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Autore: Klainbow    01/05/2014    10 recensioni
Ho deciso di raccontarvi la mia storia tramite i Klaine.
Una casa in un paesino sperduto nel nulla, un ragazzo stronzo, un viaggio fatto d'amore e amicizia, follia e risate, partenze e una lunga, insopportabile distanza, gioia e tanto, soffocante dolore.
Badboy!Blaine
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Nuovo personaggio | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Buon pomeriggio a tutti :)
Allora, avrei davvero un mucchio di cose da dire riguardo questa storia. Così tante che non so da dove cominciare.
Non avete idea di quanto sia nervosa. L'ho aggiunta con le mani che mi tremavano.
D'accordo, prima forse dovrei spiegarvi il motivo di questo nuovo aggiornamento, proprio quando vi avevo detto che non avrei potuto pubblicare per un po' a causa della scuola.
Ieri notte mi è venuta un po' di malinconia. E' stato uno di quei momenti in cui, per scacciarne almeno un po', cerchi in tutti modi di distrarti. Io ne conosco uno in particolare, ed è la scrittura. Avevo finito di studiare, quindi mi è venuto spontaneo aprire il foglio di word, e le parole mi sono venute fuori senza che potessi controllarle.
Inizialmente non pensavo di potercela fare, poi ho pensato che forse, con l'aiuto della Klaine, avrei potuto trovare il coraggio necessario per cominciare a scrivere la mia storia.
Eh già. Questa non sarà soltanto una semplice Klaine, bensì riprenderà quasi fedelmente la storia di come la mia vita è cambiata. Non sapete quanto mi costa farlo, ma sento di essere pronta, e nonostante la paura, so che è arrivato il momento di dar vita ai miei pensieri.
Se siete interessati alla storia originale, anche se non credo, alla fine di ogni capitolo (che non so con quale frequenza pubblicherò, poiché la storia per eccellenza sarà sempre Home is where heart is, mentre questa soltanto uno sfogo personale), potrei scrivere dei punti brevi sulle differenze sostanziali tra le due trame, che a causa di due personaggi maschili e della loro storia, ho dovuto cambiare un po'.
Ora, a causa degli eventi, ho deciso che Blaine sarà un badboy. Non di quelli pesanti, solo un gran farfallone strafottente che scherza su tutto e ferisce le persone, ecco. Niente prigione o gesti folli, se non in moto. Va beh, vedrete.
Kurt non è molto OOC, anche perché mi sono sempre rivista moltissimo in lui, ma comunque la nota ce la metto lo stesso, non si sa mai.
Se avete domande di qualsiasi tipo, chiedete pure: sarò qui per soddisfare i vostri dubbi.
Vi prego di dirmi se la storia vi fa schifo, così almeno continuerò a scriverla soltanto per me e smetterò di annoiarvi.
Adesso vi lascio al prologo; penso di non avere altro da dire se non promettervi che ci metterò il cuore a raccontarvi di me attraverso loro.
Ovviamente ho cambiato tutti i nomi (oppure, lo ammetto, inglesizzati (?)) e per privacy ho deciso di omettere il nome del paese, che tanto non servirebbe ai fini della storia di due ragazzi stranieri :')
Okay, sparisco. Enjoy!


Dedico la storia alle persone che mi hanno ascoltata e sostenuta quando nessuno c'era, e alle mie due famiglie allargate. Grazie per tutto l'amore che mi donate.
 
 
 
Somewhere only we know.
                 
Prologo.

 

 
Ci sono persone, persone appartenenti a strane anime che vagano per secoli e secoli, trasmigrando in numerosi corpi per trovarsi senza darsi tregua, come se quello fosse il loro obiettivo ultimo. Persone che, per ironia della situazione, incontri una sola volta nella vita, e che ti entrano dentro. Dove nessuno è mai riuscito ad arrivare. Si avvicinano in punta di piedi, così silenziose che neanche ti accorgi del loro assalto finché non accade, finché non spalancano il portone del tuo cuore senza neanche chiederti il permesso e ti sconvolgono l'esistenza. E' irrimediabile, è meraviglioso. Dovrebbe esserlo per tutti.

Per me non lo è stato.

Vi racconterò la mia storia, perché adesso posso e voglio, e ne ho il coraggio. Vi racconterò del mio viaggio; un viaggio fatto d'amore e amicizia, follia e risate, partenze e una lunga, insopportabile distanza, gioia e tanto, soffocante dolore.
Non sarà una passeggiata, né posso assicurarvi che vi piacerà quello che scriverò, ma spero vi armerete della giusta pazienza e resterete con me fino al momento in cui non smetterò di raccontare di loro, di me, del luogo che mi ha cambiato.

Fin da quando ne ho memoria, sono sempre stato costretto ad andare in vacanza con mio padre, Burt, i miei nonni paterni e la marmaglia di zie di secondo grado e parenti lontani di cui neanche ricordavo il nome, in un paesino nel bel mezzo del nulla, in montagna.
Mio nonno, che allora era padre da appena sette anni, si recò in un piccolo paesino con l'intenzione di starsene tranquillo per un po' assieme alla sua canna da pesca, senza che la confusione e lo smog della città gli pungesse le orecchie e le narici. Vi si imbattè per caso. Ricordava di un posto confortevole, legato alla sua infanzia, non lontano dalla stradina che stava percorrendo. Si era imposto di arrivarci, convinto che con una piccola spinta, la memoria avrebbe fatto il resto.
Tuttavia, quando decise di fermare la sua gip per guardarsi intorno e constatare se si fosse trattato dello stesso luogo, si accorse che non era così. Si trovava nel mezzo di una piazza quasi deserta, fatta ad eccezione per qualche persona, che se ne stava seduta pigramente sulle panchine di ghisa e lo studiava silenzio.
A questo proposito vorrei riformulare la frase precedente in una più corretta.
Non credo nel caso. Tutto accade per un motivo, l'unica cosa che cambia sono le condizioni in cui avvengono gli eventi. Ma in un modo o nell'altro, non si può scappare dal proprio destino.
A volte, se smetti di cercarlo, o semplicemente non riesci a trovarlo, è lui a venire da te. Forse non ci ho mai creduto, ma dopo ciò che è accaduto non ho più dubbi a riguardo.
E' quel paese che ha trovato lui.
Quello stesso giorno, mio nonno comprò un'ampia stalla ad un ottimo prezzo. L'uomo che gliela vendette, un vecchio contadino che camminava curvo su se stesso con l'aiuto di un bastone, sembrava estremamente felice di disfarsene, ma lui era così fuori di sé dalla felicità che non ci pensò due volte prima di accettare l'offerta e rendere ufficiale il suo nuovo posto nel mondo.
Il destino, allora, se ne tornò ad osservare il corso degli avvenimenti in disparte, soddisfatto di ciò che aveva appena combinato quasi avesse avuto la pancia piena dopo una scorpacciata.
Mio padre mi racconta spesso di come mia nonna, vedendolo tornare a casa di corsa, quasi sgambettante, e sentendogli dire con la massima euforia di aver comprato una stalla in campagna, abbia dato di matto. Dice di aver cominciato a urlargli contro di volere il divorzio, perché non solo aveva sperperato tutti i loro averi per una stupida e puzzolente stalla senza prima degnarsi di consultarla, ma aveva anche distrutto le sue floreali aspettative di comprare una casa al mare, un posto in cui avrebbero potuto consumare la vecchiaia insieme quando mio padre li avrebbe lasciati per affrontare la sua vita.
Jack, il nonno, le prese il viso tra le mani e le sorrise con dolcezza. Le disse che aveva pensato a lungo a quello che aveva detto il medico riguardo al dover respirare aria fresca per superare la sua malattia, e che avrebbe trasformato quella stalla in una vera reggia, degna di una signora come lei. Che non le avrebbe mai fatto mancare nulla.
''Fidati di me. Ti ho mai deluso?'' Le aveva chiesto. Emily, mia nonna, non gli aveva dato una risposta ed era sparita in camera loro, sbattendosi la porta alle spalle. Il tonfo rimbombò per tutta la casa, e papà scoppiò a piangere.
Dopo qualche giorno in cui smisero addirittura di parlarsi, mia nonna capì che suo marito aveva pensato al suo bene, ponendolo prima di qualunque altra cosa, e che si sarebbe sempre preso cura di lei. Se ne innamorò ancora un po', e smise di avercela con lui.
Avevano trovato un posto in cui godersi il tramonto, che si sarebbe affacciato sul loro amore quasi a volerne riprendere i tratti.

Jack si mise a lavoro già dal giorno seguente, deciso a realizzare il suo sogno al più presto.
Mio padre passò lì tutte le estati della sua infanzia e adolescenza, fino ad andarci con la sua ragazza, la deliziosa Elizabeth che tutti, nel paese, amavano senza distinzione. Anno dopo anno, mio nonno invecchiava, e continuava a lavorare all'edificio come se ne dipendesse la sua stessa vita, come se si trattasse di un altro figlio.
Divenne un'ossessione.
Anche quando tornavano a casa loro, in città, lui non faceva altro che rigirarsi nel letto e fissare il soffitto, ascoltando il respiro regolare di Emily al suo fianco e lo scoccare del pendolo in cucina risuonare nella sua mente.
Quando la situazione diventava insostenibile, si liberava dalle coperte, scattava a sedersi sul materasso e si alzava, infilando i piedi nelle pantofole grige e ignorando il sospiro esasperato di sua moglie, che invece affondava il viso nel cuscino e tentava di non prestargli attenzione. Ma era dannatamente difficile non accorgersi dell'uomo che faceva su e giù per le scale della sala da pranzo con un blocchetto da disegno in una mano ed una matita impugnata nell'altra - e pensava. Pensava con tanta intensità che se ci si impegnava, si potevano avvertire i meccanismi del suo cervello azionarsi e girare fuori controllo.
A notte fonda, diceva, le idee gli venivano fuori più originali che mai. Così, mentre tutti gli altri dormivano, il nonno realizzava nuovi progetti su come sarebbero stati il bagno, la cucina e le camere una volta finite, oppure si dedicava alla struttura del camino e del forno a legno, dove avrebbe cucinato le migliori pizze del vicinato.
Vicinato che consisteva in una coppia di anziani signori che a malapena riuscivano a tenersi in piedi da soli.
Ahimé, mio nonno ha sempre amato le competizioni.

Burt ed Elizabeth non smisero di tornare in montagna neanche quando la sua pancia crebbe a dismisura, e neppure le camice di mio padre riuscirono a nasconderne la sua rotondità. Erano felici. Passeggiavano mano nella mano per i sentieri più complicati da intraprendere, davano da mangiare agli animali e mia mamma, con la stoffa dei suoi abiti da campagnola che si tendeva fino a voler scoppiare, preparava il pane con le donne invadenti ma premurose che l'avevano accolta nella loro famiglia allargata. Anche i miei nonni stavano bene: cominciavano a sentire l'odore di un nuovo, promettente inizio.
Quando venni al mondo, la stalla era diventata una casa a tre piani - quattro, se si contava la mansarda - con stanze e riscaldamenti inclusi. L'unica cosa da definire era la mobilia e le scale, che da cementate dovevano essere costruite in legno, per salvaguardare le persone più anziane che l'avrebbero visitata.
Crebbi assaporando la vita in città e quella in paese, tra l'agitazione dei primi giorni di scuola e l'eccitazione del dover tornare in montagna.
Ogni mattina mi regalavano un uovo fresco di gallina per farci lo zabaione, che mi gustavo pieno di zucchero seduto sulla balla di fieno in fattoria; e un secchio di latte che mungevo io stesso dalla mia mucca preferita, Gwen. Mi piacevano le macchie nere che la tappezzavano, facendola sembrare un enorme Dalmata.
A detta loro ero il piccoletto più dolce che vi avesse mai messo piede. Mi adoravano tutti, e la cosa era reciproca.
Lo fu fino al momento in cui, ad otto anni, persi mia madre in un incidente autostradale e mio padre ed io smettemmo pian piano di tornarvici con la stessa frequenza. I giorni di partenza si ridussero ad una volta all'anno, quando ricadeva il giorno della morte della mamma e desideravamo stare lontani dalla città che ce l'aveva sottratta, poi al vuoto assoluto. Un vuoto che riempì anche il mio cuore.

Iniziai a pensare che non ci saremmo mai più tornati. Al che, decisi di dare una svolta alla mia vita e mi costrinsi a dimenticare quel posto.
Feci amicizia con le ragazzine della mia classe e passai i weekend dei successivi due anni a casa loro per le merende o i pigiama party, andando al cinema e a fare shopping.
Non mi ero ancora reso conto di essere diverso da tutti gli altri bambini, o forse non volevo farci caso.
Non potetti più nasconderlo quando, un'estate di due anni dopo, mio padre si sedette sul mio letto con esitazione, facendo cigolare la rete sotto al suo peso, e prese a parlare a vanvera a proposito della scuola che presto sarebbe finita e di una probabile vacanza per entrambi.
Credetti che volesse mandarmi in uno di quei ridicoli campeggi, e il terrore si impossessò di me.
Poi fece il suo nome. Il nome del luogo che ormai pensavo di aver soltanto immaginato.
E, senza alcun preavviso, vi tornammo.

Fui sconvolto nel constatare che, a differenza di me e della mia vita intera, niente - nemmeno le più semplici delle sfumature del cielo - era cambiato.
Sembrava che il tempo si fosse congelato, in attesa di un mio ritorno. C'erano addirittura gli stessi vecchietti appollaiati sulle panchine e le stesse donnine che mi stringevano in abbracci stritolanti e mi rifilavano dei fastidiosi pizzicotti sulle guance paffute, decantando quanto la mia assenza si fosse fatta sentire. Un sorriso titubante si dipinse sul mio viso, e in quel momento compresi che era troppo tardi per fingere qualcosa che non sentivo più da tempo.
Non sapevo cos'aspettarmi, ma sicuramente non l'indifferenza totale nei miei confronti. Purtroppo fu quello che avvertii, insieme ad un senso di inquietudine e malinconia che mi attanagliarono lo stomaco.
Ero cresciuto più del dovuto, in quegli ultimi anni. Non avevo avuto scelta.
E adesso tutto appariva quasi estraneo ai miei occhi spenti. Mi mancavano le mie amiche, non mi faceva impazzire l'idea di passare un altro minuto senza di loro, certamente non per girarmi i pollici mentre tutti si comportavano come se fossero dannatamente entusiasti di essere lì.

Fortunatamente non ero da solo ad affrontare tutta quella noia. Mia cugina, Becca, arrivò in paese qualche ora dopo. Anche lei era stata costretta dai suoi parenti, poiché dopo aver visto la casa di mio nonno avevano subito deciso di prenderne una tutta per loro. Evviva, nessuna via d'uscita!
Di comune accordo, decidemmo che quell'anno non avremmo permesso a nessuno di rovinarci le vacanze, perciò, con un sorrisetto d'intesa sulle labbra, ci preparammo per la serata.
''Dobbiamo scoprire se in questo postaccio esistiamo solo io e te, o se si nascondono dei bei ragazzi, oltre ai soliti vecchi che a quanto pare hanno fatto un patto col diavolo per restare vivi.''
Becca si infilò la sua felpa blu col cappuccio ricoperto di paillettes e mi lanciò un paio di pantaloni bianchi con un maglione rosso. ''Metti questi,'' mi intimò con un occhiolino. ''muoviti, la caccia comincia.''
Scossi il capo, sconsolato. Non avremmo trovato un'anima viva.


 
* * *
 
Fu uno shock. Spalancai occhi e bocca in modo plateale e fissai lo spazio davanti a noi totalmente impietrito.

La piazza era più affollata di quanto non l'avessi mai vista.
Un gruppo di ragazze se ne stava seduto sui cofani delle auto e si urlava contro battutine idiote e di poco conto, seguite da un'ondata generale di risate che trovai irritantemente frivole.
Notai con aria scettica che qualche bambino stava giocando a nascondino o a rincorrersi per strada nonostante fossero le dieci passate.
Io e Becca ci scambiammo un'occhiata incredula, e seppi per certo che stessimo pensando alla stessa cosa: lanciamoci.
I miei piedi si mossero prima di poterlo evitare verso la fila di auto.
Qualunque cosa stessero facendo fu sospesa di colpo e le risa cessarono, sostituite da qualche mormorio stranito. Mi sentii improvvisamente al centro di un'attenzione che aveva molto poco di cordiale. Feci passare il peso da un piede all'altro e gli angoli delle mie labbra si sollevarono piano verso l'alto, a disagio.
''Ciao...'' prorruppi, esistante.
Becca colse la palla al balzo e continuò al posto mio. ''Possiamo sederci con voi?'' chiese, il tono tanto speranzoso da risultare assurdo.
Una ragazzina dai capelli cortissimi e castani che doveva avere più o meno la nostra età soppresse una risata e ci guardò, inespressiva. Poi, con lentezza, ricambiò il sorriso.
''Certo'', disse, la voce mielosa.
Io e Becca quasi saltellammo sul posto. Prendemmo posto sulla panchina di fronte e aspettammo che la timidezza ci scivolasse via di dosso.
''Mi chiamo Camilla.'' si presentò la ragazza, sprezzante, '' e voi?''
''Becca.''
''Sono Kurt.'' risposi, mordendomi un labbro.

Camilla si voltò verso le altre ragazze e si portò una mano a coppa vicino alla bocca, coprendosi in modo che non potessimo leggerle il labiale. Il gruppetto si avvicinò a lei per sentire meglio, scoppiando a ridere in coro subito dopo, e si sporsero per lanciarci un'occhiata tra il divertito e il disgustato, per poi tornare alla conversazione.
Poco dopo presero a simulare degli starnuti e dei colpi di tosse, dietro cui recepii con poco impegno insulti come ''patetici'' e ''sfigati''.
Boccheggiai a vuoto. A quanto pare le ragazze-oche esistevano ovunque.

''Che c'è, i cittadini hanno paura delle contadinelle?'' starnazzò una ragazza dalla corporatura robusta.
''Poveri.'' canticchiò un'altra, prolungando il suono della 'o' con acidità.
Tutte le fantasiose e colorate minacce che stavo per scaraventare su di loro mi si bloccarono in gola, ghiacciato da una voce mascolina proveniente da una delle auto.
''Perchè non la piantate un po'?'' Aveva un che di dolce, nonostante l'esasperazione in cui erano intinte le parole.
Solo allora mi accorsi dei tre ragazzi che se ne stavano seduti in una mercedes nera vecchio stile, i piedi appoggiati mollemente sul cruscotto. Spostai lo sguardo sul sedile del conducente e nel farlo incontrai un paio occhi blu come il mare.
Non feci in tempo a fermare il sussulto che fece il mio cuore quando lui mi scrutò, l'espressione indecifrabile.
Un sorriso gentile si affacciò sulle sue labbra sottili.
''Mi chiamo Mark, loro sono Mason,'' indicò il ragazzo dai capelli e occhi neri che gli era seduto accanto. Mason ci fece un cenno del capo a mo' di saluto. ''e Andrew.'' un ragazzino della nostra età spuntò dallo spazio tra i due posti e si scostò un ciuffo ribelle dalla fronte con una mano.
''Hey!'' disse. Aveva uno strano accento, sicuramente diverso dal loro.
''Non badate a loro, davvero. Sono anni che le ignoro'' continuò Mark, sbuffando leggermente.
Io deglutii, e successivamente gli attribuii il nome di ''amore a prima vista''.
Scoprire che a quanto pare mi piacessero i ragazzi non mi turbò, fu un pensiero piuttosto tranquillo. In fondo, l'ho sempre saputo.
Prima di poter avere la possibilità di presentarci, il rombo di una motocicletta in arrivo riempì la piazza, e mi apprestai a coprirmi le orecchie per non rischiare di perdere l'udito.
Mark e gli altri rotearono gli occhi affettuosamente, e sentii Mason borbottare un ''eccolo che arriva''.
Non mi dava l'impressione di uno a cui piacesse chiacchierare. Mi incuteva un po' di paura, in realtà.

Subito dopo vidi arrivare una figura vestita di nero da capo a piedi in sella ad una motocicletta che veniva verso di me in tutta velocità. Non mi sono mai sentito tanto terrorizzato.
Mi portai una mano alla bocca per non urlare dallo spavento, e strizzai gli occhi con forza mentre questa si fermava proprio ad un centimetro di distanza dall'investirmi in pieno.
''Sei sempre il solito!'' urlò Mark, scoppiando a ridere, ed uscì dall'auto per andargli incontro.
Mason e Andew li raggiunsero.
L'altro si sfilò il casco dal capo, rivelando una massa indistinta di ricci neri e ribelli sparati un po' ovunque. Tirò su col naso, sputò a terra un grumo di saliva e inarcò un folto sopracciglio vagamente triangolare nella mia direzione.
''Chi sono?'' chiese con disinteresse, e giurai di poter sentire le ragazze sospirare e sciogliersi come un ghiacciolo al sole solo al suono della sua voce.
Capì immediatamente che tipo di ragazzo fosse. Mi appuntai mentalmente di stargli alla larga.
''Sono in vacanza.'' spiegò Andrew. Lui fece spallucce, come se la cosa non lo toccasse.
Lo trovai subito irritante, certo, ma mi concessi di donargli una parvenza di importanza tale da poterlo odiare soltanto quando pronunciò la frase successiva.
''Andiamocene, il bar e le ragazze ci aspettano.'' così dicendo, il tono strafottente, Mark annuì e saltò sulla moticicletta, infilandosi il casco che gli porse.
Senza neanche degnarci di un saluto, il tipo mise in moto, producendo di proposito più rumore possibile, e la marmitta spruzzò un fiotto di nuvole nere nell'aria.
Sparirono con la stessa fastidiosa velocità con la quale era arrivato.
''Blaine, aspetta!'' urlò Mason, calciando la ruota dell'auto da cui era uscito. Corse accanto ad un motorino blu mezzo scassato che prima non avevo notato e vi montò su, seguito da Andrew. Li seguirono, dileguandosi dalla piazza con un lamento che mi fece quasi ridere, dopo la partenza della moto.

Feci una smorfia infastidita e incrociai le braccia al petto, stranamente furioso.
Ci aveva portato via le uniche persone cordiali della serata.

Dio, se lo detestavo.
 
 
 
 
 
 
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Allora, come vi sembra? Sono agitatissima. Fatemi sapere çwç

Di differenze per ora non ce ne sono poi molte, ma ci preciso una cosa: mia madre non è morta, ma dato che mio padre non c'è mai stato per via del divorzio tra i miei, credo che le cose si bliancino a vicenda. Il motivo per cui ho scelto Burt invece di Elizabeth mi sembra ovvio: non volevo sconvolgere più del dovuto la storia generale dei personaggi.
Oh, dimenticavo, alcune cose saranno leggermente amplificate in Blaine per dargli il giusto carattere.

Spero non abbia fatto schifo.
Ci sentiamo presto per HIWHI! <3

 
 
 

 
  
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