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Autore: MalkContent    24/07/2008    5 recensioni
Cosa è stato di Ari nel tempo in cui lo Stormo è fuggito con Jeb dalla Scuola? Una storia parallela al primo, al secondo e alla prima parte del terzo libro della saga. Un viaggio nel cuore di Ari e di chi gli è stato accanto. Una storia di bambini che bambini non sono mai stati.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Prototipo 1.0 Nike di Samotracia'
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Nike di Samotracia

 

 

 

Ho dieci anni, ma per come sono stata creata ne dimostro molti di più. Almeno quindici. Gli uccelli crescono in fretta, o almeno è ciò che sostengono i Camici Bianchi.

Conosco poco del mondo, oltre la mia scatola di vetro un po’ fredda. L’odore di disinfettante, il tintinnare degli strumenti, il cigolare dei carrelli, sono parte del mio mondo.

Anche le parole della mente lo sono. Anche le immagini. Ed è guardando nelle menti che mi circondano che ho appreso quello che so dell’esterno.

Non è facile guardare negli occhi qualcuno, vedervi un sorriso d’affetto, e scoprire che dietro quello sguardo sta immaginando il momento in cui potrà sezionarmi a piacimento su un tavolo operatorio.

Il mio nome è Sarah e sono una Nike di Samotracia.

Quando chi mi ha creata mi guarda, è questo che vedo nella sua mente. Jeb produce l’immagine di una scultura greca, senza braccia, con grandi ali spiegate.

Ed è vero…ha ragione.

Sono una creatura di quelle che chiamano ricombinanti. Nel mio DNA vi è una piccola parte appartenente ad un uccello, un rapace, credo un falco pellegrino.

Non è molto, ma quanto basta per non definirmi più umana. È ciò che fa la Itex, l’Istituto per la ricerca sulla vita superiore.

Sono davvero una Nike di Samotracia. Non ho braccia per stringere, mani per accarezzare. Le mie spalle sono leggermente curvate all’indietro, ho poderosi muscoli sulla schiena e sul petto, una cassa toracica ampia e carenata. Le mie ossa sono leggere, porose, come quelle degli uccelli, e ho sacche d’aria lungo i fianchi.

Al posto delle braccia, ho un paio d’ali coperte di piume bianche.

Lo so, un falco pellegrino è tutt’altro che bianco, ma purtroppo temo di essere un esperimento totalmente fallito.

Jeb mi chiama Sarah, gli altri mi chiamano “Esperimento 1.0” o “Prototipo”.

Sono il primo ricombinante sopravvissuto abbastanza da crescere. Sono servita a sviluppare esperimenti successivi. E no.. non sono perfetta.

Sono albina. E sono cieca. So cos’è il mondo attorno a me grazie alle menti che mi circondano, ma se fossi sola non sarei in grado di distinguere altro che ombre. Purtroppo è un problema ricorrente anche negli esperimenti successivi.

Iggy, uno dei nuovi esperimenti che sono seguiti al mio, è cieco come me.

Oggi, sono rimasta sola. Jeb ha portato fuori, nel mondo, gli altri sei ragazzi.

Loro hanno le braccia e possono ritrarre le ali e farle scomparire. Possono passare inosservati.

Io no.

Sono una Nike di Samotracia spezzata e inutile, che vive in una scatola di vetro o in una gabbia per cani che non spiegherà mai le proprie ali. Sono l’esperimento fallito, il prototipo da sezionare per comprendere gli errori e modificare gli equilibri.

Max, Fang, Iggy, Nudge, Gassman e Angel sono là fuori. Loro chiamano questo posto “La Scuola”. Io preferisco non chiamarlo affatto.

Qui sono rimasta solo io. Nessuno si è mai chiesto se anch’io avrei potuto volare, con queste mie ali bianche e avorio. Qualcuno si chiede se non sia il caso di ritirarmi e fare spazio, qualcun altro immagina di studiare il mio cervello.

Io prego e spero che si dimentichino di me. Non voglio morire.

Non così.

Ci sono altri esperimenti in corso, ma purtroppo nessuno sembra destinato a sopravvivere a lungo. Oltre agli alati, ci sono gli Eliminatori. Ibridi d’uomo e di lupo. Tendono a diventare violenti, col tempo, e vivono poco… cinque o sei anni, non di più. È difficile distinguerli dagli umani, finchè non prendono la loro forma completa.

E lo fanno a piacimento.

Sono venuti spesso ad annusarmi, negli ultimi tempi.

Immagino che lo Stormo abbia un odore simile al mio e li stiano addestrando alla caccia.

 

Mi fanno paura…

 

 

*   *   *

 

C’è un bimbo biondo, seduto accanto alla mia scatola di cristallo con i buchi per respirare.

So chi è. E so anche perché piange.

È Ari, il figlio di Jeb. Jeb se n’è andato e non c’è più nessuno a prendersi cura di lui. Di me.

Non gli ha mai prestato molta attenzione, come del resto ne ha prestata poca a me, dopo il successo insperato dello Stormo. Sono cresciuta più in fretta di Max, significa che probabilmente invecchierò anche più in fretta. Non quanto gli ibridi Uomo-Lupo, ma… non credo molto di più. La percentuale di geni aviari nel mio DNA è troppo alta e ha infranto l’equilibrio del mio corpo. Il mio cuore è debole. Non sosterrebbe il ritmo del volo, non all’altitudine che può raggiungere Max, non alla sua velocità, non per tutto quel tempo.

I Camici Bianchi mi guardano e scuotono la testa. Mandano gli Eliminatori a guardarmi, ad annusarmi. A volte mi lasciano uscire  dalla gabbia per qualche test, soprattutto sulle mie capacità telepatiche. Pensano di usarmi per coordinare futuri stormi, ma si sbagliano. Ho il potere di toccare una sola mente per volta.

Anche Ari mi guarda, con quegli occhi scuri, sgranati. Ha tre anni, ma ha già capito tutta la brutalità del mondo in cui è cresciuto finora. A volte, quando mi lasciano all’esterno per un po’, per sgranchirmi le gambe, mi siedo a terra e lascio che mi si arrampichi in grembo, che si stringa a me. A differenza di altri esperimenti o prototipi, mi hanno concesso dei vestiti, anche se quasi sempre sono abiti leggeri stile impero, gli unici che possa indossare perché non hanno maniche. Ari apprezza la morbidezza del tessuto, e la carezza delle mie ali bianche.

Il dolore degli altri esperimenti falliti a volte è troppo nebuloso per esser percepito, ma quello del piccolo è forte, netto.

Mi spezza il cuore e tutto quello che vorrei adesso sarebbe lenirlo. Posso accarezzarlo con le ali, e con i piedi, che mi hanno spinta ad usare al posto delle mani che la mia “natura” –loro, maledetti i loro giochi! – mi ha negato. Ma non posso rendergli un padre che non prova nulla per lui.

Ari sente la mancanza di Max. E’ sua sorella, ma nessuno dei due lo sa. Jeb cela bene i suoi segreti, ma… io vedo oltre le maschere e le finzioni. Vuol bene a lei, ma Ari è soltanto un errore.

E questo Ari lo sa.

 

*   *   *

 

Ari è sparito. Non lo vedo da giorni.

Nessuno di coloro che si occupa di me sa nulla. Comincio ad essere nervosa.

Mi hanno fornito una stanza, invece della solita gabbia, e non so se esserne felice o temere il peggio. Non è nulla di speciale, tutto grigio e bianco, ma posso distendere le ali per tutta la loro lunghezza, finalmente, e posso dormire su un letto, sdraiata, come un essere umano, invece di acciambellarmi in un angolo di una gabbia gelida, come un cane.

C’è un altro letto oltre al mio. Cercheranno di mettermi in contatto con qualcuno?

Non lo so.

Sarà sicuramente soltanto un altro test.

 

*   *   *

Ari… oh, Ari…

Cosa ti hanno fatto?

Ecco chi occuperà l’altro letto. Questa mattina, quattro Camici Bianchi hanno portato nella mia stanza una creatura che ho stentato davvero a riconoscere, attraverso i loro occhi.

Ari.

Dimostra otto, nove anni, adesso. Dorme, non si è ancora svegliato, ma la sofferenza che strazia il suo piccolo corpo infrange anche il sonno drogato causato da una massiccia dose di sedativi. Riesco a sentirla, come riesco a vedere la smorfia che gli contrae le labbra.

Mi siedo accanto a lui.  Vorrei abbracciarlo, stringerlo per dargli conforto, per fargli avvertire la mia presenza, ma posso soltanto coprirlo con le mie piume bianche, premendo il mio corpo contro il suo. Istintivamente, nel sonno, sembra riconoscere il contatto di un tempo, e mi posa la testa in grembo, circondandomi i fianchi con le braccia troppo muscolose per un bambino della sua età.

Ari…

Vorrei piangere, come non avevo mai desiderato fare prima, ma scopro una nuova beffa. La mia bizzarria genetica mi ha tolto anche lo sfogo delle lacrime.

 

*  *  *

 

Ari continua a crescere. I suoi capelli si sono fatti più scuri, sfiorano le spalle ampie e nodose di un quattordicenne dalla muscolatura compatta e formata. Eppure, c’è qualcosa che non va. Il suo viso si è fatto spigoloso, le labbra si stirano in una piega innaturale su canini troppo lunghi.

Comincio a capire, a mettere assieme i frammenti di chi si occupa di noi. L’hanno trasformato in un Eliminatore. Non avevo mai visto fare una cosa del genere ad un individuo che non fosse un embrione. Un nuovo esperimento, senza dubbio.

Si è svegliato da poco. E’ spaventato, sente dolore. La sua mente è confusa, rallentata dai sedativi, che non bastano in ogni caso ad attenuare la sofferenza delle ossa e dei muscoli che cambiano.

Normalmente gli Eliminatori sono del tutto umani, se non mutano.

Ari… anche ora… ha qualcosa di animalesco.

Non riesco a comprendere cosa stia accadendo alla sua mente. I pensieri di un bambino di tre anni sono semplici, ma i suoi si fanno di ora in ora più complessi, in qualche modo più dolorosi. Dove un tempo trovavo la speranza che Jeb tornasse, ora trovo soltanto il senso d’abbandono.

Mi hanno fatto molte domande su ciò che prova Ari.

Capisco perché ci hanno messi insieme nella stessa stanza. Vogliono che spii i cambiamenti dentro di lui.

Come faccio a spiegare loro che dove c’era un bambino felice, ora c’è un adolescente che è un nodo di dolore e frustrazione?

Non parla ancora. Non ha parole per esprimere ciò che sente. Eppure, sento in lui il desiderio pressante di comunicare, di dare forma al dolore, per poterlo affrontare.

-Ari…-

Lo sento sussultare alle mie parole. Mi stringe ancora i fianchi, nascondendo il viso contro il mio grembo. Solleva verso di me gli occhi scuri, quasi imploranti.

 

Fa male… fallo smettere…ti prego…

 

Ari non ha parole.. ma pensieri molto netti, questo è certo. E io posso soltanto accarezzargli la schiena nuda e sussultante per gli spasmi muscolari con le ali, cercando di aiutarlo a rilassarsi almeno un poco.

 

Bello…

 

*   *   *

 

Ari ha smesso di crescere. Ha il corpo di un giovane uomo di vent’anni. Sono passati tre mesi da quando è cambiato. E’ silenzioso, seduto sul letto a fissare il muro grigio. Il dolore si è smorzato, ma si fa lancinante quando tenta di imitare i suoi simili, mutando nella forma da combattimento. Anche in quelle sembianze è diverso. Mai del tutto umano, mai del tutto lupo.

Adesso, quando mi abbraccia per cercare calore, rischia di spezzarmi le ossa, eppure si sforza di essere delicato. Piange, a volte, quando torna dagli allenamenti. Non sono teneri con lui.

Eppure, dentro è solo un bambino.

 

*   *   *

 

Ci hanno trasferiti. Dalla Death Valley a New York. Mi hanno chiusa in una cassa di legno come un animale.

 

Il panorama non è cambiato. Luci azzurre, odore di disinfettante. Mi hanno messa in gabbia. Il mio compito è finito e sono tornata l’Esperimento Fallito 1.0.

Non vedo più tanto spesso Ari. È  in missione per ritrovare e catturare Max. Ha preso una brutta batosta l’ultima volta. È stato ferito.

Ho sentito per la prima volta qualcosa di diverso in lui.

Rabbia. Furia cieca. Desidera annientare Max con tutto sé stesso. Non è difficile capire perché… a volte mi sento esattamente nello stesso modo nei confronti dello Stormo.

Noi siamo gli esperimenti mal riusciti, raffazzonati. Lui, il primo Eliminatore creato da un bambino interamente umano, io il primo ibrido avio-umano.

Ari non vivrà più degli altri. Io non sopravviverei ad un volo in alta quota.

Jeb è tornato. Con lui sono tornate un po’ d’attenzioni per me e qualche ora d’aria.

 

*   *   *

 

Sto correndo nelle fogne. Le mie gambe sono deboli per la forzata immobilità di tanti anni.

Lo Stormo è penetrato nell’Istituto, in cerca di informazioni, e ha liberato tutti noi Esperimenti. Max non mi ha riconosciuta. Non credo mi abbia nemmeno vista. Non importa. Non voglio vederla, non voglio parlarle. Non ha bisogno di me. Non ha bisogno di una Nike di Samotracia.

Sono io che ho bisogno di Ari. È per questo che li seguo, dai sotterranei ai condotti di smaltimento.

Li vedo combattere, là, in fondo al tunnel, dagli occhi del mio lupo. I colpi di Max sono violenti. Fanno male. Ari colpisce per ferire, con rabbia, con soddisfazione. Max colpisce per vincere.

Lo schiocco delle vertebre di un collo che si spezza. Max ha vinto, e il corpo di Ari si affloscia a terra, infranto.

Lo Stormo fugge nei tunnel. Io… io non posso.

Ari.

Ari.

Mi trovano china su di lui, i camici bianchi, troppo sconvolta per parlare.

Ari.

Tutto quello che ho avuto, in questi anni. Il suo calore, il suo bisogno di me. I suoi rari sorrisi, il suo dolore. I suoi pensieri, colmi di una passione che io, creatura da gabbia, da acquario, non potrò mai provare.

Ari.

Metà del mio cuore.

Ignoro le mie ali che ricandono flosce, fradice della lordura delle fogne. Ignoro Jeb, chino sul corpo del figlio, mentre sento la paura del mio lupo pervadermi l’anima come fosse mia. La rabbia, la passione di un giovane uomo, assieme all’innocenza e al terrore devastante di un bambino.

Vorrei piangere, ma posso soltanto urlare. Le mie grida riempiono di echi il tunnel, finchè due Camici Bianchi non mi afferrano per le spalle e i fianchi, tirandomi in piedi. Si rendono immediatamente conto che non ho nessuna intenzione di scappare. Senza Ari, niente ha senso. Lo portano via su una barella, di corsa, come se ancora potessero fare qualcosa per salvarlo.

Uno degli scienziati mi guida verso il laboratorio. Ha poca dimestichezza con creature delicate, la sua presa sulla spalla fa male, le ossa leggere scricchiolano. Lo fisso, con tutta la disperazione che non riesce a sgorgare da me in altro modo che con un impeto autentico di furia. E per una volta, non sono io a ricevere pensieri.

 

LASCIAMI

 

Il Camice Bianco allenta la stretta. Si limita a sostenermi quando scivolo sul liquame delle fogne.

Angel ha un potere simile, ma è piccola e ingenua. E soprattutto, non gronda dolore.

 

Ari.

 

Vengo accompagnata in una stanza piastrellata di bianco. Qualcuno mi lava con una canna di plastica flessibile e del disinfettante e gentilmente mi fornisce un altro abito pulito.

Meccanicamente, prendo possesso delle loro menti, silenziosamente. Ogni volta, scopro quanto sia semplice spingere questi cervelli a compiere ciò che mi serve.

Se non posso vivere nel mondo esterno, farò in modo che questo mondo diventi mio.

I miei occhi, le mie braccia. Quanto basta perché non mi sia fatto del male.

Ma adesso, voglio soltanto vedere Ari.

 

*   *   *

 

Non è stato difficile ottenere un’altra stanza. Se posso evitarlo, non dormirò in una gabbia per cani.

Ari è in una sala operatoria, adesso. Non so cosa vogliano fargli. Avevano in mente altro oltre la riparazione delle vertebre cervicali.

Sono venuti a misurare le mie ali e se ne sono andati scrollando la testa.

Ari.

 

*   *   *

 

Hanno gettato Ari in una gabbia per cani.

E no, non lo lascerò solo, per quanto apprezzi il letto morbido e la moquette grigia sotto i piedi. Non adesso che Jeb sembra più interessato a seguire gli spostamenti dello Stormo che a stare accanto a suo figlio.

Mi hanno accompagnata da lui. Quando prendo possesso delle loro menti, i Camici Bianchi prendono uno sguardo vacuo, smorto.

Ari.

Non posso crederci.

Avanzo nella gabbia, che mi viene chiusa alle spalle con uno scatto metallico.

È lì, sotto una coperta di lana marrone, che non basta a coprirlo del tutto. Trema, di freddo, di debolezza, le mani serrate sul tessuto a sfogare il dolore che mi martella nella testa come fosse mio. Le sue mani, ridotte ad artigli, nervose, crudeli.

Apre gli occhi appannati dalla sofferenza. Mi guarda, e mi ritrovo a guardarmi con i suoi stessi occhi ora giallastri, come quelli di un lupo. Sento le lacrime sul suo viso.

 

Fa male… ti prego… fallo smettere…

-Vorrei poterlo fare…-

Tanto freddo…

Mi siedo accanto a lui, come tante volte in passato, e di nuovo, come quando non era che un cucciolo umano di pochi anni di vita, mi posa la testa in grembo.

-Max…mi ha ucciso…-bisbiglia – Mi ha fatto male… tanto.

La mia voce è un caldo mormorio. Di solito non la uso, è più facile e diretto sfiorare la mente di qualcuno, eppure sento che Ari ha bisogno di sentirsi ancora umano tra gli umani. Di nuovo, vorrei avere braccia per stringerlo al seno. Le sue lacrime sono roventi, nell’incavo tra il collo e la spalla dove ha affondato il viso ora. Le sue braccia mi stringono, premendo il suo corpo riforgiato in quella forma innaturale contro il mio. Istintivamente, sfioro la sua schiena ampia con le piume e sussulto, sentendolo soffocare un grido di dolore contro la mia pelle.

-Fa male, Sarah… tanto…-

Ali. Ali nere. Sono ancora visibili le suture che le uniscono alla sua schiena. Giacciono sotto la coperta, semiaperte, flosce, come paralizzate. Riesco a scorgere lo spazio in cui potrebbe ritrarle, ma forse ancora non può farlo, o più probabilmente gli causerebbe troppo dolore.

-Scusami…non… non lo sapevo..-

Lo sento sorridere, tra i singhiozzi.

-Adesso… posso volare come Max… come te…-

No Ari… io non posso seguirti in cielo. Ma non te lo dirò, piccolo mio, mio cuore, mia ragione di vita. Posso solo restare così, a donarti il mio calore, la morbidezza del mio corpo, la vicinanza e la carezza delle mie ali.

Non sei solo, Ari.

 

*   *   *

 

I mostri amano? Non lo so.

Anagraficamente, non ho più di quattordici anni. Ma il mio corpo è ormai quello di una donna adulta, e i miei pensieri e le mie esperienze non sono quelle di una bambina. Nemmeno Ari lo è più. Se fosse un lupo completo, sarebbe un maschio nel fiore degli anni. Eppure non lo è. Ha la passione di un giovane uomo, ma la fragilità di un bambino di sette anni. I suoi stessi sentimenti lo feriscono, e il suo amore per Max è più un desiderio di attenzioni che un vero e proprio desiderio.

E un bambino, quando desidera, è sempre crudele. Odia e ama, Ari, con un intensità e una complessità che non riesce a gestire.

È un nodo di dolore, solitudine, orrore per sé stesso, gelosia e rabbia verso ciò che gli è stato fatto.

Per non parlare del dolore fisico.

Ero con lui, oggi, quando ha spiegato le ali per alzarsi in volo, come ero con lui la prima volta che nel giardino della Scuola si è sollevato nel cielo, faticosamente.

Come tutte le sere, nella gabbia, Ari si toglie il giubbotto di cuoio perché con i miei piccoli piedi possa massaggiargli le spalle, là dove continua a fargli male, dove le ali impiantate gli ricordano costantemente di non essere nato per volare. Non ho mani neppure per questo.

Siamo strani, orrendi, insieme. Innaturali incroci di uomini e animali, curiosi ibridi di adulti e infanti. Nel mondo, provocheremmo disgusto, forse pietà. Leggo negli occhi di Ari cosa il mondo pensa di lui, lo leggo nelle ferite sanguinanti che a morsi si infligge per arginare con il dolore fisico quello mille volte più forte dell’anima.

Dormiamo abbracciati, in questa gabbia per cani, soffocando la sofferenza l’uno nel cuore dell’altra.

 

-Sarah…almeno tu.. mi vuoi bene? –

-Sì, Ari. Qui con me…sei sempre al sicuro.-

-Fa meno male, se ci sei tu.-

 

 

*   *   *

 

Oggi Ari è felice, anche se l’attacco contro lo Stormo è andato male. È stato a Disneyworld. I suoi occhi brillano, mentre mi racconta che un ragazzino l’ha scambiato per un personaggio dei fumetti e l’ha guardato con ammirazione. Gli premo le labbra sulla fronte, con affetto, con dolcezza. So quanto si senta orrendo.

Ma per me resta sempre bellissimo. Era tanto felice che ha voluto cercare di rendere felice anche me.

Mi ha presa tra le braccia e mi ha portata fuori, nel cortile. Ormai sa che nessuno mi ferma mai. Una ragazza innamorata allaccerebbe le braccia attorno al collo del proprio cavaliere, ma io non ho braccia per farlo, e mi fido delle grandi mani di Ari, che ormai bastano quasi a circondarmi la vita.

Lo vedo stringere i denti, nel dolore delle ali dispiegate. Si leva faticosamente, nel cielo, goffo, ma abbastanza potente da portare entrambi tra le nuvole.

Il mio cuore accelera pericolosamente per l’emozione, quando con gli occhi di Ari guardo giù, nell’ebbrezza del vento sulle guance, della velocità.

Grazie, piccolo mio.

 

*   *   *

 

Non vedo Ari da giorni.

Sta di nuovo seguendo Max. E il clone di Max.

E io sono qui, in una gabbia, da sola. E penso che Ari non vivrà ancora a lungo. Il suo termine non è lontano.

E penso che non resterò da sola.

E penso che vorrei volare per sempre, anche se il mio cuore non basta.

 

*  *  *

 

E’ l’inizio della fine. Stanno “ritirando” gli Eliminatori. Decretati esperimento fallito. E poco a poco, stanno ponendo fine alla vita di noi ibridi. Ovunque sento giungere grida di morte, sento le menti spegnersi, lasciate a morire o stroncate con violenza. Ciò che l’istituto ha messo in moto sta giungendo al suo culmine, anche se le informazioni di chi si occupa di noi sono troppo vaghe perché possa estrapolare qualcosa di utile.

Ma in fondo, non me ne importa nulla. È Max che deve salvare il mondo… non io.

Io voglio soltanto morire di mia scelta, nel modo che voglio.

Ari l’ha capito. Del resto, anche la sua ora non è lontana. Ha un marchio sulla nuca, comparso da qualche giorno. La sua data…di scadenza. Ciò significa che tra pochi giorni morirà comunque.

-Sarah… ho paura.-

-Anche io, Ari…- la mia voce trema. –Ho paura di vivere senza di te. E ho paura di morire macellata come gli altri..-

- Sarah… vuoi… volare ancora? Un’ultima volta?-

-Sono io la prossima? È per questo che me lo chiedi? È a te che l’hanno ordinato?-

Lo vedo annuire e distogliere il suo viso spigoloso, animalesco, che per me è sempre bellissimo, bagnato di lacrime. Sa che non riuscirò a fermarli, questa volta. Sono troppo esaltati, e hanno imparato a farmi maneggiare dagli Eliminatori artificiali su cui non ho alcun potere. E sanno che non forzerei mai la mente di Ari.  Ma non voglio morire come una farfalla trafitta in una teca.

Portami tra le nuvole, Ari. Portami nel blu.

 

*   *   *

 

In volo, tra le sue braccia, nel silenzio della mente. Non servono parole, tra noi. Non sono mai servite. Basta il contatto, caldo, familiare, delle sue braccia, quello spinoso e dolente della sua mente gonfia di tristezza. Basta il flusso costante dei miei pensieri e dei suoi, a dirci cosa siamo stati l’uno per l’altra in questi anni di prigionia, mostruosa e predestinata.

-Qui va bene, Sarah?-sussurra, la voce rotta dai singhiozzi.-

- Lasciami andare..Ari.. e vola con me, fino alla fine. Sii i miei occhi, dopo essere stato per tanto tempo la mia anima…-

Premo le labbra sulle sue, ignorando le zanne di lupo, in quel bacio rimasto inespresso. Puro. Casto.

Le sue braccia si aprono, e le mie ali per la prima volta catturano il vento, nell’istinto del falco pellegrino.

Io, viaggiatrice prigioniera, dispiego le mie piume bianche, cavalcando le correnti.

Ari è con me, il battito costante delle sue ali, in questo primo, ultimo viaggio.

Mi fa male il petto.

E’ il mio cuore che cede, finalmente?

O sono soltanto le lacrime che non posso piangere?

Fa male, Ari.

Non riesco più a respirare.

Resta con me.

Alla fine, noi siamo liberi.

Non piangere…continua a volare.. per entrambi.

 

*   *   *

 

Fine

 

NOTA:

 

Avrei tanto voluto salvare Ari, in questa fan fiction. Dargli un po’ di felicità. Ma purtroppo è più forte di me, non riesco a modificare le storie così tanto. Il destino di Ari è segnato, e così quello di Sarah. Chiedo perdono per eventuali incongruenze temporali che mi possono essere sfuggite, purtroppo non mi è stato possibile controllare in tempi recenti l’esatta scansione delle sequenze.

Grazie per essere giunti a leggere fino a qui.

 

  
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