Arabian
Nights
Una
favola dalle Mille e una notte
Se
anche vivessi per mille anni, non potrei mai scordare quel giorno.
Pianti
e lamenti risuonavano nella nostra casa, di solito così
allegra. Non passava
settimana senza che dessimo qualche ricevimento o banchetto; mio padre
era un
uomo molto rispettato e benvoluto, a corte, e la gente non mancava mai.
Ma
di quel giorno non ricordo musica e sorrisi: ricordo solo i drappi neri
alle
pareti, il viso affranto degli schiavi e mia madre che piangeva nelle
sue stanze,
sorvegliata dalle ancelle.
Chiunque
ci avesse visitati, quel giorno, avrebbe di certo pensato che si stava
preparando un funerale, in casa nostra.
Ma
non avrebbe mai indovinato di chi.
Perché
il funerale era il mio.
Tutto
era cominciato un mese prima. Mio padre aveva dato un grande
ricevimento in
occasione del matrimonio di mio fratello maggiore, e aveva invitato il
re, in
qualità di suo gran visir, ad intervenire nella nostra umile
dimora. Il re, che
stimava tantissimo mio padre, aveva accettato con piacere. Avevo
pensato che
mio padre ne sarebbe stato contento: la presenza del re in casa nostra
avrebbe
aumentato moltissimo il suo prestigio. Per questo non riuscivo a capire
la sua
aria contrariata e gli sguardi cupi che mi rivolgeva quando mi vedeva.
La
sera prima del banchetto mi chiamò nel suo studio.
«Sharazad»
mi disse, guardandomi tristemente. «Fino ad oggi ho sempre
considerato la tua
bellezza un dono di Dio. Ma ora non mi sembra altro che una
maledizione».
Di
fronte al mio sguardo interrogativo, sospirò. «Non
posso raccontarti nulla.
Significherebbe tradire il mio re, e io sono un uomo d’onore.
«Ti
dico solo questo» riprese, con un altro sospiro.
«Domani non farti vedere dal
re. Cerca di passare inosservata, tra gli invitati. Se sarò
costretto a presentarvi,
non dire nulla e tieni la testa bassa».
«Come
desiderate, padre» risposi, sempre più stupita.
Alla
mia occhiata sembrò invecchiare all’improvviso.
Distolse gli occhi dai miei e
si morse il labbro. «Devi capire che sono stato costretto a
invitarlo. Sono il
suo gran visir, si sarebbe offeso se non l’avessi fatto. Ed
è meglio non fare
arrabbiare il re…». Rabbrividì. Poi
tornò a guardarmi. «Io ti voglio bene,
Sharazad» aggiunse, osservandomi con affetto. «In
altre circostanze, saresti
stata uno dei miei orgogli più grandi. Sei bella e saggia.
Chiunque sarebbe
fortunato ad averti. Ma ora temo per te».
«Anch’io
vi voglio bene, padre» dissi guardandolo con occhi pieni di
lacrime. «Non so
perché siete così preoccupato per me, ma vi
prometto che non mi accadrà
niente».
«Questo
non puoi saperlo» sussurrò tristemente. Per un
lungo momento mi fissò. Poi
sembrò riscuotersi. «Non dimenticare quello che ti
ho detto. Ora va’, figlia
mia».
Scombussolata
da quell’insolita conversazione, uscii dallo studio,
riflettendo sulle cose che
mi aveva detto mio padre. Aveva paura del re. Forse temeva che
vedendomi mi
avrebbe voluta nel suo harem. A quel pensiero rabbrividii. Ma era
impossibile
che mio padre temesse una cosa del genere. Chiunque sarebbe stato
orgoglioso
che la propria figlia sposasse il re. Semmai quella che deve
temere qualcosa
sono io, mi dissi, pensando al carattere crudele e arrogante
del re. Ma non
trovavo risposta alle preoccupazioni di mio padre, nemmeno dopo una
notte
insonne passata ad agitarmi nel mio letto.
Il
giorno dopo era tutto pronto per il ricevimento. La nostra casa era
affollata
di invitati. Mio fratello Alì e sua moglie erano
nell’ingresso a ricevere le
congratulazioni e gli auguri di felicità. Di sicuro per lei
erano superflui.
Era destinata ad essere un oggetto, una macchina che sfornava figli,
relegata
nella parte di casa destinata alle donne. Fu lì che mi
nascosi dagli sguardi
degli estranei. Non volevo diventare un oggetto – anche se
‘reale’ – anch’io.
Ma
il mio desiderio non poteva essere esaudito. Ero nelle mie stanze da
neanche
mezz’ora quando sentii un gran vociare fuori, interrottosi
rapidamente in un
pesante silenzio. Poi un suono di flauti e una voce stentorea che
annunciò: «Il
re, inviato di Dio, Sua Maestà Shariyar».
Rabbrividii.
Non so neanche perché. Forse fu un presagio di
ciò che sarebbe avvenuto.
Dopo
qualche minuto entrò trafelata una schiava.
«Giovane padrona, presto,
venite. Il re ha richiesto di essere presentato a tutta la famiglia del
gran
visir».
A
malincuore fui costretta a raggiungere gli invitati nel giardino. Al
centro
però si era creato un vuoto attorno alla figura del re e del
suo seguito di
dignitari, schiavi e danzatrici.
Fu
lì che lo vidi per la prima volta. In realtà
quasi non lo guardai, spaventata
dagli avvertimenti di mio padre del giorno precedente. Mi ero coperta
con un
velo e tenevo gli occhi bassi. Ma non potei evitare di lanciargli un
fugace
sguardo. Così sollevai la testa e gli gettai
un’occhiata, e scoprii che anche
lui mi stava guardando. Ci fissammo per il più breve degli
istanti, poi io
abbassai nuovamente la testa.
Quel
fulmineo scambio di sguardi mi aveva scosso. Il re era più
giovane di quanto
immaginassi: non doveva avere più di trent’anni.
Quelle poche cose che avevo
colto guardandolo – la barba nera e corta, le membra robuste
e proporzionate,
le mani forti scintillanti di anelli – mi erano rimaste
impresse nella mente.
Ma più di tutto, so che non scorderò mai il suo
sguardo, i suoi occhi neri e
ardenti fissi nei miei, che mi avevano incendiato, trasmettendomi il
fuoco che
divampava in lui.
Mio
padre stava facendo le presentazioni. Mi avvicinai alla mia famiglia
– e a lui
– rimpiangendo ogni passo. Arrivata, mi rifiutai di alzare
gli occhi, che
rimasero ostinatamente fissi a terra, finché un paio di
stivali, di fattura
ricchissima e dalla punta rialzata, non entrarono nel mio campo visivo.
«Permettetemi
di presentarvi la mia adorata figlia, Sharazad». Udii la voce
di mio padre
accanto a me. Mi inchinai, piegando la testa modestamente.
«Una
perla rara, senza dubbio. Siete fortunato ad avere nella vostra casa un
simile
gioiello». Sentii i suoi occhi
trafiggermi, e cercai di non mostrare
alcuna reazione. La sua voce era profonda ma pacata, e
m’incuriosì. Sentivo che
voleva suonare sincera, ma c’era un fondo di amarezza che non
era riuscito a
reprimere del tutto.
«Vi
ringrazio, Maestà». Mio padre
s’inchinò a sua volta, poi riprese: «Il
banchetto
comincerà tra breve. Se volete degnarvi di seguirmi, vi
accompagnerò nel
salone».
«Molto
bene» rispose il re, e finalmente si allontanò.
Quando
se ne fu andato, sospirai di sollievo.
Al
banchetto mi premurai di sedere il più lontano possibile dal
re. Rimasi per
tutto il tempo zitta e con gli occhi bassi. Non ero l’unica a
comportarmi così:
molte giovani ragazze sembravano nervose ed evitavano di guardare in
direzione
del capotavola. Continuavo a chiedermi perchè il re fosse
così temuto.
Il
ricevimento sembrava interminabile, ma alla fine fu il momento per
tutti di
tornare a casa. Restai accanto a mio padre mentre presentava i suoi
omaggi e
ringraziamenti al re. Prima di montare sulla portantina, Shariyar mi
lanciò
un’ultima occhiata.
Per
le quattro settimane seguenti la vita scorse tranquilla. Dopo i primi
giorni di
tensione anche mio padre si rilassò e sembrò
convinto che il re si fosse
dimenticato del banchetto in casa nostra. Io avevo cercato di porgli
delle
domande sul motivo della sua preoccupazione, ma si rifiutò
sempre di
rispondermi.
Quel
giorno camminavo per il bazar, accompagnata da due
schiave, acquistando
alcuni alimenti necessari per quel giorno. Avevo intenzione di passare
alla mia
bancarella preferita, che vendeva veli bellissimi, di seta e ricamati
d’oro e
d’argento. Ma la tenda che ospitava le stoffe era chiusa da
un drappo nero, e
le donne che passavano lì davanti si scambiavano sussurri e
sguardi di
compatimento.
Il
banco di fronte era tenuto da una vecchia amica di mia madre. Ordinai
alle
schiave di aspettarmi fuori, poi mi avvicinai a Maryam.
«Buongiorno»
esordii sorridendo. «Mia madre vi porge i suoi saluti. Come
state?».
«Buongiorno,
Sharazad!». Il suo sguardo s’illuminò.
«Diventi sempre più bella. Ricambia i
saluti di tua madre. Qui si tira avanti… per fortuna Dio ha
concesso la salute
a me e alla mia famiglia».
«Sono
contenta di sentirlo» risposi. «Fossero tutti
così fortunati». Gettai
un’occhiata al velo nero sulla tenda di fronte. Maryam se ne
accorse, perché
replicò: «Hai ragione. Eppure a volte accadono
cose che non ci si aspetterebbe.
La volontà di Dio è imprevedibile».
La
guardai incuriosita. Lei fece un cenno con il capo verso la tenda e
disse
pacata: «Sua figlia è morta ieri».
«No!
Safiya è morta?». Sconvolta, portai una mano alla
bocca. «Cos’è successo? Una
malattia?».
«No.
Non ho mai conosciuto una ragazza bella e in buona salute come
Safiya» disse
Maryam con aria cupa. «Magari fosse stato un malanno. Avrebbe
reso tutto più
sopportabile». Sospirò. «È
stata chiamata dal re».
Non
capii il nesso di ciò con la sua morte. «E allora?
Le è successo qualcosa a
palazzo?».
«Buon
Dio, Sharazad» esclamò la vecchia gettandomi
un’occhiata strana. «Non sai cosa
accade a una ragazza se viene chiamata dal re?».
«Viene…
uccisa?» sussurrai incredula.
«Perché?».
«Allora
non conosci la storia del re Shariyar?». Maryam mi
scrutò con uno sguardo
talmente stupito che, se la situazione non fosse stata mortalmente
seria – era
proprio il caso di dirlo –, probabilmente avrei riso. Invece
la guardai
spaventata.
«Raccontatemela,
vi prego» la implorai. Ora capivo perché mio padre
era così preoccupato, perché
avesse cercato di mettermi in guardia. Temeva che il re Shariyar mi
convocasse
a palazzo e mi uccidesse. «Perché odia le donne in
questo modo?».
«Tu
forse non te lo ricordi» iniziò Maryam
«ma circa tre anni fa il re conobbe
Nadira, la figlia di un visir, una fanciulla di rara bellezza. Se ne
innamorò e
la sposò. Ma la ragazza amava un altro giovane, e di
nascosto da tutti continuò
a vederlo. Un giorno il re li scoprì: folle di rabbia,
ordinò che entrambi
fossero giustiziati. Da allora si convinse che tutte le donne,
specialmente
quelle belle, fossero perfide e astute come serpenti. Così,
ogni volta che
conosceva una fanciulla, la sposava e la faceva uccidere
all’alba della prima
notte di nozze. Sono tre anni ormai che continuano questi
delitti». Maryam
scosse la testa, poi mi guardò. «Sharazad, tu sei
bellissima e sei la figlia
del gran visir. Devi stare attenta. Il re è sempre alla
ricerca di qualche
ragazza giovane e bella come te».
Ero
immobilizzata dal terrore. E così, la mia sorte era segnata.
Prima o poi il re
avrebbe richiesto la mia presenza a corte. Mi avrebbe sposata e la
mattina
seguente mi avrebbe fatta uccidere.
Avevo
solo sedici anni. Trascorrevo i miei pomeriggi ricamando, cantando,
leggendo.
Non ero pronta per sposarmi… e per morire.
«Maryam»
dissi, più tranquillamente di quanto mi aspettassi.
«Se… quando
accadrà,
cosa potrò fare per evitare di essere
giustiziata?».
«Ti
sconsiglio di difendere la tua causa parlando con il re. Questi anni di
omicidi
lo hanno trasformato, rendendo il suo cuore crudele e insensibile alla
pietà.
Non è molto incline ad accettare consigli.
«Sharazad»
continuò, stringendomi la mano con gentilezza.
«Non posso dirti cosa fare. Ma
una cosa la so: tu sei una ragazza intelligente e di grande saggezza.
Di certo
saprai trovare una soluzione. Prega Dio e confida nel tuo istinto.
Segui il tuo
cuore e ti salverai. Ne sono certa».
«Grazie,
Maryam» dissi, commossa e riconoscente. «Ti
ringrazio per le tue sagge parole.
Ora devo tornare a casa. Addio».
«Addio,
Sharazad» rispose. «Che il buon Dio ti
protegga».
Probabilmente
chi di dovere non udì queste parole.
Ero
appena rientrata a casa che una schiava corse verso di me, il viso
ricoperto di
lacrime.
«Giovane padrona». Cercò di mantenere ferma la voce.
«Vostro padre desidera parlarvi. È
nel giardino».
Mentre
attraversavo il salone ed entravo nel cortile, seppi cosa stava per
dirmi mio
padre. Lo seppi ancor prima di vedere i suoi occhi umidi, la sua
espressione
addolorata, le sue labbra contratte. Il mormorio della fontana, il
cinguettio
degli uccelli, la brezza sul viso… sembravano
improvvisamente cose irreali,
appartenenti a un mondo che non era più il mio.
Era
appena arrivata una lettera. Ero attesa a corte per
l’indomani.
Non
potei impedire a una lacrima di scivolarmi lungo il viso.