B-R-U-T-T-O. Una parola di sei lettere che impariamo
non appena siamo in grado di articolare suoni comprensibili. Qualcosa che ci
sgrida, è brutto. Qualcosa che ci fa male, è brutto. Brutto non fa distinzioni
con cose o persone. Se qualcosa è brutto, è brutto.
In cuor mio sento di dover ammettere che tutto ciò
era brutto. Eravamo brutte noi, deboli e folli imprigionate nell’incubo della
via di mezzo, era brutto il castello, immenso e sarcastico nella sua infinità,
era brutto. Era brutto il modo in cui Maria guardava se stessa. Come se volesse
strapparsi la pelle di dosso e gettarsi con essa nel vuoto.
-Soffriremo di nuovo.- affermò. –Ho sofferto tanto,
prima di finire qui. Prima che il mio collo si spezzasse, ho avuto il tempo di vedermi morire. Sono uscita dal mio
corpo ingrato, mi sono seduta sul caminetto, e mi sono osservata strabuzzare
gli occhi e diventare viola. L’ultimo contatto col mondo fu quella lingua
rasposa. Quel ritmico solletico ai piedi. Avevo murato con me Amber, il mio
beagle. È impossibile leggere gli occhi di un cane, lo so. Sono neri e
imperscrutabili, come tutti quegli degli altri animali. Ma Amber, nel rivolgermi quelle timide leccate, mi stava
offrendo l’occasione di ripensarci. Era una carezza. Tutto quello che mi
avrebbe potuto salvare dalla morte era una carezza. – riprese a singhiozzare,
ma con posata tristezza. –e stavo morendo, lo sapevo perfettamente che era
troppo tardi, e cercavo di ritrovare la sicurezza di prima, la fiducia nella
morte. Lo Lo aveva risvegliato in me il beneficio della scelta. Da una parte,
la corda, morte, ruvida come la sua
lingua, dubbio. E io ho dubitato. Quando dicono che la vita è l’unica cosa in
grado di ridarci speranza, sbagliano. Il dubbio è ciò che ci fa sentire vivi.
Ci fa sentire noi. La facoltà di scegliere, di meditare a lungo, se vuoi in
eterno, mette in discussione la nostra intera personalità. Ed io… non ho
dubitato. Oh, dio, non ho dubitato affatto.-
Le sue ultime parole si spensero prima di afferrarne
il significato. Scese sgraziata dal davanzale come un uccellino dall’ala rotta,
e si trascinò verso l’uscita.
-Maria! Dove vai? Sarebbe meglio non ci dividessimo… -
Lei si voltò un’ultima volta. Non ci fu bisogno di
parole. Ci abbracciò tutte con lo sguardo, e si diresse verso dove l’avevo
vista la prima volta. Nel buio.
Dubbio. Vita. Morte. Dubbio. Dubbio.
Era questo il luogo nel quale ci trovavamo? Nel quale
avremmo indugiato per sempre?
-Credo di voler andare anche io. – sentenziò Vera.
-Si, anche io. Tornerò nella sala dell’altare.-
-Si-
-Mmm.-
-E tu, Flora?-
Io? Io non credevo nemmeno di avere la facoltà di
camminare e muovermi, marionetta in quella pallida pantomima. Ciononostante,
annui, e mi immersi di nuovo nel buio.
Fu strano come le loro voci sparirono di colpo. Evidentemente, ogni stanza era un mondo a sé. Probabilmente,
le avrei riviste. O no. Sarebbero vagate come brutte bamboline di porcellana di
qua e di là, ciondolando i loro testoni e battendo le loro scarpette di vernice
e facendo sciocche domande. Poi la
bambina che le manovra si sarebbe stufata, avrebbe preso le loro estremità
cicciotte, e le avrebbe battute una contro l’altra. Finché la porcellana non si
sarebbe sgretolata, e i vitrei occhioni sarebbero scivolati giù giù giù come
pesci morti, i bei grembiulini sporchi di terra, i riccioli impiastrati di
piccoli insetti… il lato dolce ed indolore della morte…. La vita eterna dei
corpi… la porta socchiusa che lentamente lascia sbirciare attraverso…
Un passo dietro l’altro. Op, op. Una coscina di pollo
dopo l’altra.
Il corridoio sembrò cessare. Ebbi l’impressione di
passare al di sotto di qualcosa di enorme, seguita da un opprimente senso di
agorafobia. Fu come se l’immenso si
aprisse e allo stesso tempo si ripiegasse su sé stesso per mostrarsi in tutto
il suo orrore. Le pietre sotto i miei piedi furono sostituite da duri tralci
erbosi. E, bizzarro, percepii l’effluvio che si sprigionava da questo brusco
cambiamento.
Odore di acqua. Odore di fiume.