Ho scritto
questa storia in vista dell’attuale edizione del premio Campiello Giovani
(intitolandola “Sei come me”, ma devo dire che questo nuovo titolo
è molto più appropriato). Non è più in gara,
perciò mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i miei lettori su EFP…
Soprattutto perché è proprio da questa che ho preso ispirazione
per scrivere “Aamyan degli Elfi”, su Card Captor Sakura. Perciò,
chi ha letto quella fanfic troverà qui parecchi riferimenti alle vicende
di Shaoran… ^^ Anche se non avete letto la suddetta, comunque, sarei ugualmente
felice di sapere cosa pensate di questa shot!
Buona lettura!
Il sangue verde
La foresta era opprimente,
nell’aria fredda di quella notte buia. Il silenzio pesava come un manto
sullo spettacolo spettrale dei rami spogli e fragili, degli arbusti spinosi, dei
sentieri sbarrati dai tronchi caduti dopo le ultime piogge della stagione. Solo
il vento, con i suoi sussurri, fruscii, parole non dette, penetrava nella
quiete della boscaglia.
Il
ragazzo percorreva con passi esitanti il verde ormai secco che lo circondava.
Odiava la notte, l’aveva sempre odiata. Era simbolo dell’arcano,
del domani buio, di un’altra delle mille occasioni in cui la vita gli
sarebbe sembrata oscura. Ancor di più la odiava ora, ora che doveva
affrontare quel buio per sperare in una luce nuova, per cercare di illuminare
quello stesso domani.
Solo
le creature della foresta potevano aiutarlo. Conoscevano la natura, la
sentivano, la respiravano, la vivevano, la capivano. Ed erano in grado di
leggerne i segni, scrutando nell’oscurità del destino. Solo loro
avevano la risposta alla sua domanda.
Finirà mai?
Uno
scricchiolio improvviso. Il ragazzo si fermò, attento, ascoltando il
bosco. Niente, forse lo aveva solo immaginato. No, ecco, si ripeteva. Due
volte, tre. Passi poco distanti nell’erba secca. Si voltò nella
direzione da cui provenivano. Fu allora che lo vide.
Doveva
avere più o meno la sua età. Capelli scuri, occhi immersi nel
buio, nascosti al suo sguardo. Lo sconosciuto si fermò e lo
guardò a sua volta, apparentemente soppesandolo. Poi parlò.
«Chi
sei, straniero?»
Avrebbe
potuto fargli la stessa domanda, e lo sconosciuto lo sapeva.
«Uno
di queste parti.»
Il
ragazzo attese che anche lui si identificasse, magari in un modo altrettanto
evasivo; ma il nuovo arrivato non fece nulla del genere. Si limitò a
restare immobile, a qualche passo da lui, all’ombra del ramo proteso di
un sempreverde. Solo dopo una breve pausa, lo sconosciuto parlò di
nuovo.
«E
cosa cerchi qui? Questo è territorio sacro. Non si dovrebbe battere
questa terra senza una ragione valida e sincera.»
«Ho
le mie ragioni, e certo sono valide e sincere.»
L’altro
abbassò la voce, riducendola a un sussurro, in modo da non lasciarvi
trasparire alcuna emozione.
«Allora
tu sei come me, straniero…»
Il
ragazzo lo fissò, incerto.
«Cosa
vuoi dire?»
Lo
sconosciuto avanzò, e la luce delle stelle finalmente colpì il
suo viso, specchiandosi in due occhi verdi della stessa sfumatura del mare e
creando giochi d’ombre sui lineamenti di un adolescente dal viso di un
adulto. Quello sguardo lo colpì inspiegabilmente.
«Tu
cerchi le creature. Non è vero, straniero?»
Ecco
cosa c’era in quegli occhi. La capacità di trafiggere, permeare,
arrivare fino in fondo all’anima di chiunque si fossero ritrovati di
fronte. Il ragazzo non si azzardò a negare.
«Allora
faresti bene a tornare sui tuoi passi. Non troverai ciò che cerchi,
presso di loro.»
Ma
cosa ne sapeva, lui? Cosa gli dava il diritto di dargli quel consiglio
indesiderato? Avrebbe voluto urlarglielo in faccia, sfogare contro un perfetto
sconosciuto la frustrazione che lo attanagliava da una vita intera; ma quegli
occhi verdi gli uccidevano le parole sulle labbra. Sentiva, in qualche assurdo
modo, la verità di quelle parole.
«Io
sono stato da loro, straniero. Non ho avuto alcun conforto dall’averle
viste, né dall’essere riuscito a parlare con loro. Loro non
possono nulla contro i miei demoni. E se anche tu sei afflitto dalle mie stesse
domande, neppure contro i tuoi.» Lo strano ragazzo dai capelli scuri
sorrise amaramente nel debole fulgore delle stelle. «Non c’è
pace, non c’è modo di sfuggire a ciò che odi. Verrà
sempre ad esigere la tua attenzione, e ti perseguiterà in eterno,
perché la risposta è una sola. No, non finirà mai. Il
destino non si può cambiare.»
Gelo.
Smarrimento. Paura.
Fece
un passo indietro. Questa volta, in fondo alla gola, riuscì a trovare le
parole che meglio potevano esprimere il suo sconcerto.
«Ma
tu chi sei? Come fai a sapere ciò che cerco?»
Lo
sconosciuto non smise di sorridere.
«Il
mio nome è Syrra. E credimi, noi due abbiamo in comune molto più
di quanto tu non creda.»
Fu così che
iniziò tutto.
Il
tempo passava, la notte scorreva via veloce, ma lui non se ne rendeva conto.
Rimase per tutto il tempo assorto nella conversazione con quel misterioso
personaggio dagli occhi verdi, un estraneo in cui aveva visto un po’ di
sé. Syrra, aveva detto di chiamarsi. Non sapeva altro, se non che era
davvero uguale a lui. Impossibile non sentirsi vicini a ciò che
esprimevano quegli occhi: tormento, ansia, affanno, il peso di una strada
già tracciata da cui risultava impossibile potersi allontanare.
«Anche
tu cerchi una scappatoia al destino, Syrra?»
Da
quella semplice domanda era partito tutto. Avevano iniziato a parlare,
abbandonati nella radura, due ragazzi uguali e diversi, vicini e lontani.
Avevano condiviso debolezze, delusioni, disillusioni, pur senza rivelarsi nulla
della loro vita. Lui ancora non sapeva chi fosse Syrra, né perché
quella stessa notte avesse deciso di andare dalle creature della foresta, né
quale fosse il destino pieno di ‘demoni’ da cui affermava di voler
fuggire. Ma non riusciva ad evitare di parlare con lui del suo desiderio di una
vita diversa, una vita da qualche altra parte del mondo, una vita in cui non
fosse costretto a guardarsi continuamente alle spalle per essere sereno. A sua
volta, non aveva detto a Syrra chi fosse, ma aveva messo a nudo la sua anima,
parlando liberamente come mai aveva fatto prima.
L’alba
tingeva di rosa il cielo a oriente.
«A
quanto pare è ora di salutarci, straniero.»
Il
ragazzo rimase a fissare Syrra che si alzava.
«Mi
chiamo Koram.»
Lo
sconosciuto dagli occhi verdi sorrise.
«Allora
addio, Koram.»
Lui
balzò in piedi. Non poteva permetterlo, non poteva lasciare che le loro
strade si allontanassero. Non sapevano nulla l’uno dell’altro, se
non il nome; non si erano mai visti prima e anche quel loro incontro era stato
un puro caso voluto dagli dei; eppure erano così tremendamente simili,
così curvi dal peso di una realtà troppo grande per loro. In
Syrra aveva trovato qualcuno che poteva condividere tutto di lui, che poteva
capirlo, che poteva forse sostenerlo.
«Incontriamoci
di nuovo.»
Syrra
lo fissò impassibile.
«Non
ne abbiamo motivo.»
«Sì,
invece… È come hai detto tu, abbiamo troppo in comune.
L’esserci incontrati deve avere un significato.» Si interruppe,
prima di concludere decisamente. «Domani notte, in questo stesso posto.
Io ci sarò.»
L’altro
non disse nulla, ma nel suo sguardo imperscrutabile balenò una debole
luce di promessa.
«Non ci siamo, Koram,
devi concentrarti.»
Koram
sospirò profondamente, scostandosi dagli occhi i capelli biondi. Niente
da fare, per quel giorno non sarebbe riuscito a dare di più. Ma questo,
Fharma sembrava non capirlo.
Già
normalmente, l’addestramento era l’esperienza che meno sopportava
nei suoi giorni sempre uguali. A che scopo fingere di volersi uccidere a
vicenda? Per essere pronti ad andare ad uccidere per davvero, uccidere qualcun
altro, altre persone con le loro vite, i loro sogni, le loro strade? Bella
motivazione. La vita nell’esercito gli sembrava sempre più
squallida, e sempre meno una vera vita. Ma del resto che scelta aveva, lui che
in guerra ci era nato ed era destinato a morirci?
Non c’è pace, non
c’è modo di sfuggire a ciò che odi.
Le
parole di Syrra, il ricordo più vivido della notte precedente, erano
dure come pietre e insistenti come spifferi di vento tra le imposte rotte di
una casa devastata.
Era
davvero così? Non si poteva cambiare il proprio destino? Nemmeno le
creature della foresta ne erano in grado?
Non
poteva credere che sarebbe stato sempre così, ogni giorno, combattere e
uccidere e rischiare la vita per obbedire agli ordini, sopraffare gente verso
cui non provava alcun rancore personale, e ancora, e per sempre, fino ad
annullarsi completamente, a diventare un mero strumento di morte, e a
desiderare la morte stessa come liberazione da quella strada di sangue che non
aveva mai desiderato percorrere, quella cui era stato iniziato fin dalla
nascita…
«Koram?»
Fharma
non capiva, non poteva capire. Era un soldato, un veterano, il suo protettore,
l’ultimo parente che gli fosse rimasto. Era colui che, alla morte dei
suoi genitori, lo aveva raccolto tra le braccia e lo aveva indirizzato a quel
supplizio che chiamavano vita. Lui aveva già visto, si era già
annullato, forse già desiderava la liberazione finale. Non poteva
più avere l’impeto adolescenziale che portava Koram a volere
qualcosa di diverso, qualcosa di suo.
«Perdonami,
nonno. Oggi non mi sento in vena.»
Koram
gettò a terra la spada e si allontanò a grandi passi dal campo di
addestramento, costellato da uomini che non erano più uomini e da ferite
che insieme al sangue portavano via tutto il resto.
Doveva,
doveva esserci qualcos’altro al mondo. Doveva esserci un senso in quello
smarrimento.
Si
fermò sulla cima della collina sovrastante il campo. Non si
soffermò ad osservare i suoi compagni dell’esercito di Galta, ma
spinse lo sguardo oltre, verso la foresta. Si chiese se quella notte Syrra
sarebbe stato di nuovo lì, se sarebbe sempre stato convinto di non poter
nulla contro il destino.
E
si chiese se anche il suo demone fosse la guerra.
Quella notte, Syrra era
lì.
Ritrovare
il suo viso tra le ombre degli alberi più fitti della foresta fu per
Koram un toccasana dopo una giornata di dubbi e ripensamenti. Si era chiesto
per quale maledetto motivo doveva fidarsi di quel ragazzo, perché
diavolo avesse desiderato vederlo di nuovo, e perché era rimasto tanto
ferito dal suo fatalismo. In fondo non lo conosceva affatto, non aveva motivo
di condividere con lui la sua insoddisfazione, né di tenere in
considerazione il suo modo di vedere la vita. Si ostinava ad affermare la
propria impotenza di fronte agli eventi? Bene, allora era chiaro che non erano
sulla stessa lunghezza d’onda, che lui era come Fharma, come tutti i
soldati consacrati unicamente alla missione di guerra. No, davvero, non aveva
senso tornare alla foresta, quella notte.
Eppure
era tornato lo stesso. Sentiva che era la cosa più giusta da fare.
Syrra
era seduto nella radura in cui si erano incontrati la notte precedente. Le
braccia incrociate, il capo chino, sembrò accorgersi della sua presenza
prima ancora che Koram potesse avvicinarsi.
«Credevo
che avessi cambiato idea.»
Di
nuovo quella sensazione, come se gli leggesse dentro. Ma chi era quel tipo?
«Sono
qui.»
Una
frase inutile, ma non aveva altro da dirgli. Tutte le parole erano state
già dette, in quel loro primo colloquio notturno, e non ce n’erano
altre da aggiungere. Questa volta, avrebbe ascoltato. Koram sedette di fronte a
lui.
«Syrra,
qual è il tuo destino?»
Lo
sconosciuto dagli occhi verdi sollevò la testa e lo guardò.
«Sono
un esiliato. Non appartengo ad alcun popolo. Non appartengo nemmeno a me
stesso, perché da che vivo ho sempre viaggiato tra le genti, alla
ricerca di una strada che non c’è. Ho desiderato uscire da questo
senso di ricerca mai finita, ma non ne ho mai trovato il modo. E anche le
creature della foresta mi hanno assicurato che non quella strada non
c’è, che sono nato solo, vivo solo e morirò solo, perché
è così che deve essere.»
Koram
non disse nulla. Si limitò a guardarlo, sentendo un flusso di
comprensione per lui crescere sempre più forte, come un fiume in piena.
«Ma
tu, Koram, non sei un esiliato. Tu subisci un altro genere di demone. Non
è così?»
«È
così.»
Non
poteva nascondergli ancora la sua vera vita, come aveva fatto finora; non
poteva restare nel vago, quando lui era stato così sincero e schietto,
rivelandogli senza più remore né allusioni la fonte del proprio
turbamento interiore. Era il suo turno di fronteggiare i fatti.
«Il
mio destino non è l’esilio, ma la guerra. Eppure in un certo senso
è la stessa cosa. Tu vai alla ricerca di un’identità, e io
cerco di allontanarmi da questo mio mondo, che ha distrutto tutto ciò
che avevo. Se non fosse per la guerra, la mia famiglia sarebbe ancora
intatta… Ma io discendo da una stirpe di soldati, e ci si aspetta da me
la stessa frenesia bellicosa. Mentre invece darei qualsiasi cosa per essere
come te, solo e libero, libero di andare dove voglio e di pensare ciò
che voglio…»
«Io
non sono affatto libero.»
Nel
sussurro di Syrra, Koram ritrovò un attaccamento al passato che ben
conosceva. Era qualcosa di cui si sarebbe ben volentieri sbarazzato, ma che
faceva parte di lui, e che per questo non poteva essere ignorato…
Allora tu sei come me, straniero…
Quanto
aveva avuto ragione… In un semplice sguardo, Syrra aveva capito tutto
ciò che li univa. Stanotte Koram ne trovava tutte le conferme.
Fu l’inizio di una
lunga serie di notti, di incontri, di parole finalmente prive di impedimenti,
di scudi caduti, di fiducie condivise senza motivo. Tutto di quelle notti, di
quei confronti, era condivisibile: i gesti, gli sguardi, anche i silenzi
avevano per entrambi lo stesso significato.
La sedicesima
notte, Koram non riusciva ad alleggerirsi del peso della notizia appresa quel
giorno al campo. Anche parlarne a Syrra fu inutile.
«Domani
gli eserciti di Galta e Nalera si scontreranno.»
Syrra
non lo interruppe; mantenne un silenzio d’attesa. Koram continuò
in tono incerto.
«Conosco
la gente di Nalera. Mia madre era nata in quella terra. Non posso tollerare di
dover sostenere il loro attacco, non riesco a immaginare di dovermi battere con
loro…»
«Nalera
o Galta, credevi che le cose fossero diverse?»
Koram
incrociò lo sguardo verde di Syrra, senza capire. Lui proseguì
nello stesso tono neutro.
«Ovunque
ci siano uomini c’è guerra, Koram. Pensare che tua madre faceva
parte di quel popolo non può renderlo diverso ai tuoi occhi. Sono
uomini, uomini che sono diventati soldati. Come qui c’è il male e
il bene, lì c’è il bene e il male. Non si può
dividere nettamente le genti, e non si può evitare uno scontro in nome
di un ricordo. È il destino… Il tuo destino.»
Koram
lo fissò, improvvisamente furioso.
«Ma
come fai? Come puoi restare così impassibile? Pensi davvero che non ci
sia nulla più di… di questo? Che non si possa avere altro?»
Syrra
sostenne il suo sguardo. Quella notte si erano spinti più nel folto
della foresta, fino ad un piccolo lago poco profondo; l’acqua brillante
di riflessi di stelle illuminava gli occhi color smeraldo del misterioso esule
adolescente.
«Dimentichi
che mi è stato detto dalle stesse creature…»
«Già,
le creature… Cosa possono sapere, loro? Vivono in pace, in questa oasi
nel mezzo del caos, protette da tutto e da tutti, sicure nel loro mondo
intoccabile dai comuni mortali… Davvero credi che loro possano capire gli
uomini, che possano capire te o me?»
«Sì.»
La voce di Syrra era ferma, ma come sempre pacata. «Sì, Koram, lo
credo. Io ho fiducia nelle creature. È l’unica cosa che mi resta.
E tu? Cosa resta a te?»
Senza
parole, Koram si alzò di scatto, gli voltò le spalle e si
incamminò tra gli alberi, per uscire dal bosco. Era stanco
dell’arrendevolezza di Syrra, ma al tempo stesso non poteva sostenere il
confronto con la sua sicurezza: Syrra era almeno incrollabile nella sua
remissione al destino; lui, invece, non aveva certezza, non aveva nulla, non
sapeva cosa pensare.
Cosa resta a te?
Solo
quando giunse in vista del campo trovò la risposta a quella domanda.
“Mi
resti tu. Il mio unico amico.”
Il
risentimento si spense rapidamente. Rimpianse di essersene andato senza avergli
rivolto quelle parole. Se lo immaginò ancora lì, immobile sulla
sponda del laghetto, i capelli scuri a nascondergli il viso, le gambe strette
al petto, il mantello in tessuto leggero ondeggiante nella brezza dietro le sue
spalle, e il suo abbandono della lotta eterna tra ideali e realtà.
Così
uguali, così diversi… Ma amici…
Gli
sembrava quasi impossibile che, nel disordine di quell’esistenza vuota,
fosse riuscito a trovare qualcuno come Syrra, qualcuno come lui… che
però la pensava in un modo diverso. Nonostante questo, sentiva di dover
essere grato agli dei per aver incontrato quello strano ragazzo sulla sua
strada. Per la prima volta si sentiva compreso, ascoltato, seppur non
pienamente sostenuto; ed era quanto di meglio avesse mai avuto dalla vita.
L’aurora
illuminava le schiere dell’accampamento. Era il giorno della battaglia.
Da più di cinquecento
anni
L’arme
di Galta, forte di tutte le sue divisioni, era venuto incontro
all’assalto di Nalera fino alle montagne del confine, poco distante dalla
foresta in cui Koram aveva conosciuto Syrra.
Quel
giorno, le valli risuonavano dei corni e dei tamburi di guerra dei due
eserciti.
La
battaglia imperversava, impietosa come solo le guerre sanno essere.
«Nonno,
dietro di te!»
«Come
mi hai chiamato, ragazzo?»
«Fharma.
D’accordo, Fharma, dietro di te!»
Il
vecchio soldato si voltò solo all’ultimo momento, decapitando con
la spada il nemico che Koram gli aveva indicato. Quando si volse di nuovo al
nipote, dopo una sola occhiata urlò un avvertimento.
Nel
frastuono delle armi e delle grida, Koram non riuscì a distinguere le
sue parole; ma subito girò su se stesso. Si ritrovò a
fronteggiare un nemico che calava la spada su di lui. Alzò
meccanicamente la propria arma per parare il colpo; il nemico ora era
vicinissimo a lui, il viso a poca distanza dal suo, occhi negli occhi. Occhi
verdi. Il cuore di Koram saltò un battito.
Era
Syrra.
Il
mondo intero si fermò. No, non aveva senso, non poteva essere. Syrra non
era un soldato; era solo un esule che aveva rinunciato a cercare di costruirsi
una vita, abbandonandosi alla sorte. Syrra non poteva essere lì, in quel
momento, a combattere contro di lui. Syrra era suo amico.
Stordito,
incredulo, Koram abbassò il braccio. Syrra fece lo stesso, impassibile.
Rimasero immobili a guardarsi per un tempo infinito. Alle sue spalle, Koram
sentiva le urla sconnesse di Fharma, ma non riusciva a coglierne il senso;
probabilmente lo incitava a combattere, ma non poteva, non poteva battersi con
Syrra, non poteva e non voleva. Non…
Il
colpo arrivò improvviso e inaspettato, accompagnato dal dolore. Koram
aprì la bocca per urlare, ma non un suono uscì dalle sue labbra.
Fissò stolidamente la spada che gli era penetrata nella spalla destra,
all’altezza del cuore. Non capiva cosa fosse successo. Seguì con
lo sguardo la spada, il braccio che la sosteneva, fino ad incontrare di nuovo
gli occhi verdi di Syrra.
Lo
aveva colpito…
Le
spade cozzavano, i soldati cadevano, Fharma urlava più che mai, ma Koram
non aveva più sentore del mondo: tutto si riduceva a loro due, a quello
che era stato durante quelle notti nella foresta, e a quello che era adesso, e
al dolore. Non quello fisico, no; faceva molto più male dentro…
E
all’improvviso tutto fu bianco, e il verde degli occhi di Syrra si spense
in quella luce smorta.
Si svegliò in una
penombra grigiastra. Dovette sbattere le palpebre più volte per capire
di essere vivo. Si trovava in quella che doveva essere una grotta, ma non aveva
la più pallida idea di come ci fosse finito. Ricordava solo la montagna,
la gola in cui si era svolta la battaglia, il sangue e…
Il
solo pensiero di Syrra gli procurò una fitta dolorosa in un punto
imprecisato tra lo stomaco e il cuore. Scosse debolmente la testa e si
sforzò di parlare, a nessuno in particolare.
«Dove
sono?»
Ma
con sua sorpresa in effetti gli giunse una risposta, da una voce fin troppo
familiare.
«C’è
stata una frana. La neve ci ha spinti in questa caverna. L’apertura
è bloccata.»
Koram
voltò la testa. Syrra era in piedi davanti ad una grande spaccatura
nella parete della grotta, interamente ostruita dalla neve. Gli dava le spalle.
Il desiderio di urlare, di travolgerlo con la rabbia, la delusione, la
confusione che lo tormentavano gli ghermì la mente; ma non si sentiva in
grado di alzare la voce. Koram si limitò ad un sibilo pieno d’odio.
«Credevo
che fossi mio amico…»
Syrra
non rispose. Si voltò verso di lui, lo raggiunse e tese le mani sul suo
petto. Koram si ritrasse, ma il giovane dagli occhi verdi gli ispezionò
comunque la ferita; poi chiuse gli occhi e mormorò una serie di parole
in una lingua sconosciuta, mentre uno strano bagliore si protendeva dalle sue
dita sulla pelle lacerata di Koram.
Confuso,
Koram abbassò gli occhi sulla ferita. La luce dalle mani di Syrra stava
rimarginando la pelle. In meno di qualche secondo, l’epidermide
tornò intatta.
Il
ragazzo alzò di nuovo lo sguardo su Syrra. Si sentiva annientato. La
confusione aveva lasciato il posto al più totale smarrimento, la rabbia
all’esasperazione.
«Ma
tu chi sei in realtà?»
Fu
tutto ciò che riuscì a dire.
Syrra
si portò le mani al viso. Da che lo conosceva, Koram non lo aveva mai
visto così agitato.
«Koram,
è così… così difficile.»
Lui
non si fece impressionare. Un lieve fastidio iniziò a ribollire di nuovo
in lui, al pensiero della fiducia che aveva riposto in quell’estraneo, un
estraneo che si era rivelato essere un soldato nemico.
«Mi
avevi detto di essere un esiliato.»
«Lo
sono.»
«Allora
cosa ci facevi tra i soldati di Nalera? Cosa ti ha spinto a tentare di
uccidermi?»
La rabbia
montava di nuovo, rifluendo come il sangue, nella pelle miracolosamente sanata.
Syrra abbassò le mani e lo fissò di nuovo. I suoi occhi
verdissimi rilucevano di qualcosa di nuovo.
«Non
ti avrei mai ucciso, Koram. Io… Io non so cosa sto facendo.» Sospirò,
fremente. «La verità è che sono un mezzosangue, un ibrido,
un bastardo. Mio padre era un soldato di Nalera. Ma mia madre apparteneva a una
razza superiore, più pura e nobile. È da lei che ho imparato a
leggere nell’animo di chi mi sta di fronte. È così che ho
capito di aver incontrato qualcuno come me, quella notte nella foresta, quando
ti ho visto.»
Koram
non disse nulla. Syrra distolse gli occhi.
«Perché
è così, Koram, io e te siamo davvero uguali. Anch’io, come
te, non ho più una famiglia… Anch’io ho perso i miei
genitori quando ero solo un bambino, per colpa di questa guerra… E
anch’io ho sperato a lungo di trovare una vita diversa da quella che mi
aspettava, ho disprezzato l’idea di unirmi ai vecchi compagni
d’armi di mio padre… Ma la stirpe di mia madre mi ha aperto gli
occhi, mi ha fatto capire che non si è mai in pace, mai, e mi ha
scacciato quando ho mostrato la mia volontà di cercare un’altra
strada, un’altra vita…»
Koram
iniziava a sentirsi a disagio. Attese che Syrra continuasse.
«Tu
mi hai fatto credere di nuovo in ciò che sognavo, Koram. Quella notte
ero tornato dagli elfi della foresta dopo un lungo viaggio senza meta, e ancora
una volta mi ero sentito dire che non c’è fuga dal destino. Ma in
te ho visto quello che avevo perso, la speranza assurda di un’esistenza
migliore, il desiderio appassionato per quanto vano di cambiare tutto… In
te ho ritrovato me stesso.» Syrra tornò a guardarlo in viso,
facendolo sentire ancor più a disagio. «Ma ancora non riuscivo a
ritrovare quella speranza. Sapevo che, se anche mi fossi di nuovo illuso, la
disillusione poi avrebbe fatto ancora più male. E alla fine, ieri notte,
in qualche modo involontario mi hai sbattuto in faccia la realtà, e
cioè che non sono altro che un codardo, che il mio cedimento alla sorte
non è altro che vigliaccheria, perché non ho più il
coraggio di rischiare di desiderare qualcosa. Mi ha fatto malissimo, Koram. E
allora ho cercato di non pensarci, di continuare come prima, e per essere
ancora più irremovibile mi sono schierato con i soldati di Nalera per
questa battaglia. Volevo annullarmi. Volevo dimenticare tutte quelle speranze,
tutto ciò che avevo ritrovato di me in te.» Abbassò la voce
fino a un sussurro. «E sono stato uno stupido.»
Koram
lo guardò. Non sapeva cosa provare. Non riusciva ad arrabbiarsi,
né ad intristirsi, per quella storia di sogni distrutti, una storia in
cui lui stesso aveva spesso rischiato di ritrovarsi aggrovigliato. Sentiva solo
un gran senso di vuoto.
«Non
ti avrei mai ucciso.»
Syrra
lo ripeté ancora, come se sentisse il bisogno di spiegarlo nel
più efficace dei modi.
E
ancora una volta, come nella foresta, come sempre, Koram si fidò di lui.
«Syrra,
andiamocene da qui.»
Il
ragazzo dagli occhi verdi lo fissò.
«Come?»
«Andiamocene.
Lasciamo il paese, lasciamo
Syrra
sorrise tristemente.
«La
guerra esiste ovunque, Koram. Non puoi sperare di lasciartela alle spalle
semplicemente andando da qualche altra parte.»
«Non
importa. Dove andremo, non saremo tenuti a far parte di nessun esercito. Non
saremo tenuti a veder morire gente innocente. Ci sarà solo il ricordo
del passato, e quello certo farà male… Ma alla fine costruiremo un
futuro diverso. Non vuoi ritrovare la tua speranza?»
Syrra
esitò, distolse di nuovo lo sguardo.
Koram
sorrise mentre sbirciava di nuovo la propria spalla nuda. Insieme alla ferita
era sparito tutto il dolore.
«Sono convinto che qui
da qualche parte…»
Koram
si interruppe. Un refolo di aria fredda gli aveva appena sollevato i capelli
dalla fronte.
«Ne
ero certo. Doveva esserci un’altra uscita. Per di qua.»
S’incamminò
di nuovo, ascoltando i passi di Syrra alle sue spalle. Era riuscito a
convincerlo a cercare una via per uscire dalla grotta; camminavano da un tempo
indefinito, ma finalmente sapevano dove dirigersi. Uscire in un posto diverso
dalla gola in cui probabilmente si stava ancora svolgendo la battaglia sarebbe
stata la cosa migliore: avrebbero evitato da subito i due eserciti contrapposti,
per viaggiare insieme fino ad una terra nuova, su una strada nuova.
L’apertura
si spalancava sulle loro teste, affacciandosi promettente sul cielo azzurro.
«Come
hai intenzione di arrampicarti?»
«Vediamo.»
Koram
si guardò intorno. Ovviamente non c’era modo per uscire da
lì. Avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Si tolse il mantello, lo
strappò in tante strisce sottili e le legò insieme. A
un’estremità formò un anello. Syrra capì le sue
intenzioni senza dovergli chiedere nulla; anche lui si privò del mantello
e ne fece altre strisce, che legò all’intreccio già
realizzato da Koram. Lanciarono infine la corda improvvisata e la agganciarono
ad uno spuntone nel soffitto della grotta. Koram saggiò la resistenza
della ‘corda’.
«Bene.
Terrà.» La pose a Syrra. «Vai tu per primo.»
Syrra
la prese, arretrò fino a tenderla al limite massimo, corse verso la
parete, camminò su di essa e si slanciò verso l’apertura
nella sommità della grotta.
Quando
la corda di stoffa ricadde dolcemente, Syrra era già uscito
nell’aria aperta.
Koram
imitò i suoi gesti, e in breve anche lui si ritrovò al di sopra
della caverna.
Al
suo fianco, Syrra sorrideva. Per la prima volta la sua espressione era distesa
e serena, quasi spensierata. Koram ricambiò il suo sorriso.
«Non
ci resta che lasciarci cadere.»
Si
sedettero sulla superficie innevata della grotta, e si lasciarono scivolare
lungo il pendio; finché non giunsero con i piedi al suolo, sul fianco
della montagna opposto a quello in cui avevano iniziato la battaglia.
Koram
avrebbe creduto che da quella parte non ci fossero soldati.
Sbagliava.
Non
appena riuscirono ad alzarsi e a reggersi di nuovo sulle gambe, furono
circondati dalla torma. Anche lì c’erano schieramenti di truppe di
Galta e Nalera. Gli eserciti avevano oramai dominato quelle montagne, nessuna
nicchia era rimasta illesa. Furono circondati da nuovi guerrieri.
«Uomini!
C’è il ragazzo di Nalera!»
Koram
impiegò meno di un secondo per accorgersi di alcuni dei suoi compagni di
Galta che puntavano a Syrra. Mise mano alla spada e si preparò alla
traversata nelle file.
«Corri!»
Scattò
in avanti e sentì il compagno fare lo stesso. Intrapresero la folle
corsa verso la fine invisibile di quella dispersione totale. Poi, un gemito
sommesso. Koram si fermò.
Si
voltò in tempo per vederlo cadere. Gli occhi verdi erano fissi nei suoi,
l’espressione vagamente sorpresa si distese quando incontrò il suo
sguardo. Si accasciò lentamente, e Koram vide la spada di un soldato di
Galta sporgere dall’altra parte del suo addome, la lama che lo aveva
trapassato da parte a parte.
Gelo.
Smarrimento. Paura.
Voleva
urlare, ma non aveva voce. Voleva impedire, cancellare, cambiare tutto, ma non
poteva.
Incurante
dei soldati raccolti intorno a loro, si precipitò al suo fianco. Gli
strappò la spada dal ventre, aspettandosi di sentirlo gridare, ma Syrra
rimase in silenzio. Sorrise, di nuovo amaramente, debolmente, mentre lo
guardava in viso.
«Il
destino non si può cambiare, straniero…»
Koram
non aveva il fiato, né le parole, per replicare a quel congedo.
Syrra
sospirò e restò immobile. Solo in quel momento, rifuggendo dai
suoi occhi spenti, Koram si soffermò sul sangue che sgorgava dalla sua
ferita.
Era
verde.
Ma mia madre apparteneva a una razza
superiore, più pura e nobile…
“Un
elfo…”
La tenda che fungeva da
infermeria era opprimente per via dell’odore quasi metallico del sangue,
fresco e rappreso. Era destinata ai feriti delle truppe di Galta, ma non a lui.
Lui non apparteneva a nessuno, a nessun esercito, a nessuna guerra. Lui non
aveva più un’anima.
Quel
giorno aveva combattuto, ma non per Galta. Si era battuto per se stesso, per il
puro istinto di sopravvivenza, proprio delle bestie, più ancora che
degli uomini. E si era battuto per gli occhi verdi del ragazzo mezzo elfo che
in nome della loro amicizia aveva accettato di soccombere di fronte
all’inevitabilità della vita.
«Come
ti senti, Koram?»
La
ragazza che gli aveva curato la lieve ferita al fianco lo guardava, assorta e
preoccupata. Era poco più giovane di lui, non poteva avere più di
sedici anni; odiò ciò che vide nei suoi occhi azzurri, quella
luce dell’aspettativa di chi ancora non sa che non c’è modo,
non c’è strada, non c’è scelta…
«Non
sento niente.»
Era
vero.
Quel
giorno aveva capito.
Il
destino non si poteva cambiare.
Il
suo destino era annullarsi.
“Sono già passati
quarant’anni…”
Il bambino dai capelli biondi scruta suo
padre, steso nel letto, dilaniato dal dolore della ferita dell’ultima
battaglia. Ha comunque trovato la forza di raccontargli quella storia, la
storia di una vita nell’oblio, di speranze spezzate e di un’unica
amicizia brutalmente uccisa dal destino.
«E così non hai più
combattuto per l’esercito, papà?»
Lui geme ad una nuova fitta di dolore.
Poi sceglie con cura le parole che possano spiegare le sue ragioni.
«No. Ho deciso di combattere solo
per me stesso. Non ci sono amici, non ci sono nemici, quando c’è
guerra. C’è solo la morte, che ci accomuna tutti, perché
non c’è modo di sfuggirle. E in fondo alla guerra non potrai mai
trovare qualcosa di diverso dalla morte. Lui… Lui lo sapeva. Aveva deciso
di sperare di nuovo solo perché glielo avevo chiesto io. Lo fece per me.
Morì per non deludere i miei sogni di ingenuo. Da allora, figlio mio, ho
capito che non aveva senso sperare ancora. Ma da allora ho anche rifiutato di
sottostare a chicchessia. E sono diventato un esule.»
«Proprio come Syrra…»
«Proprio come Syrra.»
«Perché hai deciso di
raccontarmi tutto questo, papà?»
L’uomo geme di nuovo, si alza a
sedere, pone una mano sul capo di suo figlio.
«Perché tu sei in tempo.
Puoi ancora trovare il modo di cambiare il corso delle strade. Puoi riuscire
dove io ho fallito, puoi essere forte come io non sono stato, puoi trovare la
strada che non c’è. Ma per riuscirci, devi capire questo: non devi
mai permettere, a niente e nessuno, di strappare i tuoi sogni. Almeno
finché sei in grado di sognare. E quando la troverai, allora io
potrò essere finalmente in pace.»
Il bambino sorride.
«Ho capito, papà.»
«Ora vai pure, Syrra.»
Suo figlio esce dalla stanza, lasciando
dietro di sé solo uno sguardo di bambino, uno sguardo che sa
fantasticare. Koram si lascia di nuovo cadere sul letto.
Allora
tu sei come me, straniero…
Se chiude gli occhi, riesce ancora a
vedere il verde di quegli occhi e di quel sangue.
Se chiude gli occhi, ora può
raggiungere quello sconosciuto dalla natura di elfo, quell’unico amico
che la vita gli ha tolto, insieme a tutto il resto.
Se chiude gli occhi, può trovare
la strada che non c’è.