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Autore: EkyP    07/05/2014    0 recensioni
una ragazza, Drazan, a cui è morta la madre in un incidente cerca di rimettere insieme i pezzi della sua vita. è alla ricerca di un futuro. il destino la farà incontrare con Dan, un ragazzo inizialmente dal carattere rude, ma che sarà colpito dalla profondità di Drazan tanto da volerla salvare da se stessa.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le mie stesse urla mi riportarono al mondo reale, costringendomi a svegliarmi.
Era notte fonda e non ero dove dovevo essere.
Terrorizzata, mi guardai attorno, ma le tenebre mi circondavano e non riuscivo a vedere niente.
Le mie mani incapparono in qualcosa di umido e scricchiolante sotto di me.
Riconobbi il fogliame tipico del bosco accanto a casa mia.
Mi resi conto di essere seduta, con la schiena contro quello che sembrava un tronco secolare.
Aiutandomi con lo scheletro dell’albero, mi tirai su, tenendomi ben allerta.
Mio padre, Russell, mi aveva comprato un cellulare all’avanguardia. Lo chiamavamo “il telefono delle emergenze”. Aveva persino fatto cucire su ogni mio pigiama un cinturino in pelle attorno ai pantaloni apposta per averlo sempre con me. appunto nei momenti di bisogno.
Ed era stata un’ottima idea, come d'altronde erano solite essere le sue idee, perché negli ultimi tempi mi era tornato particolarmente utile.
Lo afferrai e tenni schiacciato il tasto 1 per le chiamate rapide. Dopo parecchi e interminabili squilli, finalmente mio padre rispose.
“Papà, sono in mezzo al bosco” singhiozzai spaurita tenendomi le braccia attorcigliate al petto. Un po’ per ripararmi dal vento freddo che si schiantava contro il mio corpo ad una velocità anomala. Un po’ per tentare, vanamente purtroppo, di tenermi unita.
“Vengo a prenderti” mi assicurò schiarendosi la voce che era moderatamente preoccupata. Ormai era così abituato a raccattarmi in luoghi improbabili che non lo sconvolgeva più così tanto.
Mi capitava spesso, almeno due o tre notti a settimana da quando mia madre era venuta a mancare.
Il mio psicologo, il dottor Frederick, che odiavo parecchio, aveva detto che era un sintomo scomodo dovuto al forte trauma subito dalla mia triste perdita.
Poteva interpretarlo come gli pareva, ma per me era solo sofferenza supplementare e non gradita.
“No papà aspetta” lo interruppi mentre un’idea migliore si faceva largo tra il terrore che popolava la mia mente.
“Qua il segnale funziona alla grande. Non venire nel bosco, potresti perderti anche tu” constatai.
Illuminai per qualche istante la boscaglia attorno a me e a pochi metri individuai uno sterrato.
“C’è un sentiero!” esclamai leggermente sollevata. Ero stata una brava sonnambula dopotutto.
Il silenzio di mio padre mi fece intuire che stava meditando.
“Userò la mappa del telefono per orientarmi. Non dovrei essere tanto lontana da casa. Se non torno tra mezz’ora mi vieni a cercare”dissi, prendendo coraggio.
Chiusi la chiamata prima che potesse incominciare a preoccuparsi sul serio.
Appellandomi al mio senso inesistente dell’avventura, accesi la torcia del cellulare e cercai di decifrare la mappa.
Inserendo la via del mio vialetto, riuscii dopo molti tentavi ad individuare quella che credevo fosse la direzione giusta da prendere.
Stare sola, nel profondo della notte, camminando su uno sterrato sbiadito e dai limiti irregolari, alla mercé di bestie notturne spaventose mi creava un certo senso di oppressione.
E il muro degli alberi attorno a me non aiutava di certo a farmi stare meglio.
Tentai di concentrarmi sulla mappa, ma i pensieri e i ricordi erano più forti di me e sapevano perfettamente quando attaccarmi.
Quale situazione migliore se non quella? La solitudine già bastava a rievocare il viso angelico e glorioso di mia madre, figuriamoci cosa avrebbe rievocato quel cocktail sopra elencato.
Una lama affilata squarciò il mio petto, esponendolo all’aria fresca e mettendo a nudo  il vuoto che aveva lasciato. Era come se al posto del cuore avessi un buco nero super massiccio. Che risucchiava la materia circostante, inghiottendola. Con il misero risultato di divorarmi cellula dopo cellula. Atomo dopo atomo.
Nemmeno la luce poteva superarlo, veniva assorbita.
Prima che potessi lasciarmi cadere a terra per il dolore lancinante, mi ritrovai miracolosamente a casa.
Una luce in movimento vagava alla ricerca di qualcosa. Mio padre era in piedi sull’uscio della porta, in attesa che tornassi.
Corsi verso di lui e mi lanciai tra le sue braccia.
“Piccola mia” mi strinse così forte da permettermi di sentirmi tanto al sicuro da lasciare per un po’ alle spalle i pensieri assillanti.
“Ti porto a letto”. Mi prese in braccio, era ancora abbastanza in forma da poterselo permettere senza faticare troppo nonostante fossi una ragazza di quasi diciotto anni, e mi scortò nella mia camera, depositandomi delicatamente sul mio letto.
“Resta” lo pregai senza guardarlo in faccia. Mi avrebbe vista piangere e non volevo che soffrisse a causa mia.
“certo tesoro”si distese affianco al  mio corpo ancora tremante e ghiacciato.
Il resto della notte procedette senza problemi. La presenza di mio padre sdraiato al mio fianco attutiva e respingeva i tentativi degli incubi di sopprimermi.
Fu lui a svegliarmi.
“Drazan, sono le sette” comunicò con voce soffusa, scuotendomi per le spalle.
A fatica socchiusi gli occhi, stiracchiandomi intorpidita.
Non capivo perché mi stava svegliando così presto. Volevo dormire ancora. Sollevai la coperta sulla testa, seppellendomi tra le lenzuola.
Vedendo che non reagivo, insistette: “Devi andare a scuola. Se non te la senti, puoi stare a casa”.
Appena il mio caro cervello si connesse con il resto del mondo e si mise in moto, scattai in piedi.
“La scuola”esclamai. Come avevo fatto a dimenticarmene?
corsi in bagno, ero già in estremo ritardo, per prepararmi.
Mio padre, l’uomo migliore che conoscessi, urlò dalla cucina che mi aveva generosamente preparato la colazione.
“Grazie” lo ringraziai dopo essermi lavata e vestita con i primi abiti pescati dal cassetto del mio armadio.
Russell tentava di allacciarsi la cravatta attorno al collo, ma proprio non riusciva ad annodarla correttamente. Ne risultava solo un completo disastro, un nodo floscio che si sarebbe slegato nel giro di poco.
Gli lanciai un’occhiata compassionevole e andai in suo soccorso.
“Faccio io” dissi intenerendo la mia voce e prendendo in mano la situazione.
Era buffo e dolce quando i ruoli si scambiavano. Quando mio padre aveva bisogno di me e io ne sapevo più di lui, quasi fossi io il genitore.
Anche lui aveva, ora più che mai, bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui.
“Mamma era più brava” sussurrai sovrappensiero, ricordandomi i vecchi tempi quando era lei che si occupava tutte le mattine dei nodi delle cravatte di papà.
Quella semplice frase fece calare un silenzio tombale tra di noi.
I nostri sguardi malinconici si scontrarono e capii che le mancava tanto quanto mancava a me.  avrebbe preferito vedere il suo viso al posto del mio.
Mi stampò sulla fronte un bacio paterno e si eclissò nel salotto, fingendo di raccattare alcuni documenti.
Terminai la mia colazione in preda ai sensi di colpa e alla nostalgia.
Per entrambi era stato faticoso superare la sua morte.
Anche se in realtà, sotto quella facciata, nessuno dei due l’aveva superata. E mai l’avremmo fatto.
Ma sapevamo fingere particolarmente bene.
Lui era molto più abile di me nel fare finta che andasse tutto per il meglio, ma sapevo che soffriva più di quanto un uomo meritasse soffrire.
Ma lo faceva per me, per darmi il buon esempio. E io lo imitavo, per non farlo preoccupare e per non lasciarlo sprofondare.
Cosa che avremmo voluto fare entrambi. Ma fingere, era essenziale per la nostra sopravvivenza reciproca.
“Sono le otto” mi avvertì Russell. Ero pronta e mangiata.
Recuperai la cartella e ci fiondammo in auto.
La scuola non era troppo distante da casa nostra e in più era sulla strada che portava all’ufficio legale di mio padre. Così mi accompagnava lui tutte le mattine, evitandomi la scocciatura del pullman. L’avevo sempre odiato, il pullman.
Il sole appena sorto illuminava i tetti delle case, le foglie giallastre degli alberi, le auto parcheggiate e ancora dormienti, i vialetti spopolati e le aiuole piene di fiori. Ne esaltava i colori accesi e vivacizzava le sfumature celate dalle ombre.
Mi metteva di buon umore il sole. Più che altro, mi sentivo protetta nella luce. Protetta dall’oscuro mondo dell’oblio.
“Stavo pensando di chiamare qualcuno per far installare un allarme anti furto” pronunciò mio padre ostentando indifferenza, trattenendo lo sguardo concentrato sulla strada.
La sua affermazione mi confuse. Gli gettai uno sguardo interrogativo.
“Non abbiamo bisogno di un allarme. La nostra piccola città è sempre stata molto sicura” constatai, aggrottando le sopracciglia.
“Non è per quello” fece una pausa in cui riprese fiato, scuotendo la testa per avvertirmi che avevo frainteso.
“Pensavo di istallare dei sensori di movimento su ogni uscita o entrata della casa. Così se dovessi fare una scampagnata notturna senza volerlo, possiamo intervenire prima che ti ritrovi in pericolo. Stai peggiorando piccola mia”.
Aveva molto più senso adesso. L’argomento spinoso lo innervosiva.
“Oh” fu il mio unico commento.
Giunta a scuola, avevo ancora qualche minuto per raggiungere l’aula con calma.
“Ci vediamo quando esci”
Lo baciai. Quel bacio mi infuse la forza di scendere e di affrontare la giornata, attingendo da quel pizzico di volontà che caratterizzava mio padre.
Il suo profumo paradisiaco che amavo tanto mi invase le narici e riuscì a stordirmi abbastanza da raggiungere il mio armadietto senza essere aggredita dai pensieri che tentavo di evitare a tutti i costi.
Poggiai i libri del giorno dopo e presi quelli delle lezioni odierne. Quando chiusi lo sportello, mi ritrovai di fronte la faccia altezzosa di Naomi.
Sbuffai ancora prima di sentire ciò che aveva da dirmi.
Naomi era la mia ex migliore amica. Ex perché da alcuni mesi i nostri rapporti erano diventati glaciali. Lei non faceva altro che lanciarmi insulti, meccanismo di attacco inefficace dato che mi scivolavano sulla pelle come fossero pioggia.
Lei era il minore dei miei problemi, era solo fastidiosa.
Sapevo perfettamente perché si comportava così ed era tutta colpa mia.
Tentai di sviarmi da quella sicuramente inutile discussione, ma lei era abituata a non arrendersi mai e mi bloccò.
“Guarda chi si vede” schiamazzò, come se fosse stato strano incontrarmi a scuola. Fece un cenno con il capo alle sue due vallette stordite, sempre al suo seguito come cagnolini scodinzolanti.
Ridacchiarono maliziosamente.
“Cosa vuoi?” tagliai corto, assumendo una posa scocciata.
“Non ti scaldare! Volevo solo farti i complimenti per la giacca. Se mi dici in quale discarica l’hai recuperata, magari ci faccio un salto”
Finsi di essere divertita e lusingata dall’insulto e le consigliai la discarica vicino a casa sua.
Mi trucidò con la sola forza di un’occhiata.
Mi accostai al suo orecchio, le nostre guance si sfioravano appena.
Il suo tipico profumo troppo dolce mi colpì e una vagonata di ricordi mi paralizzarono.
Quasi vacillai e con me il mio piano ben architettato per proteggerla da me.
Mi mancava tantissimo. Mi mancavano i nostri pomeriggi o pigiama party insieme e i nostri discorsi sensati e studiati ma con una nota di pazzia.
Mi ripresi prima che il mio corpo si autogestisse e decidesse di abbracciarla, rovinando tutto ciò che avevo sacrificato.
Non potevo cedere, dovevo resistere. Per lei. Lo facevo per  lei.
Con la voce tremante e non sicura come avrei voluto le sussurrai all’orecchio: “Sai che non mi offendo. Dovresti conoscermi”.
Scappai da loro, rintanandomi tra i banchi della mia classe.
Chiusi gli occhi e recuperai lucidità. Mi concessi ancora qualche istante, rievocando parte della mia vita passata al fianco di Naomi.
La lezione era abbastanza interessante da distrarmi .
Passai due ore intere con la testa china sul quaderno prendendo forse un po’ troppi appunti.
Al suono della campanella, era intervallo.
Ne approfittai per lasciarmi invadere dai piacevoli raggi del sole.
Mi rintanai furtiva sotto al mio albero che faceva da rifugio segreto.
Nessuno conosceva l’esistenza di quel piccolo angolo remoto, nascosto tra i meandri del vasto giardino scolastico. Nessuno aveva voglia di avventurarsi in posti troppo distanti dalla sicurezza della scuola.
Meglio così. Avevo un posto riservato tutto per me per poter stare un po’ in pace e rilassarmi.
Staccare la spina mi faceva bene.
Ripassai per la lezione successiva mentre il contatto con i raggi del sole mi riscaldava e mi rassicurava.
Non avere amici non era così male quando si presentavano giornate soleggiate come quella.
Ripensai alla notte appena trascorsa e mi resi conto di essere stata per la prima volta davvero in pericolo.
Ma la cosa non mi toccava poi così tanto.
Udii in lontananza lo squillo monotono della campanella e corsi in classe prima che il prof entrasse.
Mi sistemai nei primi banchi, quelli in fondo erano ormai tutti occupati.
Avevo economia e commercio per altre due ore e mi conveniva stare attenta.
All’ultima ora, letteratura, mi ritrovai come vicina di banco Naomi.
Prima che la sua smorfia di disapprovazione potesse tramutarsi in parole, entrò un nuovo professore.
“Buongiorno ragazzi. Sono il nuovo professore di letteratura e vi seguirò per tutto l’anno.” Si presentò e scrisse il suo cognome sulla lavagna, sottolineandolo ben due volte.
Mr Collins. Era un uomo di statura massiccia, in forma per essere un insegnante. Capelli castani e mossi molto curati, portava un taglio alla moda ma sofisticato. Il viso era particolarmente definito e piacevole da ammirare e mi ispirava fiducia e simpatia. Sembrava come se fosse veramente interessato al suo lavoro e anche al nostro futuro.
Fece l’appello per tentare di imparare i nostri nomi e i nostri visi.
“Allora, per oggi avevo intenzione di parlare del libro che avevate da leggere. Per la prima mezz’ora vi darò il mio commento personale, poi vorrei che foste voi a donarmi il vostro”.
Incominciò a spiegare, tenendo un tono di voce rilassato e coinvolgente, rendendoci complici con qualche battutina sarcastica decisamente appropriata.
Mi concentravo sulla sua lezione, più interessante di quanto avessi mai immaginato, cercando di non badare a Naomi.
“Adesso è il vostro turno. Chi vuole incominciare?” chiese una volta finito il suo discorso.
Si guardava attorno circospetto, in attesa di vedere qualche mano alzata.
Ma i miei compagni erano timidi o disinteressati e alcuni non avevano nemmeno letto l’introduzione del libro. Forse nemmeno il titolo stesso.
Vedendo che nessuno si faceva avanti, mi offrii io di dare la mia interpretazione del libro.
“Credo sia un libro stimolante e di notevole livello” commentai con gli occhi fissi sul libro che rigiravo tra le mani.
Lo sguardo di Mr Collins si illuminò, puntandosi addosso a me.
“Spiegati meglio per favore”  mi incitò sorridendomi cordiale.
“Il punto centrale è la morte. Il protagonista va alla ricerca di un modo per salvare dall’eterno oblio la sua amata, morta a seguito di un incendio. Cerca, per quanto la sua ricerca sarà vana, di riportarla in vita. quando si rende conto che ciò non è possibile, trova un altro modo per salvare almeno la sua anima. Si rivolge così a Dio. Ma, a mio parere, tutti i suoi sforzi sono stati inutili. La morte va accettata, è una delle poche cose certe di questa misteriosa vita. ed è inutile andare a sperare in qualcosa dopo  la morte. Ovvio, per una società come la nostra, influenzata fin dall’antichità dal Cristianesimo è quasi d’obbligo credere nella Bibbia che predica la salvezza dell’anima. Ma siamo realisti. Studiando il cosmo e l’universo, mi rendo conto che l’universo se ne infischia di noi. Siamo solo un minuscolo puntino. Non siamo niente rispetto all’immensità che ci circonda. E la vita, è solo una caratteristica di questo universo. E la morte avviene come conseguenza naturale della vita. ma dopo la morte non c’è proprio niente. Dovrebbe essere un po’ come prima di nascere. E per l’umanità è una realtà inaccettabile, perché si sente il centro dell’universo, praticamente da sempre. La morte ci appartiene e ci apparterrà sempre. È quasi un sollievo” mi ero lasciata completamente andare alle emozioni e il pensiero di mia madre mi assillava mentre parlavo.
Dovetti fermarmi e riprendere fiato, prima di crollare.
Tutti mi fissavano sconcertati, nessuno fiatava.
Il professor Collins si schiarì la gola, cercando qualcosa da dire.
“Patetica” criticò Naomi col suo fare solito da principessa.
Tutti risero e l’atmosfera carica di tensione si alleggerì. Questa volta Naomi riuscì a ferirmi. Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma le trattenni come meglio potevo.
Il professore notò il mio repentino cambiamento d’animo causato dal commentino di Naomi e venne in mio soccorso.
“Silenzio. Non è patetico, Naomi” la zittì, ricordandosi già il suo nome.
Grazie al cielo la campana che metteva fine alle lezioni squillò e mi catapultai fuori dall’aula in  un battito di ciglia.
Mio padre era già parcheggiato affianco all’uscita e mi aspettava irrequieto.
Quando mi vide entrare agitata e innervosita, mi chiese cosa fosse accaduto.
“Niente, sto bene” liquidai l’argomento guardando un punto fisso fuori dal finestrino.
Capì che era meglio non insistere e si limitò a riportarmi a casa.
Lanciai lo zaino in un angolo remoto dell’atrio senza curarmene troppo.
Raggiunta casa, la nebbia e il senso di sonnolenza che solitamente mi intorpidiva tornata da scuola non si presentò.
Aspettai un po’, in sua attesa. Ma quel pomeriggio per qualche strana ragione che io ignoravo, anch’esso mi abbandonò. Andai nel panico.
Mi aggiravo per tutta la casa, vagando in preda ai ricordi che ne approfittarono subito per infliggermi quel senso di sofferenza acuta che mi rendeva impotente di fronte ad essa.
Mi ritrovai sul pavimento del soggiorno, inginocchiata e piegata alla straordinaria bellezza di mia madre. Mentre fissavo imbambolata la foto ingrandita che avevamo fatto sviluppare grande quanto metà della parete della stanza, il mio corpo e la mia anima erano soggette a tanto di quel dolore che persino le lacrime non riuscivano a varcare la soglia del mio occhio.
Era una foto incredibile e dal fascino accattivante. Eravamo noi tre, Papà mamma e io . abbracciati e sorridenti.
Quella foto era stata scattata circa due anni prima. Eravamo andati alla fiera di paese, una specie di festività ricorrente ogni estate dove la gente si riuniva per mangiare e bere e vendere oggetti artigianali o fatti in casa. Ormai era quasi una tradizione per noi passare quella giornata lì, insieme.
Il dolore era così potente da schiacciarmi contro al suolo, risucchiandomi tutta la razionalità e la forza di volontà.
Era così bella. Anzi, la sua bellezza era quasi angelica.
Un sorriso così caldo e accogliente e travolgente che mi bucava il cuore.
Perché me l’avevano strappata via?
Piangevo e boccheggiavo allo stesso tempo, dilettandomi tra lamenti di sofferenza pura e acuta a pianti isterici da degna malata mentale.
Ogni volta che guardavo quella meravigliosa foto, impazzivo. Letteralmente.
Mi addormentai senza nemmeno rendermene conto, sdraiata sul pavimento, che fortunatamente era di moquette, con le gambe strette contro al petto che mi aiutavano a restare unita.
Fu un bene. Ci voleva proprio quel sonnellino pomeridiano dopo la nottataccia precedente.
Mi svegliai fortunatamente prima che mio padre facesse ritorno.
Avevo gli occhi offuscati e la bocca impiastricciata.
Stordita, come se mi avessero sedata con forti medicinali, ci impiegai un tempo infinito a riprendere possesso del mio corpo.
Adocchiai per caso l’orologio, mentre mi guardavo attorno disorientata.  Mio padre sarebbe tornato a momenti.
Era quasi ora di cena e solitamente ero io l’addetta alla cucina.
Mi sembrava il minimo. Mio padre tornava a casa tardi quasi tutte le sere, stremato e stanco a causa del duro lavoro che si imponeva. E fargli trovare un pasto caldo e pronto era un piacere. Adesso ero io la donna di casa.
Russell lavorava fin troppo, era diventato uno stakanovista cronico.
Gli avevo ripetuto più e più volte che non era necessario che impiegasse tutte quelle energie e tempo nel lavoro. Ma lui era solito borbottare facendo spallucce: “Tesoro, faccio quello che devo fare. È il mio lavoro. Tu non ti preoccupare” e poi spariva, immergendo il viso tra le sue scartoffie.
Io sbuffavo e scuotevo la testa disapprovando tutto ciò.
Ma lo conoscevo come il mio armadio e sapevo perfettamente che il suo lavorare assiduamente era solo un meccanismo ben studiato, di distrazione e sfogo.
E come potevo biasimarlo? Meglio che sprofondare nella lava di dolore sotto ai nostri piedi.
Frugai nel frigo perennemente quasi semi vuoto. Ci scocciava parecchio fare la spesa.
Scelsi di cucinare alla fine una nuova ricetta che avevo letto su internet. Rostbeef al cartoccio, o qualcosa del genere.
Ricordavo la ricetta a memorie e cercai di riprodurla alla lettera.
“Tesoro sono a casa!” la voce di Russell riempì la casa, spezzando il silenzio e il mio rimuginare.
Andai ad accoglierlo e lo aiutai a sfilarsi il cappotto e a sistemare i documenti.
“Che odore delizioso! Che cucini?” chiese incuriosito, annusando ovunque. Appena trovò da dove provenisse la scia, la seguii fino alla cucina.
Cercò di sbirciare il contenuto del forno.
Mi parai di fronte a lui con le braccia incrociate, bloccandogli la visuale.
“Non essere impulsivo, vai a cambiarti. Sarà pronto tra dieci minuti”. Le sue labbra carnose si tesero in un sorrisetto dispettoso, ma qualcosa nella mia espressione determinata lo convinsero.
La carne sembrava in apparenza quasi pronta.
Aiutandomi con un guanto protettivo, strappai il cartoccio dalle fiamme brucianti.
Era  il momento della verità.
Scartai l’alluminio. Una nube di vapore mi attaccò, scottandomi la faccia.
Provai a tagliare una fetta del pasto, l’aspetto sembrava ottimo e appetitoso.
Lo assaggiai. Quasi non ci credevo. Era gustoso e succulento.
Mi sentii fiera di me stessa. Mi aggrappavo a queste piccole soddisfazioni, per stare un po’ meglio con me stessa. Certo, non erano abbastanza, ma meglio che il nulla più assoluto.
Servii la cena nei rispettivi piatti e accesi una candela inodore, per creare un’atmosfera allegra.
Mio padre spuntò dalla porta, con l’aria da segugio. Il suo fiuto impeccabile aveva fiutato l’odore della carne.
Si era già messo il pigiama.
In quel momento mi resi conto di avere indosso gli stessi abiti da stamattina. Il mio pomeriggio travagliato mi aveva distratta dalla mia solita routine. Infatti tornata a casa solitamente mi svestivo all’istante e mi mettevo comoda, adottando lo stile “da casa” se non addirittura “da letto”.
Me li sentii improvvisamente più stretti e più pensanti. Come se portassero il peso schiacciante della mia sofferenza. Come se ne fossero impregnati.
Tolsi la felpa, ma la sensazione non svanì affatto.
Lanciando un’occhiata alla tavola imbandita, Russell apparve sbigottito.
“Tesoro, ti sei data da fare!” commentò con l’acquolina in bocca.
“Tu incomincia pure a mangiare, vado un secondo di sopra a cambiarmi”mormorai massaggiandomi il petto, alla ricerca di aria respirabile. Mi sentivo soffocare, come se l’aria attorno a me si fosse trasformata in gas tossico.
Sgattaiolai in camera e sbattei la porta dietro di me, con troppa energia.
Strappai quasi con rabbia e rancore quegli abiti della tortura.
Presi un grosso respiro, immettendo quanta aria possibile nei polmoni stremati, ma si spezzò nella trachea. Non riusciva a raggiungerli.
Boccheggiavo confusa, tentando di rubare ossigeno all’aria.
Se non erano i vestiti che mi opprimevano, che diavolo mi stava succedendo?
Crollai sul pavimento, faccia a terra, le ginocchia non ressero un tale peso.
Ma niente, fisicamente intendevo, mi stava comprimendo.
Era tutto nella mia mente, la mia immaginazione che attentava alla mia stessa vita.
Capii di avere un attacco. Mi trascinai in bagno con le unghie e lottando contro la forza di gravità immaginaria.
Acchiappai per miracolo le mie pillole e ne ingurgitai un paio, senza nemmeno discioglierle nell’acqua.
L’effetto calmante fu immediato.
“oddio” grugnii scossa e demoralizzata. Ma non avevo tempo per riposare o per pensare. Dovevo tornare in cucina prima che il mio papà incominciasse a sospettare qualcosa.
Indossai il pigiama stropicciato sotto al cuscino del letto e presi coraggio, ricomponendomi.
“Squisito tesoro, un capolavoro” si complimentò lui, con il piatto già mezzo vuoto.
“Grazie” mugugnai. La voce uscì molliccia, non come desideravo.
Mangiavo a testa bassa, in silenzio. Ogni boccone mi rimetteva in forze e mi donava un pizzico di sanità mentale in più.
“Stai bene piccola?” domandò lui quando, terminata la cena gradita, spostò la sua attenzione su di me.
“Certo, perché non dovrei?” mi affrettai a rispondere, mettendomi in automatico sulla difensiva e assumendo una posa “Sana”.
“Ti vedo pallida”
“Sarà un calo di zuccheri. Piuttosto, come è andata a lavoro?”con uno stratagemma, insegnatomi dal migliore onesto truffatore della psiche che avessi mai incontrato –mio padre appunto- cambiai discorso.
Di norma, non avrebbe funzionato con lui, ottenendo spesso l’effetto contrario. Ma quella sera era sovrappensiero e come se non bastasse, la mia domanda lo entusiasmò parecchio.
“tesoro, ho un nuovo caso tra le mani” esultò, con un luccicante bagliore che si incendiò nel suo sguardo nello stesso momento in cui pronunciò la frase.
Doveva essere qualcosa di grosso se lo emozionava così tanto.
“Cioè, ancora non è mio, ma lo sarà presto”.
Disorientata dalla sua affermazione poco chiara, chiesi spiegazioni.
“Si vocifera che esista un caso, divenuto quasi leggendario, di una donna bisognosa si un avvocato. Ma ne sta cercando uno speciale, uno che sia alla sua altezza e all’altezza della sua situazione. Vuole vincere a tutti i costi. A detta di queste voci, è uno dei casi più difficili presenti in città. Non è ancora molto chiaro per cosa dovrei concorrere, ma si dice che sia un caso memorabile!” era troppo elettrizzato per continuare o per mettere in piedi un discorso sensato.
“Lo racconti quasi fosse un mito medievale” ridacchiai, infilzando nel contempo l’ultimo boccone di carne.
“Lo è! Devo avere questo caso”
“Come farai? Hai detto che dovrebbe essere la cliente a contattarti”
“Aspetterò. Intanto cercherò di vincere tutte le altre cause in processo. Mi chiamerà lei, me lo sento” esultò, molto sicuro di sé.
Sorrisi di quella certezza, anche perché aveva ragione. Lui era il migliore. In tutto. Il migliore papà, il migliore avvocato, il migliore amico. Un pessimo allacciatore di cravatte, ma questo perché era stato troppo viziato. Ma in sostanza, il migliore.
Tutto quell’entusiasmo e quella determinatezza incanalarono i miei pensieri in viottoli più sereni e nebbiosi.
Scelsi così, imprudentemente, di ignorare completamente l’accaduto e guardare al futuro, come se non fosse mai successo.
Finito di cenare, mio padre si alzò per sparecchiare.
“Cosa pensi di fare?” domandai, assumendo un tono inquisitorio.
Mi fissò con aria perplessa, sorreggendo tra le mani i piatti sporchi.
“Mi sembra evidente piccola. Sto sparecchiando”
Sbuffai. “Metti giù quelle stoviglie. Sei stremato, hai le occhiaie fino alla bocca e le palpebre non riescono a stare aperte. Vai a letto, qui ci penso io”.
Mi baciò, come per ringraziarmi per averlo graziato, e si dileguò in soggiorno, trascinando i piedi a malapena.
Sarebbe crollato sul letto nel giro di pochi minuti.
Sparecchiai e lavai i piatti e tutto il resto. Quando conclusi, prima di andare a letto, controllai con attenzione che porte e finestre fossero sigillate.
Mi ritrovai sotto il calduccio invitante delle mie coperte, troppo pesanti per la stagione, ma a me piaceva così. Come se avessi uno strato in più di protezione. Protezione contro la cattiveria del mondo e della realtà che mi circondava.
Accesi la televisione e impostai il timer di un’ora.
La guardai per un po’, riuscendo a svuotare la mente grazie all’infallibile aiuto dei cartoni animati. Fantastici ed efficaci scaccia pensieri.
Mi addormentai senza accorgermene.
Ed eccolo. Eccolo, senza peccare nemmeno un minuto di ritardo.
Sapevo bene di stare sognando, ormai la mia coscienza ci aveva fatto l’abitudine, ma non ero mai in grado di svegliarmi in anticipo, per prevenire l’inevitabile conseguenza racchiusa nelle tenebre dell’incubo.
Fui catapultata in un luogo ameno, puro e bellissimo. Montagne scoscese si innalzavano circondando una valle verdeggiante che pullulava di vita.
Milioni di colori vivacizzavano ulteriormente il paesaggio idilliaco, grazie a fiori  di ogni specie, piccoli animaletti del bosco e lo schiantarsi delle piccole cascate contro il ruscello che ricreavano spruzzi di arcobaleni sfavillanti.
Sarebbe stato un piccolo angolo di paradiso. La primissima volta che mi ritrovai lì, lo credei. Immaginavo un sogno tranquillo nel quale mi limitavo a scorazzare e volteggiare per i prati e i boschi, seguita da trotterellanti animali adoranti e sorridenti.
Un po’ come Biancaneve o Cenerentola.
Ma mi ero illusa. Certo, da alcuni punti di vista, poteva essere considerato il più bel sogno che la mia mente potesse elaborare. Ma allo stesso tempo, era il mio peggior incubo.
All’improvviso, dal nulla, magicamente apparve una capanna di legno.
La raggiunsi camminando leggiadra, riuscendo persino a percepire la morbidezza e il solletico dell’erba sotto ai miei piedi. Sembrava tutto così realistico.
Era una baita di montagna, pittoresca e vintage.
Sapevo cosa, o meglio chi, mi aspettava oltre la porticina.
Prima di oltrepassarla, mi soffermai sull’uscio.
Chissà se avevo la facoltà di scegliere se entrare o meno, dopotutto era il mio sogno.
Stilai nella mente una lista veloce dei pro e dei contro.
Nei contro, classificai il dolore acuto e il possibile anzi probabile sonnambulismo.
Nei pro, avrei rivisto la mia mamma. Potevo conversarci, guardarla, ammirarla con assoluta devozione.
Domandai a me stessa se ne valesse la pena.
“Certo che ne vale la pena” sbottai e mi vergognai di me stessa per aver anche minimamente dubitato.
Non attesi un minuto di più per entrare.
La bellezza devastante del fantasma di mia madre riusciva ogni volta a cogliermi di sorpresa.
Era in piedi, con il busto in torsione mentre si voltava verso la mia figura impietrita da una moltitudine di sensazioni quasi contrastanti.
Indossava una camicia da notte in raso e in pizzo, che le scivolava sul suo corpo modellato alla perfezione come se le fosse stato cucito direttamente addosso. I capelli nero corvino erano naturalmente ondulati e sciolti, cadenti sulle spalle, e le incorniciavano il viso.
Sembrava un angelo. Bhe, in fondo lo era.
Abbozzò un sorriso che illuminò letteralmente tutta la casetta.
Quasi il mio cuore si gonfiò tanto ero ammaliata da così tanta bellezza.
Volteggiò, levitando come un fantasma, verso di me, senza mai spegnere il sorriso.
“Piccola mia. Ti stavo aspettando” la sua voce suonava così melodiosa che pareva divina.
“Ciao mamma” salutai con la voce piena di gioia.
Non si avvicinò ulteriormente. Avrei desiderato tanto sfiorare la sua pelle d’avorio, vellutata, senza la minuscola imperfezione. Ma ciò non ci era permesso.
“Non piangere tesoro, non devi avere paura”mi rassicurò lei.
Aggrottai le sopracciglia. Non stavo piangendo.
Automaticamente portai la mano alla guancia. Era sorprendentemente umida.
Non me ero nemmeno resa conto.
Sorrisi come per scusarmi delle mie lacrime, che supponevano fossero di gioia.
“Non ho paura mamma.” Dissi, ma non era del tutto la verità.
Rimase in silenzio.
Sentii il premente bisogno di continuare a parlare, magari se fossimo state troppo tempo zitte, lei sarebbe scomparsa.
“E’ bello il posto in cui stai?”.
“è un luogo bellissimo. Ma mi mancate. Come sta papà? Ha superato la mia morte?” domandò senza perdere il sorriso.
La sincerità e la schiettezza delle sue parole mi inflissero un duro colpo.
“No, mamma. Nessuno di noi supererà mai la tua morte. Ci manchi così tanto” barcollai sul posto, colta da una strana vertigine di dolore.
Feci inconsciamente un passo avanti, sporgendomi con il corpo verso di lei.
Continuai, colta dal rammarico.
“Ti prego, torna da noi. Non possiamo vivere senza di te”. ora piangevo a dirotto.
Le sue labbra si corrugarono, il sorriso si appiattì. Prima che potesse rispondere alle mie richieste irrealizzabili, lo scenario mutò in un attimo.
Le pareti della pittoresca casa sparirono e ci ritrovammo a fluttuare nel vuoto.
Era oscuro, nero, profondo quanto l’infinito.
Qualche strana forza ci faceva stare a galla, senza cadere.
Lanciai uno sguardo spaventato a mia madre, e lo vidi riflesso nei suoi occhioni mandorlati.
Nemmeno lei sapeva cosa stava per accadere.
Poi, in pochi secondi, un camion spuntato da destra, la investì, colpendola in pieno.
Mia madre al tocco del veicolo, si dissolse, trasformandosi in milioni di brillantini che si dispersero nell’immensità del nulla.
“Mamma!” urlai con tutta la voce che avevo a disposizione, ma era troppo tardi.
Il mio cuore smise di battere nel momento in cui lei si disgregò.
Finalmente riuscii a spalancare gli occhi e a tornare alla realtà.
La prima cosa che incrociai fu lo sguardo attonito di Russell.
Strattonandomi violentemente, cercava di farmi riprendere possesso del mio corpo spiritato.
Per qualche minuto, non ero in grado di percepire alcun suono.
Vedevo le labbra di mio padre scoccare parole velocissime, probabilmente stava anche urlando, ma io non lo sentivo.
Solo un fischio sordo, fastidiosissimo e continuo mi rimbombava nelle orecchie.
Poi, come se fosse scoppiata all’improvviso una bomba, le grida terrorizzate di mio padre si riversarono nelle mie orecchie tutte d’un botto.
Sobbalzai e finalmente ripresi il pieno possesso delle mie facoltà corporee e mentali.
Allontanai mio padre con uno scossone e mi schiacciai contro una parete.
Con le mani, sfiorai il materiale del muro:legno temprato. Riconobbi la consistenza lucida della porta d’ingresso.
Realizzai che quel sogno mi aveva condotto ad un punto di non ritorno. Quell’incubo voleva togliermi di mezzo.
Portai la mano alla bocca, orribilmente sconvolta.
Era impastata di sudore, lacrime salate e di… sangue?
L’odore nauseante del sangue raggiunse le mie narici in qualche secondo e fui invasa dal quell’odore pungente. Mi salii un conato.
Con lo sguardo offuscato cercai la provenienza del sangue, prima su Russell, poi su di me.
La camicetta da notte ne era completamente impregnata, una chiazza più scura si trovava all’altezza del petto.
Sfilai il pigiama, lentamente, mentre tremavo al solo pensiero di ciò che avevo fatto.
Mio padre, visibilmente scosso e immobile di fronte a me, aveva ancora le mani sospese a mezz’aria, pronto a prendermi in caso di necessità.
Abbassai la testa con una lentezza quasi teatrale: la ferita che avevo sul cuore sembrava una di quelle che apparivano nei film horror.
La cosa ancora più inquietante era che me la ero auto inflitta, contro la mia volontà.
Il dolore lancinante ed il bruciore arrivarono con la consapevolezza e il panico.
“Papà” mugugnai con un filo di voce,  spaventata a morte, in cerca della sua sicurezza.
Le ginocchia mi cedettero, lasciando che mi schiantassi contro il pavimento ghiacciato.
Mio padre non mosse un muscolo, sembrava come essere paralizzato.
Si limitava a fissarmi, con l’espressione più assurda e stralunata che avessi mai visto.
Tamponai con la camicia da notte la ferita che ancora sanguinava, trattenendo tra i denti i lamenti.
Quella notte mi ero spinta oltre i confini della pazzia.
Avevo tentato  di strapparmi via il cuore con le mie stesse mani.
Entrambi eravamo sotto shock, così in preda al panico da non riuscire a muoverci.
Cosa ero diventata?
 
Mi rifiutai categoricamente di andare all’ospedale.
Per due motivi: come avrei spiegato le ferite di lacerazione che sorgevano sul mio petto? Come lo avrei spiegato senza apparire una pazza? Di certo l’ultima cosa che volevo era tornare dallo psichiatra.
Inoltre, era notte fonda e mio padre il giorno che sarebbe nato tra poche ore l’avrebbe dovuto passare lavorando duramente. Aveva accettato una quantità di casi quasi impossibile da gestire e aveva bisogno di riposare.
Fortunatamente, l’armadietto del bagno comune era provvisto di garze e disinfettanti e tutte quegli aggeggi medici.
Russell, dopo essere tornato in sé, prese in mano la situazione, improvvisandosi medico per una notte.
Fu massacrante quando l’acqua ossigenata inondò la ferita. Frizzava, quasi mi stesse friggendo viva, e bruciava quasi mi stessero dando fuoco.
Per evitare di urlare, mio padre mi ordinò di mordere un asciugamano e tenermi al suo bacino che ancora subiva qualche tremore.
“Ho finito” concluse strappando l’ultimo pezzo di scotch con i denti e appiccicandolo sulla garza svolazzante.
“E’ stata una tortura” bofonchiai in un sussurro rauco,  accasciandomi sul water.
“Vieni qui”Russell mi cinse le spalle e la sicurezza paterna mi avvolse come una coperta di lana.
Sentivo che avrebbe voluto dire qualcosa a riguardo, chissà quante domande o affermazione gli popolavano la testa, ma forse per la prima volta non trovava le parole adatte per esprimersi. In fondo, non c’era molto da dire.
Mi riaccompagnò a letto e si fermò con me, per aiutarmi a riprendere sonno.
Lui si addormentò prima di me, mentre io non riuscivo a chiudere nemmeno gli occhi.
Ero terrificata. Ogni volta che sbattevo le palpebre per inumidire gli occhi, l’oscurità mi invadeva e mi sentivo soffocare al solo pensiero.
Così passai il resto della notte a guardare mio padre mentre riposava, contando i suoi respiri e i suoi battiti irregolari.
Quando la sveglia trillò, lo catapultò nella realtà, facendolo sobbalzare.
Si guardò attorno attonito e disorientato, finchè i frammenti dei ricordi non raggiunsero la sua memoria.
Io finsi subito di dormire, ma lo sbirciavo da sotto il piumone.
Sbadigliò e si strofinò gli occhi, sistemandosi anche i capelli che si erano arruffati e le ciocche si erano riversate sulla sua fronte.
“Te la senti di andare a scuola?” domandò Russell spostando la sua attenzione su di me. si era seduto sul letto e mi accarezzava la fronte con sguardo fermo, celando una preoccupazione crescente.
Non mi ero mai spinta così oltre. Eravamo entrambi spaventatissimi.
Ci riflettei su. Per quanto l’idea di abbandonarmi a un sonno ristoratore, praticamente ero sfinita, mi allettasse, non potevo perdere un giorno scolastico proprio in quel periodo di spiegazioni.
E stare in mezzo alla gente mi avrebbe forse agevolato dal non pensare.
“Non posso stare a casa” concretai leggermente affranta.
Non si arrese. Voleva che rimanessi a letto, si sarebbe sentito più tranquillo se mi sapeva al sicuro.
Fosse stato per lui, avrebbe assunto una baby sitter.
“Certo che puoi. Anzi, dovresti proprio ascoltarmi una volta tanto. Non metterti inutilmente in pericolo piccola”.
Scossi la testa disapprovando fortemente la sua idea di proteggermi. Non comprendeva che se fossi rimasta a letto avrei peggiorato tutta la situazione.
“Devo seguire le spiegazioni papà” spiegai mantenendo la calma e la razionalità. O almeno, quel pizzico che mi era rimasto di esse.
“Fatti dare gli appunti!” sbottò esasperato. Si sistemò la chioma riccioluta, passandosi le dita tra i capelli.
Tipico atteggiamento assunto da Russell quando cercava di raggiungere la calma.
Aumentai l’intensità dello sguardo, per diventare più persuasiva e per cercare di infondergli sicurezza.
“Compromesso. Vado a scuola, ma passo dall’infermeria per farmi curare e cambiare le bende. Affare fatto?” proposi assumendo un’espressione da legale.
Quasi un sorrisetto aleggiò sul suo viso, corrugato per la troppa preoccupazione.
“Sei tale e quale a me. accidenti, non dovevo confezionarti così sveglia e furba” dalla sua risposta capii che si era piegato al mio docile ricatto.
Quando provai ad alzarmi dal letto, una fitta al petto mi costrinse a tornare sdraiata.
Grugnii per il dolore, affatto ben accolto.
“Fantastico. Sarà uno strazio stare in piedi” borbottai a voce soffusa.
Presi forza, e raggiunsi il mio bagno, limitando i lamenti.
Non potevo farmi la doccia, avrei bagnato e rovinato le garze, ma mi sentivo così sporca.
Non solo esteriormente, ma anche interiormente.
Deturpata dall’incubo di quella notte, schiacciata dai sensi di colpa e intimorita dal futuro.
Dovetti per forza di cose lavarmi a pezzi. Indossai abiti coprenti per nascondere ciò che non avrei mai voluto che qualcuno vedesse.
Fino a scuola, fui costretta a fingere di non provare dolore di fronte a papà. Nonostante lui mi tenesse costantemente d’occhio e ogni due minuti mi domandava se stessi bene o se avessi ripensato alla sua offerta mattutina.
Innervosita, scesi al volo dall’auto, prima che potesse ritrattare definitivamente sul nostro accordo.
“Ci vediamo alle due” e mi dileguai tra la folla.
Non avevo molto tempo a disposizione prima dell’inizio delle lezioni, così scelsi comodamente di adempiere al mio patto durante l’ora di educazione fisica, che avrei saltato in ogni frangente.
La odiavo.
Era una di quelle materie da abolire. Come primo elemento a favore della mia tesa era che sudavo. Poiché, se decidevo di soddisfare il mio professore, mi impegnavo al cento per cento. E sudare era inevitabilmente poco igienico e assolutamente fastidioso.
Il viso e il collo si impregnavano di goccioline puzzolenti che sarebbero rimaste appiccicate a te per ore.
In aggiunta, non sopportavo stare in mezzo alle persone, tra le altre cose sudate.
Mi sentivo soffocare e venivo come da manuale ignorata.
Però facevo qualche eccezione quando si organizzavano partite di pallavolo. In quei casi partecipavo con piacere.
Così trascorsi le prime tre ore a lottare contro le stilettate  che portavano ondate di dolore incandescente. Come se mi stessero torchiando il cuore come fossi una mucca da macello.
Respiri corti e rapidi e l’immobilità assoluta attutivano in una minima parte la sofferenza.
Allo stesso tempo, dovevo stare attenta alle lezioni e prendere appunti, possibilmente dettagliati e curati, già la mia grafia era illeggibile.
Fu davvero un compito arduo.
Arrivai ad un punto in cui incominciai a pensare che forse mio padre aveva ragione.
Ma a chi avrei potuto chiedere gli appunti? Avrei dovuto restringere dal principio la cerchia, riservando la mia attenzione a coloro che prendevano effettivamente appunti invece di dormicchiare.
Avrei chiesto a Naomi? Ai miei compagni di corso? A coloro che mi studiavano dall’alto in basso con aria snob? A quelli che mi disprezzavano senza motivo?
Scossi la testa. Certo che no. Come si soleva spesso dire, chi fa da se fa per tre.
L’intervallo mi liberò dal mondo delle torture e sfuggii al mio destino per qualche tempo.
Alla quarta ora avrei avuto ginnastica, così, con estrema pazienza, mi diressi in infermeria, sgusciando furtiva tra la folla che era diretta verso l’atrio e il bar, in contro senso rispetto a me.
Passai inosservata o quasi. Evviva.
Mi sedetti fuori dalla piccola saletta medica, attendendo che una ragazza dalla corporatura poco sana finisse la visita. La sbirciavo dalla vetrata.
Era una tipica veterana di ginnastica. Alla ricerca di giustificazioni per l’esonero dalle lezioni future. La generica ragazza con lo slogan stampato in fronte “W CIBO - M GINNASTICA”.
Quando finalmente fu svincolata, fu il mio turno.
“Salve signorina Mills” salutai cordiale, stringendomi nelle spalle timidamente.
“Drazan” era sorpresa di rivedermi. Conosceva il mio nome perché ero stata una paziente abituale qualche mese prima. Ma preferivo non rivangare quell’argomento.
Stava seduta, la parte inferiore del corpo nascosta dietro la sua scrivania disordinata, compilando un registro e alcune scartoffie annesse.
 
  
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