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Autore: thyandra    09/05/2014    4 recensioni
[Reincarnation!AU] [Modern life!AU] [Rainsworth trio centric]
Una storia narrata da tre voci, con tre protagonisti ma un'unica storia comune: quella di un sogno che sembra essere fin troppo reale per essere un prodotto della loro fantasia. I loro destini si intrecceranno ancora una volta, nonostante i confini del tempo, o si sfalderanno per sempre?
Nota: nella shot avranno nomi diversi da quelli originali perché ho dato per scontato che se fossero davvero rinati, non avrebbero di certo avuto i nomi precedenti (e anche perché così è più divertente, of course!). Hanno nomi inglesi perché ho voluto ambientare (seppur molto vagamente) questa AU in Inghilterra. Beh, ci si vede dentro, si spera!
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Reim Lunettes, Sharon Ransworth, Xerxes Break
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Anche oggi, niente è esistito



 

 
Aprire gli occhi la mattina con la consapevolezza -no, la certezza- che il proprio respiro, in quel luogo, avesse qualcosa di terribilmente innaturale, atemporale quasi, era una sensazione strana ma familiare, per lui. Non sapeva se l'avrebbe dovuta considerare sgradevole; era più come un noioso prurito sulla schiena in un punto che le braccia non potevano raggiungere; era un'impressione, più che un vero e proprio pensiero articolato, che martellava con persistenza i confini della sua mente. Una distrazione.
Tyler premette il bottoncino della malandata macchinetta del caffè, aggiungendo sovrappensiero la dose massima di zucchero che il macchinario metteva a disposizione. Inserì qualche penny e quello cominciò a vibrare, preparando l'ordine.
Sbuffò. Non era di certo la prima volta che provava quella sensazione. I ricordi erano molto sfocati, come i confini di un sogno remoto, ma in essi, se si sforzava, riusciva ancora a distinguere quelle due paia di occhi nocciola guardarlo dall'alto in basso: uno dal taglio giovane, infantile e femmineo, l'altro preadolescenziale, dietro un paio di occhiali. E lui sdraiato su un prato bagnato dal sole, con un forte puzzo di sangue che permeava l'aria, per qualche ragione.
Col senno di poi, unito ad un galeotto progetto di scienze alle superiori, era riuscito anche ad associare uno dei due volti agli occhi del ricordo. L'altro gli era tuttora ignoto.
Sbadigliò, spostando la cartella da un braccio all'altro per prendere il caffè bollente con la mano destra. Non si sarebbe mai abituato al saporaccio amaro di quella bevanda frutto del demonio ma, come gli ricordava spesso Daniel ai tempi dell'università, il caffè era il migliore amico dello studente.
Sorrise dentro il suo bicchiere fumante, non visto, mentre si affrettava per i corridoi della facoltà. Quelle lunghe giornate spese su libri e sugli appunti compilati nell'ordinatissima calligrafia di Daniel, preparando esami per cui era consapevole di non poter sperare neanche in un misero 18, sembravano adesso così lontani... Specie se ripensava alle lunghe filippiche del più diligente amico, quando con nervosa stizza strofinava le sue lenti sempre lucidissime, rimproverandolo per questa o quella mancanza nello studio; o per la sua costante disattenzione in aula, che gli costava quasi sempre salvifiche sessioni di ripasso dell'ultimo minuto insieme al moro.
Il suo sorriso crebbe ancora di più, compensando l'amarezza della bevanda, ripensando a che strano corso prendesse spesso la vita. Se qualcuno glielo avesse detto all'epoca, si sarebbe fatto una grassa risata: eppure eccolo lì, con quella cartella sotto al braccio, il caffè bollente a rimediare alle poche ore di sonno, mentre si affrettava verso l'aula, lanciando un'occhiata all'orologio da polso che gli ricordava il suo ritardo.
No, il suo sorriso non si spense neanche quando incontrò quel paio di familiari occhi nocciola dietro le sue solite lenti, incurvati in uno sguardo di severo disappunto. Era già seduto al suo posto, Daniel, ovviamente. Gli sussurrò un veloce buongiorno, mentre Tyler gli passava a fianco per andare a sedersi dietro al microfono.
Già. Era un professore, adesso, e Daniel il suo assistente. Un professore di filosofia, per la precisione. Strana, la vita, vero?
Tirando fuori il manuale dalla cartella e tirando alcuni lievi colpetti di prova al microfono, si apprestò a cominciare la lezione. Tutto sommato, il suo ritardo non era poi così grave, rientrava pur sempre nel quarto d'ora accademico. Daniel avrebbe dovuto smetterla di piantargli quello sguardo di biasimo addosso. Aveva avuto una notte difficile, tormentata da incubi claustrofobici abitati da persone senza volto. Svegliarsi non le aveva fatte andare via.
Sfogliò il volume fino ad arrivare alla pagina contrassegnata da un segnalibro a forma di lecca-lecca -bando alla serietà accademica, aveva pur sempre 29 anni- e si schiarì la gola prima di intraprendere la spiegazione sull'esistenzialismo di Sartre.
Routine, quanta routine. Forse non aveva davvero il diritto di lamentarsene, se quella stessa, tediosa routine gli conferiva una vita tranquilla e serena. Non fosse stato per quella costante sensazione d'inesattezza nei recessi della sua mente, avrebbe lasciato correre quello che a Daniel sarebbe passato senza dubbio come un capriccio.
Ma Daniel sapeva. Lo aveva visto sul fondo di quegli occhi abili a svicolare dal suo sguardo, quando gli aveva confessato tutto. E non gli era neanche sembrato sorpreso.
Daniel, Daniel... Cos'è che stai disperatamente cercando di nascondermi?
Si portò distrattamente una ciocca dietro l'orecchio, scorrendo con lo sguardo tra le righe del libro, e quella sensazione si fece più pressante, nella sua mente. Si trovò a chiedersi, senza realmente pensare, perché i suoi capelli fossero così corti. E le sue dita si mossero leggere nell'aria, carezzando una lunga chioma che non c'era. Le guardò per un istante, prima di riscuotersi. Era nel bel mezzo di una lezione, centinaia di ragazzi lo stavano osservando, non era il momento per farsi prendere da quelle fantasie.
Che cosa mi sta succedendo?
Ma quella sensazione non voleva abbandonarlo. Gli scuoteva le viscere di un'ansia insensata, intangibile, che non sapeva spiegarsi. Fu in quel momento, mentre il suono della sua stessa voce, amplificata dal microfono, gli giungeva attutita ad orecchie troppo impegnate a pompare il sangue ad una velocità febbrile, che lei entrò nell'aula, tutta trafelata per il ritardo.
Non le aveva prestato attenzione, dapprima, abituato ad ignorare quel costante viavai che era il vero protagonista di ogni lezione universitaria. Ma quando sollevò appena le iridi carminee dalla pagina stampata per abbracciare con lo sguardo l'auditorium pieno di studenti incontrò per caso un paio d'occhi fin troppo familiari, seppur sconosciuti: l'unica differenza, rispetto a quelli del sogno, erano le lunghe ciglia che coronavano adesso quelle iridi, facendole apparire molto più mature, molto più belle di quanto non ricordasse. Si ritrovò incapace di emettere suono per un secondo di troppo, lo sguardo sempre puntato addosso alla proprietaria di quegli occhi, che adesso lo guardava a sua volta, imbarazzata per quella attenzione rivoltale.
Si chiese, confuso, perché il suo cuore avesse mancato un battito, realizzando di poter vedere quelle iridi.
"Scusi per il ritardo," disse lei.
Tyler pensò che anche la sua voce fosse familiare. Ma quelle poche parole furono abbastanza per riportarlo su questo piano materiale. Rivolse più saggiamente gli occhi al manuale, dandosi dello sciocco; era una perfetta sconosciuta, come poteva scatenare nel suo petto quella sensazione così strana, così simile alla malinconia? Era insensato voler credere in quella stupida allucinazione, si ripeté, in quel giochetto della sua mente. Ultimamente si sentiva spossato, appesantito da una forza che trascendeva la sua comprensione, portandolo a chiedersi cosa lo facesse sentire sicuro che quella che stesse vivendo fosse la realtà. Cosa gli permetteva di giudicare con tale certezza il confine tra verità e immaginazione? Stava forse impazzendo? No, non poteva essere così; non si era lasciato sfuggire, con la coda dell'occhio, lo sguardo attento e ora un po' preoccupato che Daniel gli stava lanciando dal fondo della lunga scrivania.
Riprese la sua spiegazione su Sartre, sorridendo appena nel leggere il brano che campeggiava sulla pagina aperta.
<< Anche oggi, niente è esistito.>>
 


 
"Anche tu la conoscevi, vero?"
Quella domanda a bruciapelo, posta con finta noncuranza tra una chiacchiera e un'altra, mise Daniel in una posizione scomoda. Non gli sfuggì l'uso del tempo passato.
Temporeggiò, portandosi alle labbra una forchettata d'insalata e masticandola con eccessiva cura. Osò incontrare lo sguardo di Tyler, che stava giocando con i rimasugli della sua cheesecake spostando le briciole da una parte all'altra del piatto e mascherando i suoi pensieri dietro un sorriso e un'espressione serena. "Lo mangi, quel budino?" aggiunse poi lui, allungandosi per afferrarlo prima che Daniel potesse rispondere. "Oh, ma certo che non lo mangi. Ti farebbe male, tutto questo zucchero" si rispose da solo con espressione sorniona, aprendone la linguetta e affondando il cucchiaino di plastica nella morbida crema. Daniel si pulì le labbra nel tovagliolo, pensando che dopotutto aveva preso l'abitudine di comprare anche il budino, alla mensa, solo per poi cederglielo, ogni volta. A Daniel il cioccolato neanche piaceva.
"Suppongo a questo punto negare sarebbe inutile, non è vero?" sospirò, ben conscio della testardaggine dell'amico. Questi infatti annuì, il cucchiaino ancora tra le labbra nonostante il vasetto fosse stato già svuotato.
"Chi era, per noi?" Chiese ancora lui, andando dritto al punto e facendosi immediatamente serio, come ogni volta che si metteva in testa d'indagare su qualcosa. Daniel esitò, dubbioso se fosse davvero opportuno riportargli alla memoria tutti quei ricordi che li vedevano protagonisti insieme, loro tre, nel bene e nel male. Non sapeva che effetti avrebbero avuto sull'amico. Uno di questi episodi, l'ultimo e il più fresco nella sua coscienza a lungo termine, era quello che lo spaventava di più.
"Non ricordi proprio nulla?" Chiese a sua volta. Fu il turno di Tyler di esitare, stavolta, volgendo lo sguardo in un punto non ben definito del piccolo locale, senza vederlo davvero.
"Immagini sconnesse, incomplete... Echi di sensazioni." Rispose. Poi si voltò a guardarlo negli occhi con un'insistenza che mise a disagio Daniel, facendogli cambiare nervosamente la posizione delle gambe sotto al tavolo. Lo vide assottigliare le palpebre, mettendolo a fuoco con una urgenza che appariva quasi dolorosa, e capì. Stava ricordando la sua cecità.
Strinse involontariamente le mani sul tovagliolo ripiegato sul tavolino, mentre riprendeva la parola.
"È la persona che giurasti di proteggere a costo della tua stessa vita, Xerxes. Lo ricordi, questo?" disse, chiamandolo con il suo vecchio nome e usando un tono stranamente dolce per la durezza delle sue parole, di cui si stupì lui stesso. Era... malinconico.
Sentì gli occhi farsi appena più lucidi e rifuggì lo sguardo dell'amico, aggiungendo in fretta. "Se lei stessa non ricorderà da sé, devi promettermi di non tentare di avvicinarla." Le sue parole suonarono amare alle sue stesse orecchie, ma non si era potuto astenere dal pronunciarle. Per quanto egli stesso desiderasse ristabilire ciò che avevano perduto, sapeva che questo era un desiderio egoistico e, in quanto tale, sbagliato. Non avrebbe dovuto parlarne neanche con lui, tanto per cominciare. Quelle memorie appartenevano ad un'altra vita, ad altre persone diverse da quelle presenti. Lui non aveva il diritto di rievocarne i fantasmi per la propria unica volontà. Sharon poteva essere felice, se non avesse ricordato...
Si sentì toccare la fronte da qualcosa di appiccicoso e sollevò lo sguardo. Tyler aveva poggiato un lecca lecca tra le sue sopracciglia e gli stava sorridendo.
"Che diamine stai facendo, Tyler?" sbottò, mascherando la vergogna, che subito lo assalì nel rendersi conto di essersi lasciato andare alla tristezza, sotto una maschera d'irritazione. Dannazione, Xerx, perché devi essere sempre così coraggioso? Mi fai sentire così debole...
Lui non rimosse il suo dolcetto, un sorriso enigmatico sul viso.
"Quell'espressione corrucciata non ti si addice, Reim-san."
 
 
Katie si lisciò per l'ennesima volta una lunga ciocca di capelli che le scendeva morbidamente al lato del viso, indecisa sul da farsi.
Stava lì, ferma davanti alla porta del piccolo studio che conosceva bene, ma che non aveva mai trovato il coraggio di varcare, in tutti quei mesi.
Sì, perché lei ricordava, anche se lui, invece, no. Eppure...
Era una possibilità minima, quasi inesistente. Aveva passato mesi a pensarci su, sin da quando aveva visto per la prima volta quel viso, in aula. Non poteva sbagliarsi, era lui. Solo lui era capace di sorridere così apertamente, con quel suo caratteristico sorriso goliardico. Solo lui poteva nascondere tutte quelle caramelle tra i documenti e i volumi accademici. Solo lui aveva quella sfumatura particolare nelle iridi di cui non sperava poter mai più vedere la luce. Eppure, quelle iridi non le avrebbe mai dimenticate, né confuse con altre. Contenevano il riflesso di troppi ricordi per poterselo permettere, in quello stretto spazio tra due ciglia scure. L'occhio, anzi, i suoi occhi adesso sembravano riflettere ancora quel tempo passato, permettendole di nuovo di specchiarcisi dentro. Era una strana sensazione, le scaldava il petto di qualcosa... Nostalgia, forse.
Era ancora il suo Xerxes-niisan, anche se adesso era il suo professore di filosofia.
E poi c'era anche Reim-san. Se avesse avuto qualche dubbio su fatto che si trattasse davvero di lui, il modo in cui si puliva nervosamente le lenti degli occhiali glielo avrebbe dissipato. Questo, oppure la sua postura ben dritta e seria, religiosa, quasi, mentre scriveva sul suo quaderno.
Sarà anche stata una vita fa, ma non siete cambiati per niente, pensò, sorridendo di tenerezza quasi materna al ricordo.
Era da un po' che aveva in mente quel tête-à-tête e, per quanto volesse negarlo, quello scambio di sguardi del giorno precedente, in aula, le aveva dato speranza. Perché, nonostante Katie si ripetesse che sicuramente lui non avrebbe ricordato, per quanto continuasse a convincersi che per lui sarebbe stato meglio lasciarsi quella lunga vita alle spalle, Katie non poteva vietarsi di sperare il contrario.
Era stato un attimo, ma sufficiente per notare quel lampo di consapevolezza, in quegli occhi che avevano visto così tanto del mondo, tanto da desiderare ardentemente quell'oblio.
Era egoista, Katie, anzi, Sharon. Lo era sempre stata, sin da quando aveva deciso di lottare per farsi spazio in quel cuore solitario, per tentare di portarvi un po' di calore.
Serrò la stretta sul ventaglio borchiato, biasimandosi un po'. Che diritto aveva, in fin dei conti, a ripiombare nella loro vita, trascinandosi dietro le speranze e i rimpianti di un ricordo morto, che avrebbe dovuto essere già sepolto e compianto?
E poi cosa avrebbe dovuto dir loro? "Salve, prof, si ricorda di me? Sì, sono una studentessa del suo corso, ma in un'altra vita sono stata la vostra padrona e voi il mio Cavaliere e, no, questa non è una candid camera"? Suvvia, suonava ridicolo alle sue stesse orecchie. Lui le avrebbe riso in faccia, come suo solito. Scommetteva che non aveva perso quella sua caratteristica. L'aveva sempre trovata una frivola ragazzina, d'altronde. Mise su il broncio, senza neanche rendersene conto.
L'avrebbe riconosciuta, poi, ora che la sua immagine appariva così diversa, rispetto al passato?
Il suo viso dai tratti ancora fanciulleschi, pur essendo cresciuto rispetto a quell'istantanea dei suoi 14 anni in cui era intrappolata un tempo, era adesso nascosto da uno strato pesante di trucco scuro. L'unico riflesso della vecchia se stessa sembravano essere i pizzi alla gonna nera.
Non ci aveva mai pensato, da quando aveva ricordato, ma forse quel suo look, a tratti un po' estremo, era anch'esso un inconscio tentativo di allontanamento dalla vecchia se stessa. E se anche loro avessero voluto allontanare quei riflessi opachi, lontani, cosa avrebbe fatto, lei?
Si riscosse, schiaffeggiandosi il viso coi due palmi aperti, un'espressione determinata a curvare adesso le sue sopracciglia.
Beh, cosa era valso combattere fino a quel punto, se proprio adesso cedeva?
A cosa era servito ricordare tutto, se poi non intendeva neanche provarci?
Deglutì. Lui non l'avrebbe mai considerata una donna, se prima lei stessa non si fosse convinta di esserlo. Sì, doveva essere quella la decisione giusta. Non si chiese più se fosse egoista, ci avrebbe pensato dopo.
Con il sorriso sulle labbra, Sharon aprì la porta.





Note finali: Ammetto che quello di Sharon nelle vesti di gothic lolita era solo un mio capriccio, spero non sia dispiaciuto a nessuno xD 
Comunque, parlando della shot: i due ricordi a cui fanno accenno prima Break e poi Reim, sarebbero, nell'ordine, il risveglio di Kevin nel giardino dei Rainsworth (dopo il patto con la Volontà dell'abisso), e una certa scena specifica del cap 92 che non citerò espressamente (dato che non ho inserito l'avevrtimento spoiler), ma che chi ha letto le scan dovrebbe conoscere bene.
E a chiunque fosse arrivato a leggere fin quaggiù, che ne direste di farmi sapere, anche con un breve commentino, cosa avete pensato di questa shot? ^.^
Bisous,
thyandra
  
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