ti hanno detto nulla?” domandò perplesso, ottenne un diniego come risposta.

Lorenzo spiegò bene a Leonardo, con minuzia di dettagli, l’avvenimento del meriggio, quando una donna sotto investitura del turco era venuta a portare una moneta per Da Vinci. “Somigliava a questo il disegno?” domandò Leonardo, tirando fuori da sotto i suoi vestiti quello che sembrava una spilla per capelli di donna, era d’oro, acuminata come un ago, con una pietra a cerchio sul disopra in cui v’era dipinto da un lato un viso da belva e dall’atro quadrati neri tondeggianti, in circolo. “Sembra proprio la moneta” commentò, pensando alle dita di Yana strette intorno al’oggetto, mentre pregava i suoi dei di salvarli. “Amerigo, Yana e Verrocchio sapevano di questo?” domandò Leonardo, recuperando il fermaglio dai capelli del ragazzo, “E questa Filippa ha detto di essere mandata dal Turco e di presentarmi domani al Cane Abbaiante se voglio sapere della cripta” aggiunse retorico, i suoi occhi saettavano per la misera stanza di Lorenzo, popolosi di qualcosa a cui era negato al fanciullo l’accesso. Da Vinci era animato da qualcosa, lo capiva dallo sguardo, dalle dita frementi nell’aria, come d’un disegno che non poteva essere rappresentato. “Lorenzo” disse rivolgendosi a lui improvvisamente, “Domani devi venire con me” disse con voce secca, il ragazzino annui, perché non avrebbe mai potuto negare nulla a quell’uomo. Leonardo lo baciò, prima di sollevarsi dal letto e raccogliere con mogio disinteresse i frammenti del vaso, improvvisamente privi di interesse. Il ragazzo saltò su con lui, mettendosi dritto con la schiena per guardarlo negli occhi e non s’era sentito mai così pavido, mise le mani sulle sue guance e tentò di baciarlo, “Ogni bacio manda un messaggio, il mio era un buona notte” disse Leonardo, “Il mio è un ti prego resta” rispose a tono Lorenzo.

 

(*) Cane Abbaiante: La Locanda citata nel 01x05 dove Jacopo è andato ad ubriacarsi/festeggiare dopo la notte con Da Vinci, citato da Piero durante il processo.

 

In primis: Chi l’ha vinta? Lorenzo o Leonardo?

Comunque sia, ordine cronologico: Riario è tutta sua la prima scena (visto che è ambientata nello stesso capitolo di quella dello scorso capitolo, abbiamo visto prima la mattina, ora la sera), poi c’è quella di Filippa che è comunque sciolta nel tempo, in seguito quella di Yana, che potrebbe essere contemporanea a quella di Zoroastro o poco prima o poco dopo, a chiusura c’è quella di Lorenzo.

Nico: Vi avevo promesso un Machiavelli ed invece vi ho dato un tonno, succede in presenza di belle fanciulle. Riguardo alla Pazza che hanno avuto modo di conoscere, sarà spiegata la scena dei capelli ed un sacco di altre cose di lei, riguardo al suo modo di vedere la vita a mo di Legge del Taglione, quella è inclinazione naturale. Ora su di lei si sono già vagamente indizi di chi sia, Da Vinci badate bene l’ha capito, diciamo che il fatto che dispensi Fiorini ma parli di Testoni la dice lunga, così come i suoi occhi e la sua spilla, e si il blasone che ha la sua guardia, oltre ovviamente il colore della manta. Comunque come se ben capito la rivedremo!

Filippa sa bene cosa accade a chi è debole, ma nessuno le ha mai dato una spada, perché nessuno ha mai preteso sapesse difendersi, la sua signora è solo un po’ atipica. Riguardo al suo carattere,  non è ignorante, sa leggere e scrivere, conosce anche l’arte. Sa di molti miti, perché sono cose carine, non crede in loro, ma è molto devota alla sua religione, comunque sia nonostante non sia ignorante ed assolutamente non stupida, le è stato insegnato a temere i misterici, di qualunque genere e perciò non si fida dei figli di Mitra. Ma … ma nulla!

Yana, ha passato tre mesi su una spiaggia con quel marpione di Vespucci, non c’è bisogno di commenti! I SHIP THEM SO MUCH! E si tutti la disegnano perché è una bellezza atipica.

Botticelli ora si impicca se qualcun altro entra cercando Da Vinci.

Su Verrocchio, Yana ed Amerigo che non dicono nulla, io taccio!

Girolamo, questa nota sarà tanto – tanto – lunga. Girolamo stava per rivelare qualcosa ed invece non l’ho fa! Si ciò che lo tormenta di più è l’urlo e non Da Vinci. Si la persona con cui Girolamo deve incontrarsi è una persona che sa il fatto suo e tutto a suo tempo, si può permettersi di fare il comodo suo con il capitano generale della Santa Romana Chiesa. Riguardo all’allegra famigliola di Riario, abbiamo modo di conoscere un nipote che ama come un figlio e a cui sta cercando di salvare l’anima, il suo degenere cugino, a cui alla fine è legato, e la sua giovane amante Lucrezia Normanni, non che unica amante femmina che probabilmente Giulio II abbia mai avuto e per amor della famiglia Girolamo non l’ha ancora uccisa. E Riario ama follemente la sua famiglia, la prova è che va a trovare ancora suo zio, che voleva salvare Amelia, che cerca l’approvazione di suo padre e che non s’è mai sforzato seriamente di uccidere Lucrezia. Riguardo alle sue continue critiche su sua moglie ed il confronto con Giovanna Feltri( o da Montefeltro?) è ancora un dettaglio sul suo rapporto roccioso con sua moglie, il fatto che a suo cugino sia toccata una moglie come si deve, mentre a lui è toccata una belva bastarda, in realtà non è detto ma non è per Caterina che ha rancore in quel passo quanto per la sua stessa natura, Girolamo è un bastardo che non può chiamare Padre il suo stesso padre (e come Jon Snow insegna, nessun bastardo è mai contento) a cui per beffa è stata data una moglie esattamente come lui, solo che Caterina che tutti s’anno essere bastarda, può anche permettersi di chiamare suo padre con tale appellativo. In più i due hanno in comune molto di più di quanto abbiano mai pensato. Ma non voglio dire niente su Caterina, Girolamo e tutta la sua allegra famigliola!

Riguardo a Giovanna e Caterina, Muta e Tigre sono i soprannomi che si sono presi più avanti negli anni, che sicuramente non avevano nel ’79, ma che comunque rispecchiano le loro personalità (forse, non ho idea di che tipo fosse Giovanna) perciò Raffaele le chiama così.

La Signora con il Drago Serpente

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Lorenzo

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Filippa

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Lele

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La Madonna

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