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Autore: PurpleStarDream    10/05/2014    3 recensioni
Tony non avrebbe voluto che il suo compagno partisse per l'ennesima missione oltreoceano e lasciasse solo lui e il loro bambino. Ma Tony sapeva quanto il senso del dovere di Steve fosse importante, per questo gli aveva comunque dato la sua approvazione. Avrebbe sopportato la solitudine e la paura di non vederlo più tornare finché non fosse riuscito a stringerlo di nuovo tra le braccia.
Aveva tirato un sospiro di sollievo dopo aver saputo che Steve era stato congedato con onore alla fine dei sei mesi previsti.
Non avrebbe mai potuto sospettare che quel congedo fosse solo il modo che l'esercito aveva scelto per liberarsi definitivamente di Steve, a detta di tutti, non più idoneo al servizio sul campo. Tony non aveva capito la gravità della situazione fino alla prima notte trascorsa di nuovo insieme a lui.
Genere: Dark, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E’ la nostra canzone

 

 

Capitolo 1

 

Ancora qualche minuto, e l’aereo sarebbe decollato, pronto a sparire tra le nuvole verso un altro continente.

Si sentiva un po’ in imbarazzo a stare lì, l’unico uomo in mezzo alle mogli dei soldati, ma si sforzava di dimostrarsi stoico, pur condividendo con loro il motivo per cui erano presenti: salutare i loro uomini prima che un lungo periodo di servizio li separasse definitivamente.

Tony abbracciò suo marito, stringendolo con tutta l’intenzione di non volerlo più lasciare andare, affondando il viso nell’incavo del suo collo e aspirando il profumo fresco della sua pelle e quello polveroso della sua divisa inamidata da capitano. Steve lo ricambiò, descrivendo grandi cerchi sulla sua schiena come se volesse conservare nella mente una mappa del corpo dell’altro, da ricordare durante i sei mesi in cui sarebbe stato via.

-Mi mancherai- bisbigliò Steve, separandosi da lui quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi; le iridi castane dietro gli occhiali da sole chiari erano umide.

-Tu di più- mormorò Tony, mordendosi le labbra per non dar voce a ciò che aveva dentro e non poteva dire.

Steve fece un sorriso paziente, e gli scostò la frangia dalla fronte con una mano, soffermandosi per accarezzargli i capelli.

-So che tu non eri d’accordo che accettassi questo incarico,- disse il biondo. –Ma è il mio dovere, lo so che capisci. E una volta finito non mi impegnerò più in missioni così lunghe, te lo giuro.-

L’altro si morse l’interno delle guance; tutte le paure che aveva provato a soffocare nei giorni precedenti si ripresentarono più reali che mai di fronte alla consapevolezza che Steve sarebbe comunque salito su quell’aereo, che a lui piacesse o no.

–Promettimi solo che non morirai- soffiò Tony a fior di labbra, in modo che solo Steve potesse sentire. Lui gli accarezzò una guancia, e Tony piegò la testa per assaporare la sensazione il più a lungo possibile.

-Te lo prometto- assicurò Steve, un attimo prima di piegarsi e baciarlo. Tony chiuse gli occhi: se ci provava davvero riusciva a dimenticarsi di tutto il resto, c’era solo il sapore della lingua di Steve, il calore e le carezze che scambiava con la sua.

Ad un certo punto si sentì tirare per la stoffa dei pantaloni.

-Papà!- gridò Peter, con la testa completamente sollevata per assicurarsi che i genitori lo notassero: sapeva imporsi come solo un bimbo di tre anni riusciva a fare, reclamando attenzioni con un faccino adorabile e un carattere insistente. Tutto suo padre, diceva sempre Steve.

Tony lo sollevò da terra e se lo mise in braccio. Il bambino nascose il viso nel suo petto, dopo avere lanciato a Steve uno sguardo a metà tra l’offeso e l’imbronciato. Il biondo gli arruffò i capelli. –Che c’è piccolo, sei arrabbiato con me?-

Quando Peter si voltò stava piangendo. –Non andare via!-

-Oh, Peter.- Steve lo prese dalle braccia di Tony, e il piccolo strinse i pugni sui risvolti della sua divisa in un disperato tentativo di trattenerlo. –Shhh… Va tutto bene. Devo solo andare via per un po’ per lavoro, ma tornerò presto, promesso.-

Peter tirò su col naso. –Davvero?-

-Davvero- garantì Steve, e Tony si sentì invidioso di come un bambino di tre anni potesse essere rassicurato tanto facilmente da promesse così ipocrite; lui sapeva che suo marito andava in guerra, il suo non era un lavoro come tutti gli altri.

-Apri la mano- disse Steve, e facendo del suo meglio con una mano sola si tolse dalla giacca una delle medaglie che aveva appese; Peter aprì il palmo a fatica, quasi sentisse che c’era puzza di imbroglio. Il biondo lasciò cadere sulla sua mano la medaglia, e gli chiuse il pugno attorno ad essa. –Adesso sei un capitano, devi prenderti cura di papà finché non torno, d’accordo? Posso fidarmi di te?-

Peter si asciugò le lacrime con un pugnetto, e fece sì con la testa.

-Mi mancherai, piccolo- disse Steve, prima di dargli un bacio leggero sulla fronte e lasciarlo tra le braccia di Tony.

Ormai quasi tutti i soldati erano saliti sull’aereo, e per quanto Steve amasse la sua famiglia sapeva che il suo dovere non si poteva più rimandare. Quando lo vide allontanarsi davvero, Peter tese le mani nella sua direzione e ricominciò a piangere. –Papà, non mi lasciare!-

Tony cerò di fare del suo meglio per calmarlo, ma la verità era che lui era disperato almeno quanto suo figlio: sei mesi in Iraq, in mezzo a bombe, cecchini, sparatorie… Quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che vedeva il suo compagno, e tutto ciò che poteva fare era guardarlo mentre se ne andava, dopo avergli promesso che non l’avrebbe fermato.

Steve era già lontano, in procinto di salire sull’aereo, quando Tony fece due passi avanti e gridò, con quanto fiato aveva in gola: -Non morire, mi hai sentito? Non morire!-

Non era sicuro che la sua voce fosse riuscita a superare il rombo dei motori, ma decise si pensare che lo sguardo dolce che Steve gli lanciò prima di sparire dietro il portellone dell’aereo fosse segno che avrebbe fatto l’impossibile per mantenere quella promessa.

 

_____________________________________      

 

 

La pista d’atterraggio non era cambiata, notò Tony, e lui si trovava ad aspettare esattamente nel preciso punto di allora.

A sei mesi di distanza, lo stesso aereo che se l’era portato via, adesso, finalmente, gli restituiva il suo compagno.

Era stata durissima non poter comunicare con Steve quasi per niente mentre questi era in Iraq; dopo il primo mese, a causa di problemi riguardanti le comunicazioni prima e missioni riservate poi, non si erano più potuti sentire. La preoccupazione lo teneva sveglio la notte, e aveva minacciato di farlo crollare in più di un’occasione. Finché non aveva saputo del definitivo congedo di suo marito.

Aveva ricevuto due giorni prima la telefonata di Sam Wilson, un commilitone di Steve: diceva che non solo il suo compagno aveva completato i sei mesi previsti sano a salvo, ma che l’esercito lo aveva congedato con onore dopo il servizio reso, con un encomio speciale alla carriera. Non si aspettava che Steve volesse smettere di fare il militare, ma quella notizia aveva lasciato Tony sinceramente sollevato: finalmente niente più missioni al limite del suicidio, ci sarebbero stati solo loro due e Peter. Non aveva idea di cosa Steve avrebbe fatto da ora in poi, ma la cosa importante era che fosse in salvo; magari avrebbero potuto lavorare insieme alle Stark Industries, pensò.

Dal portellone aperto del velivolo cominciarono a uscire, uno dietro l’altro, i soldati in uniforme kaki dell’esercito, alcuni bendati, altri mutilati, sembrava di assistere ad un’orribile parata di relitti umani. Tony deglutì sperando di sciogliere il nodo che aveva in gola. Si sentì quasi in colpa pensando che, per fortuna, suo marito era potuto tornare senza gravi danni; Sam aveva detto che gli avevano sparato, ma che non era nulla di grave, e che non doveva preoccuparsi.

Steve fu l’ultimo ad uscire.

Attraversò il piazzale nella sua uniforme da capitano, i capelli biondi che scintillavano al sole. Ma c’era qualcosa di strano.

Steve aveva sempre la schiena retta, un’andatura marziale, come ci si aspettava nell’esercito, lo sguardo dritto davanti a sé, occhi azzurri che si illuminavano vivaci come quelli di un bambino per ogni cosa che vedevano.

Adesso si dondolava sulle gambe come se si fosse trovato a camminare sul ponte traballante di una nave, e facesse di tutto per cercare di mantenere l’equilibrio. Era appena tornato a casa, ma non c’era alcun sorriso sul suo viso, e gli occhi sembravano spenti sopra due occhiaie profonde, come se stesse dormendo ad occhi aperti e non stesse sognando qualcosa di bello.

Quando si avvicinò, Peter gli corse incontro e gli circondò le gambe con le braccia, felice di poterlo rivedere. –Papà!-

Steve rimase immobile. Piegò la testa per studiare quel bambino come se non capisse esattamente cosa ci facesse lì, come se lo vedesse per la prima volta. Peter guardò in su, un po’ sorpreso. Di solito papà lo prendeva in braccio, lo faceva sedere sulle sue spalle, cosa che gli piaceva un mondo, perché così poteva essere il più alto di tutti; adesso invece non faceva niente.

Tentò ancora. –Papà? Mi prendi in braccio?-

Con un gesto meccanico, Steve aveva posato una mano sulla spalla di Peter, ma stava guardando Tony, gli occhi dilatati in una muta richiesta di aiuto. Sembrava in difficoltà, senza nessuna idea su cosa fare, come comportarsi… Restava immobile allarmato, come uno che sperava che un miracolo lo tirasse fuori da quella situazione.

-Tony…?- si lasciò sfuggire dalla bocca semiaperta.

Il miliardario raccolse Peter tra le braccia, sollevandolo fino a portarlo alla sua altezza. –Pete, papà è stanco, ha fatto un viaggio lunghissimo, lasciamolo respirare un po’, mmh? Ti porto io fino a casa.-

Il bambino continuava a guardare Steve con espressione interrogativa. Il biondo, sentendosi osservato, spostò il peso da un piede all’altro e si torse le mani, senza riuscire a staccare gli occhi di dosso dal figlio. Poi, forse seguendo la traccia di un vecchio ricordo, stirò le labbra in un accenno di sorriso vacillante.

Allungò una mano e arruffò i capelli del bambino. Tony osservò la scena: se non l’avesse conosciuto bene, avrebbe giurato che Steve stesse compiendo quel gesto per mascherare un tremore alle mani che non riusciva a controllare.

-Ciao, piccolo- disse Steve, gli occhi spiritati che facevano del loro meglio per apparire sereni. Il sorriso che fece Peter sembrò essere la rassicurazione che, almeno per lui, tutto era tornato alla normalità. Tony invece continuava a pensare che ci fosse qualcosa che non andava, ma Steve era appena stato rimpatriato, reduce da sei mesi di missioni militari nel deserto e da un volo transoceanico. Quello non era né il momento né il luogo adatto per discutere.

Si avvicinò al biondino e, premendo Peter tra di loro, gli accarezzò la nuca con la mano libera, e gli lasciò un bacio leggero sulla bocca. Fu sorpreso quando, al tentativo della sua lingua di incontrare quella di suo marito, le labbra dell’altro sembrarono aprirsi a fatica, quasi riluttanti, come se non riuscisse fisicamente a ricambiare.

Dietro le lenti degli occhiali da sole, gli occhi scuri di Tony si adombrarono di preoccupazione. –Steve, cosa…?-

Prima che potesse fare la sua domanda sentì il corpicino del bambino tra loro che si agitava. –Papà, mi state schiacciando- si lamentò lui, ridacchiando e contorcendosi come una piccola piovra tra le sue braccia.

Quando si separarono, il viso di Tony aveva assunto un’espressione accondiscendente. Forse stava esagerando. Steve era certamente esausto, magari il viaggio lo aveva provato, e non si sentiva in vena di grandi dimostrazioni di affetto; anche le emozioni, dopotutto, consumano energie.

Eppure più guardava Steve e più si convinceva che quello non fosse il caso; suo marito sarebbe corso incontro a Peter, avrebbe baciato con passione lui, sarebbe stato estatico di rivedere la sua terra d’origine, quella per cui aveva deciso di arruolarsi. Man mano che si avvicinavano alla macchina che li avrebbe riportati a casa continuò ad osservare il capitano, che li seguiva un passo indietro, chiuso in sé stesso e taciturno, e Tony decise che quella sera avrebbero parlato.

 

__________________________________  

 

-Scusami per questo pomeriggio- annunciò Steve, il tono avvilito e la testa bassa, mentre, seduto sul letto, si levava l’uniforme, rimanendo in maglietta e boxer per la notte.

All’inizio Tony si sorprese, poi capì che anche lo stesso Steve doveva essersi reso conto del suo comportamento insolito. Con indosso ancora i pantaloni del suo completo e la camicia slacciata, Tony fece il giro della stanza, e gli si inginocchiò davanti, stringendogli gli avambracci con le mani. Steve ancora non alzava lo sguardo. –Non so cosa mi sia preso. Vi ho visti lì, esattamente come vi avevo lasciato. Avrei voluto corrervi incontro ma… mi sembrava troppo bello per essere vero. Pensavo quasi che fosse tutto un sogno, non riuscivo a credere di avervi di nuovo con me. Ero… ero confuso.-

Vedendo che, anziché incontrare il suo sguardo Steve aveva incassato ancora di più la testa nelle spalle, Tony alzò una mano e gli strinse il mento leggermente, per convincerlo a guardarlo negli occhi.

-Ehi, sei stato via la bellezza di sei mesi, è comprensibile che tu faccia fatica a riabituarti. Per questo ci sono io, c’è Peter… Ti assicuro che non se l’è presa per oggi, lui è un bambino sveglio, e sa che gli vuoi bene.-

Steve accennò un sorriso, e Tony invece di sentirsi rassicurato provò uno strano vuoto allo stomaco: era lo stesso sorriso intermittente di quel pomeriggio, quello che sembrava andare e venire come la luce di una lampadina prossima al cortocircuito.

-Adesso come ti senti?- domandò Tony, accarezzandogli una guancia e lasciando che la sua mano restasse lì, a trasmettergli calore. Steve piegò la testa per avere più contatto, e chiuse gli occhi. –Sto bene.-

-Sai che puoi dirmi tutto, vero? Qualunque cosa- lo rassicurò Tony. Cominciava a sospettare che, forse, in Iraq poteva essere accaduto qualcosa che lo aveva sconvolto, ma non voleva obbligarlo a parlarne. Se Steve avesse avuto desiderio di confidarsi con lui lo avrebbe fatto quando si sarebbe sentito pronto; Tony pensava che imporgli di raccontare le sue esperienze di guerra lo avrebbe solo messo di cattivo umore per niente.

-Lo so- disse Steve, girandosi del tutto per baciare la mano che lo stava accarezzando.

Tony si piegò in avanti per catturare le sue labbra, e si sentì sollevato quando ricevette da Steve un bacio vero, dove le loro lingue si cercavano e le sue labbra rosee lambivano la sua bocca con un trasporto morbido e bruciante. Il moro si ricordò di quanto gli fosse mancato tutto questo. Cominciò a sentire caldo; di colpo, nonostante fosse ancora a petto nudo, la stanza non sembrava più così fredda, in compenso i suoi pantaloni cominciavano a farsi stretti e fastidiosi.

Tony prese ad accarezzare le gambe a Steve, percorrendo con le mani l’interno coscia, scivolando sotto la stoffa dei boxer, per poi spostarsi in alto verso il suo addome, a solleticare la pelle a contatto con l’elastico.

Quando però le sue dita si infilarono sotto il bordo della biancheria, Steve gli afferrò il polso impedendogli di continuare, e si staccò da lui, ansimando.

Tony, boccheggiando frustrato, spostò gli occhi lucidi sul biondo. Steve aveva il volto in fiamme, gli occhi azzurri umidi e mortificati che sembravano volersi nascondere dietro la frangia bionda, cresciuta in quei mesi senza che nessuno si fosse preso la briga di regolarla. –Che cosa c’...?- Fu allora che Tony guardò meglio, e vide che Steve, nonostante avesse risposto al suo bacio con vera passione e lo stesse toccando pieno di desiderio, non era neanche lontanamente eccitato quanto lui: i suoi boxer erano perfettamente a posto, nessun segno del fatto che avesse un’erezione.

Il miliardario tornò a guardarlo, il suo rossore accentuava irrimediabilmente la sua aria sconcertata.

-Scusami…- soffiò Steve, pianissimo, come se pronunciare quelle parole lo avesse lasciato senz’aria. –Io… non me la sento adesso. Non è colpa tua, sono io che non…-

Di colpo smise di balbettare scuse, e abbracciò forte Tony, tirandolo a sé e facendogli quasi perdere l’equilibrio.

Adesso Tony era davvero preoccupato. Le reazioni di Steve stavano precipitando da quando era tornato, e lui era sempre più convinto che sotto ci fosse qualcosa di cui non era a conoscenza. Sapeva che suo marito era un uomo forte, che difficilmente dimostrava di avere bisogno di aiuto e che tendeva più che altro a consolare gli altri. Con quell’abbraccio però, sembrava lui quello bisognoso di conforto: stringeva Tony con tutte le sue forze, quasi volesse aggrapparsi ad un punto fermo in un mondo che stava crollando, come se appoggiarsi a lui fosse l’unico modo sicuro per non cadere.

-Mi dispiace,- ripeté Steve, con una voce tale che Tony considerò un miracolo il fatto che non stesse piangendo.

-Ehi, Steve. Non è niente, davvero.- Gli accarezzò i capelli sperando che il gesto bastasse a tranquillizzarlo, e augurandosi anche, nel contempo, che l’eccitazione di poco prima svanisse il più presto possibile; il momento era già abbastanza strano senza il suo contributo.

Steve sospirò, e Tony sentì i suoi polmoni svuotarsi contro di lui. Al momento di separarsi nessuno dei due sapeva bene come reagire.

-Sono solo stanco- disse Steve. –Ti dispiace se… dormiamo e basta?-

Tony avrebbe voluto più di ogni altra cosa una doccia fredda, ma sentiva che il suo dovere innanzitutto era stare accanto a Steve, perché evidentemente c’era qualcosa che lo turbava abbastanza da fargli passare la voglia di fare l’amore per la prima volta dopo sei mesi. Alzandosi e camminando male per nascondere le ultime tracce di erezione, mordendosi la lingua nella speranza che il dolore spazzasse via il desiderio, si spostò sul suo lato del letto matrimoniale e vi si sdraiò sopra, girandosi su un fianco per guardarlo in faccia.

Steve imitò la sua posizione, e gli si avvicinò, prendendogli un braccio e posandoselo intorno alla vita. Tony, nonostante il suo corpo volesse molto di più, si costrinse a ricambiare quel contatto puramente platonico. Era raro che Steve si mostrasse così vulnerabile; di solito era lui quello che rassicurava Tony, non viceversa. Diede al miliardario un’idea di quanto la situazione potesse essere seria.

-Ti amo- bisbigliò Steve, con la fronte appoggiata sulla sua, prima di chiudere gli occhi. Tony lo strinse per fargli sapere che c’era. –Anch’io ti amo.- Lo considerava lo scambio di battute più sdolcinato che fosse mai stato inventato, ma quella sera sentì che c’era bisogno di dirlo. Che Steve ne aveva bisogno.

-E’ bello essere a casa- mugugnò il biondino, con la voce impastata che andava piano piano affievolendosi.

 

 

Fu svegliato dal telefono.

Il suo cellulare squillava e squillava furiosamente, nel tentativo di attirare la sua attenzione fracassandogli i timpani.

Quando Tony aprì gli occhi si accorse che era buio pesto, la sveglia segnava le 3.45 del mattino e accanto ad essa il telefono vibrava e trillava insieme, agitandosi sul comodino come un grosso scarafaggio luminoso rovesciato sulla schiena.

Allungò una mano per rispondere, strizzando gli occhi per combattere il sonno, ignorando il numero sfocato che appariva sul display, e maledicendo chiunque avesse deciso di chiamarlo così presto.

-Chiunque tu sia spero che abbia un validissimo motivo per rompere le palle a quest’ora- bofonchiò.

Dalla cornetta rispose un crepitio elettronico che aveva tutta l’aria di un bisbiglio. -Tony?-

Sulle prime non associò immediatamente la voce a un nome, forse perché era convinto che quello che stava accadendo non fosse assolutamente possibile.

-Tony, mi senti?- domandò la voce con più urgenza, un sibilo disperato che su Tony ebbe l’effetto di una secchiata d’acqua gelata. D’un tratto fu più sveglio che mai. Si voltò per controllare l’altro lato del letto: le lenzuola erano sfatte e tirate, e Steve era sparito.

-Steve?!- Il miliardario per poco non gridò. –Dove sei? Da dove stai chiamando?-

-Tony, non è sicuro qui, dobbiamo spostarci, ho il sospetto che siamo osservati.-

Al moretto saltò il cuore in gola. Il suo compagno era sparito, e quello che stava dicendo non aveva nessun senso. –Come sarebbe a dire “Dobbiamo”? Chi c’è con te? E dove ti trovi adesso?-

All’improvviso, una vocina assonnata mugolò nel ricevitore: -Papà?-

Il cuore di Tony perse un battito.

Scattò in piedi e corse nella camera di Peter. Un’occhiata dentro bastò a raggelarlo: il lettino era vuoto, e uno dei cassetti con i suoi vestiti sembrava essere stato messo a soqquadro dopo l’estenuante ricerca di qualche abito.

-Steve!- stavolta Tony non riuscì a trattenersi, la sua voce strideva di panico. –Peter è con te? Dimmi dove siete!-

-Tony- bisbigliò ancora Steve. –Ti ho chiamato per avvertirti che farò un po’ tardi. Avrei voluto venirti a prendere subito dopo aver messo al sicuro Peter, ma adesso devo trovare un altro posto.-

-Messo al sicuro da cosa?!- adesso Tony stava urlando.

-Arriverò presto a prenderti, stai tranquillo- lo rassicurò Steve.

Tony era tutto meno che tranquillo, trovava difficile esserlo quando suo marito e suo figlio erano spariti chissà dove nel cuore della notte e Steve gli parlava come se fosse un fuggitivo con mostri terrificanti alle costole. Il miliardario fu colto da un presentimento inquietante: Steve aveva detto che si sarebbe spostato, se lo avesse lasciato fare non avrebbe avuto nessuna possibilità di rintracciarlo. Provò a ragionarci.

-Steve, ti prego, dimmi dove sei- supplicò Tony, misurando il tono della sua voce e passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

Il telefono restò muto, come se il biondo ci stesse pensando.

-Non mi sento sicuro qui, Tony. Credo che ci stiano controllando, lo fanno da quando siamo entrati.-

Resistette alla tentazione di chiedere a chi Steve si stesse riferendo. Non era lucido, questo era chiaro, ma continuare a contraddirlo non avrebbe portato a niente. Provò invece ad assecondarlo.

-Dammi l’indirizzo, così vengo lì e vi porto via io. Ce ne andremo insieme in un posto sicuro.-

Ancora silenzio; il momento di riflessione si fece più lungo.

-Tony, non so se…-

Si sentiva un idiota a parlare così, ma non aveva scelta. -Ti supplico, Steve, cerca di ragionare. Abbiamo più possibilità di cavarcela se stiamo insieme.-

Il fruscio della linea muta amplificò i battiti violenti del suo cuore. Si aspettava che, da un momento all’altro, Steve potesse chiudere la comunicazione e sparire nel nulla.

Poi tirò un sospiro di sollievo: il suo compagno si era lasciato convincere.

-Siamo alla tavola calda tra la quinta e la sesta strada, quella aperta tutta la notte, dove le cameriere hanno quella divisa rossa bordata di bianco- sussurrò piano la voce di Steve, e poi aggiunse: -Tony fa presto, non so quanto ancora potremmo restare qui prima di essere segnalati.-

Non si fece domande questa volta. -Sto arrivando. Voi restate lì e non vi muovete, mi raccomando.-

Tony gettò il telefono da una parte e si vestì in fretta e furia, per una volta senza badare affatto al possibile abbinamento dei suoi abiti, limitandosi a indossare una camicia e un paio di pantaloni qualsiasi. Si scordò persino di prendere la giacca o di lavarsi la faccia per darsi una svegliata, strofinandosi gli occhi tanto forte da farli lacrimare per scacciare ogni traccia di sonno residuo.

Scese nel garage e in macchina si lanciò a tutta velocità sulle strade di una New York buia e gelida.

 

 

Alla tavola calda, Steve notò che le due cameriere del turno di notte si erano nuovamente avvicinate, e parlottavano con il cuoco al di là del bancone: li controllavano, al biondo non sfuggivano gli sguardi che lanciavano a lui e a suo figlio. Si calcò il cappuccio della felpa sul viso. Tutti e tre sembravano sul chi vive, adocchiando prima lui e poi la porta; poco prima li aveva visti fare una telefonata. Adesso era certo che avessero chiamato qualcuno e che quel qualcuno sarebbe venuto per lui.

Si portò una mano sulla bocca e morse nervosamente le sue dita, mentre con l’altra mano strinse Peter a sé. Il bambino, seduto sulle sue gambe, sonnecchiava esausto, ma si svegliò quando il padre gli cinse la vita più forte.

-Papà, ho sonno- si lamentò debolmente il piccolo, poggiando la testa sul suo petto. Steve si chiese come riuscisse a dormire con il martellare incessante del suo cuore nelle orecchie.

-Lo so, Peter, ma dobbiamo aspettare ancora un po’. Presto anche papà sarà qui, e potremmo andare via.-

-Andare dove?-

Steve non gli rispose. Si sentiva il collo e la schiena rigidi, il cuore in gola e la testa troppo leggera; avrebbe dovuto rilassarsi per non dare nell’occhio, ma quelle persone dietro il bancone stavano tramando qualcosa, ne era sicuro, non la smettevano di squadrarlo da lontano e confabulavano tra loro per non farsi sentire. A chi avevano detto che era lì? In quanti sarebbero venuti per portarlo via? E Peter, che avrebbero fatto a Peter?

Il suo respiro cominciò ad accelerare, preparando il corpo alla reazione lotta o fuga. Le sue gambe tamburellavano senza sosta sotto il tavolo, ad un ritmo sempre più rapido. Si chiese quanto ancora Tony ci avrebbe impiegato prima che il pericolo si manifestasse e lo costringesse ad abbandonare quel posto.

Non c’era nessuno attorno a lui, salvo quei tre tizi che lo fissavano senza sosta. Parlando di lui, del modo per trattenerlo finché qualcuno non fosse arrivato per prenderlo. Doveva fare qualcosa. Andare via o eliminarli, sì, ecco cosa doveva fare: eliminare le minacce. Ma forse era già tardi. Forse era meglio scappare.

Scappare.

Scappare.

Scap…

-Steve?-

Il soldato voltò la testa, e vide il suo compagno corrergli incontro, seguito dal tintinnio della porta d’ingresso della tavola calda. Tirò un sospiro di sollievo, e la voglia di abbracciarlo fu contenuta solo dal fatto di avere ancora in braccio Peter.

-Tony, finalmente!- mormorò.

Il miliardario gli posò le mani sulle spalle, e poi accarezzò la testa del bambino, che mugolò un po’, ma non si svegliò.

-State bene? Cosa è successo?-

Invece di rispondere, Steve indicò con un cenno le cameriere e il cuoco. –Hanno chiamato qualcuno, Tony, e adesso verranno qui. Non possiamo restare, siamo troppo esposti. Dobbiamo andarcene subito e…-

-Ma chi verrà qui? E cosa ti ha messo tanta paura da scappare di casa?- domandò Tony, nella voce un velo di esasperazione.

Gli occhi spiritati di Steve sembrarono essersi persi. Smise di parlare, e si guardò intorno smarrito: fu come se di colpo si fosse svegliato da un brutto sogno ad occhi aperti.

-Io… Io non lo so- balbettò, stingendo il suo bambino come un ragazzino spaventato avrebbe stretto il suo orsacchiotto. Scosse la testa, con la bocca socchiusa e gli occhi velati, sembrava davvero mortificato. –Eravamo… a casa?-

-Sì, Steve, siamo a New York, a casa nostra. Io, te e Peter- insistette il moro.

-Ma quelli…- fece Steve, riferendosi al personale raggruppato in un angolo.

-Probabilmente,- iniziò Tony, accarezzandogli un braccio, -Questa gente ha chiamato la polizia. Hanno visto un uomo solo, agitato, con un bambino piccolo nel cuore della notte. Avranno pensato male.-

Come se si fosse reso conto solo ora di quello che poteva sembrare ad un occhio esterno, Steve sollevò la testa e si voltò verso i dipendenti del locale, che evitarono il suo sguardo intimoriti.

-Tony, io non so davvero cosa…-

Il moro si fece coraggio con un sorriso nervoso. Non doveva crollare di fronte a quel comportamento folle, non ora. Gli prese il viso tra le mani e gli diede un bacio sulla guancia: era gelida per il freddo e ruvida di barba non fatta.

-Andiamo a casa, adesso, ok? Mi racconterai tutto là.-

Lo aiutò ad alzarsi e insieme si diressero verso l’uscita. Una delle cameriere, probabilmente la più coraggiosa delle due, azzardò un timido: -Signore?-

Tony le si avvicinò, e dal portafogli tirò fuori una foto di lui, Steve e Peter insieme.

-Non c’è nulla di cui preoccuparsi, signorina. Questi sono mio marito e mio figlio, erano semplicemente usciti a prendere una boccata d’aria.-

La donna non parve convinta della spiegazione, ma la fotografia la rassicurò visibilmente. Se non altro era la prova che il biondo non era un rapitore di bambini.

Uscirono, lasciando i dipendenti del locali a fare un’altra telefonata, forse per avvertire la polizia che la loro presenza non era più richiesta. Per fortuna, Tony pensò, nessuno parve averlo riconosciuto: le eccentricità per un miliardario potevano anche essere tollerate, ma non voleva che venisse coinvolta la sua famiglia.

 

 

Appena arrivati a casa misero subito a letto Peter, e Tony guidò Steve nella loro camera: ce n’era voluta per convincere il soldato a staccarsi dal suo bambino, nella sua mente era stato come se il suo comportamento lo avesse messo davvero in pericolo.

Quella notte, per la seconda volta, Steve si ritrovò a spogliarsi accasciato su quel letto con la stessa aria disperata. Tony, seduto accanto a lui, gli stringeva una gamba con la mano, per fargli capire che c’era; descriveva piccoli, lenti cerchi, e ogni tanto lo stringeva.

-Non so cosa mi sia preso- soffiò Steve, senza guardarlo. –So solo che stavo sognando, non mi ricordo cosa, ma era brutto. Quando mi sono svegliato ho pensato… Cioè, non ho proprio pensato, ho sentito che dovevamo andare via, perché qui non eravamo al sicuro.-

Con una voce calda che mascherava tutta la sua preoccupazione, Tony gli chiese: -Perché non mi hai svegliato?-

Il soldato si lasciò sfuggire un ansito sconfitto. –Ti sembrerà assurdo, ma io… Io non mi sono reso conto che tu fossi accanto a me. E’ successo tutto così in fretta.-

La mano di Tony raggiunse il suo viso, gli tirò indietro la frangia bionda, e scoprì due occhiaie livide da far spavento. Steve si morse il labbro: doveva essere ben consapevole del suo aspetto attuale e dell’impressione che dava.

-Sai, in Iraq… In Iraq mi sentivo spesso così, era utile anzi, restare sempre in allerta. E’ come se fossi ancora là, certe volte. Ci sono… sensazioni, emozioni, che non riesco a dimenticare.-

L’uomo si voltò, e guardò Tony con la fronte corrugata e gli occhi smarriti, lontani migliaia di chilometri da casa. –Non è stata una bella esperienza, Tony- mormorò, usando parole leggere per descrivere qualcosa di molto peggiore.

-Hai bisogno di dormire adesso- fece il miliardario, posandogli le mani sulle spalle e guidandolo a sdraiarsi. Si distese con lui, e cominciò ad accarezzargli un braccio sperando che il contatto lo rilassasse.

-Domani chiariremo tutto, sistemeremo questa cosa. Ricordati che ora non sei più solo, ci sono io con te.-

-Lo so, grazie- bisbigliò il biondino, poco prima di lasciare che la stanchezza prendesse il sopravvento su di lui.

Appena fu certo che il suo compagno si fosse addormentato, Tony si alzò, stando attento a non svegliarlo, agguantò il telefono e si diresse in cucina, il punto più lontano dalla camera da letto, dove non avrebbe disturbato né Steve né Peter.

Compose un numero.

Per ottenere una risposta attese nove squilli.

-Pronto?- domandò una voce insonnolita.

-Che cazzo è successo a mio marito?- ringhiò Tony nell’apparecchio.

Un tono sorpreso e vagamente più sveglio: -Ma chi parla?-

-Sono Stark, e voglio sapere cosa diavolo è successo a mio marito, perché stanotte ha preso nostro figlio e si è messo a vagare per New York pensando di essere inseguito e che fossimo tutti in pericolo di vita.-

Dall’altro capo della linea, Sam Wilson sembrò aver ricevuto la spinta che gli serviva per svegliarsi.

-Tony, calmati. Ci sono cose che tu non sai.-

-Non vedo l’ora di saperle, perché Steve non sembra più lui, ed è tornato da appena un giorno.-

-Tony…- la voce di Sam si era fatta cauta: preferì arrivare subito al sodo. –Steve ti ha spiegato perché l’hanno congedato?-

Il moro ci pensò su per due secondi. Gli avevano parlato del congedo, ma non del motivo specifico, e lui a Steve non aveva chiesto niente. Era stato talmente felice della notizia e di riavere il suo uomo a casa che non aveva fatto caso ai dettagli, e il suo compagno non gliene aveva ancora parlato.

-No.-

-Il motivo ufficiale,- riprese Sam, -E’ che ha dato il meglio di sé in quest’ultima missione, ed è sempre stato un soldato irreprensibile, ecco perché è stato congedato con onore. La verità è che… ecco… Durante l’ultimo mese di servizio Steve era diventato ingestibile.-

Tony strinse le dita attorno al telefono, e istintivamente digrignò i denti. –Cosa vuol dire “ingestibile”?-

Sam si mise sulla difensiva. –Tony, devi capire che Steve si era offerto volontario per certe missioni. Sapevamo tutti che si trattava di operazioni rischiose, che avrebbero richiesto anche decisioni impopolari. Qualcuno doveva fare quelle cose, e Steve… Non voleva che i suoi uomini si prendessero simili responsabilità.-

Se Sam avesse potuto vedere il suo sguardo, ne sarebbe stato trapassato.

-Che cazzo gli avete fatto fare? Dimmelo, o giuro che…-

-Non sono autorizzato a farlo, Tony- ribatté Sam. –Ma ti giuro che abbiamo fatto tutto quello che potevamo per sostenerlo. Persino quando abbiamo perso le sue tracce per quattro giorni, noi…-

-Come sarebbe a dire?!- Tony si scordò quasi che Steve e Peter stavano dormendo ancora, non riuscì a non urlare.

Il militare si rese conto di essersi lasciato sfuggire qualcosa che non avrebbe dovuto, e tentò di rimediare. –C’è stato un incidente, una volta, che lo ha diviso dal gruppo; lo stavamo cercando. Lui e la sua squadra. Alla fine li abbiamo trovati, anche se erano rimasti in pochi. Non ci era concesso di avvertire le famiglie, capisci?-

Il miliardario fece uno sforzo immenso per non esplodere in un altro scatto d’ira. Gli avevano impedito di parlare con suo marito per sei mesi, lo avevano praticamente costretto a guidare missioni pericolose facendo Dio solo sapeva cosa, lo avevano ferito, e in più Steve per quattro giorni era stato dato per disperso e lui non ne aveva saputo niente.

-E poi cos’è successo? Perché dici che è diventato ingestibile?- insistette Tony, stringendosi il setto nasale con una mano.

-Negli ultimi tempi aveva cominciato ad essere troppo prudente. Voleva avere tutto sotto controllo, scattava per ogni minima infrazione, finché la cosa non è degenerata in vera paranoia. Vedeva minacce dappertutto, un movimento brusco lo faceva esplodere. E’ capitato che si comportasse così verso alcuni nostri uomini, e che poi dichiarasse di non ricordare il perché avesse reagito in quel modo.-

Tony non riusciva a parlare, solo ad ascoltare in silenzio.

-Ogni tanto questi episodi diventavano talmente brutti che perdeva del tutto il contatto con la realtà. Ha aggredito un suo superiore perché credeva che le sue azioni avessero portato alla morte di uno squadrone che avevamo perso di recente, era più il tempo che passava in cella di rigore che fuori. Non era più idoneo al servizio sul campo. Un medico militare lo ha visitato e ha dichiarato che soffre di un disturbo da stress post traumatico. Gli ha prescritto dei farmaci da prendere e una cura da seguire. Per questo motivo le alte sfere hanno chiuso un occhio sul suo comportamento indisciplinato degli ultimi tempi: congedarlo con onore era l’unico modo per salvare la faccia a tutti.-

Tony era sconvolto. Non aveva idea di tutto ciò: cella di rigore, medicine, paranoia.

-Lo avete usato finché avete potuto- sibilò Tony nel ricevitore. –E poi ve ne siete liberati quando non poteva più servirvi.-

-Tony, non è così. Ti prego, ascolta: l’esercito vorrebbe aiutarlo, ma lui si rifiuta di seguire la cura, pensa che vada tutto bene, ma sappiamo tutti che non è così. Se solo Steve…-

-Non va tutto bene,- ringhiò Tony. –Perché voi lo avete sfruttato, fregandovene di quello che poteva capitargli. E adesso lui è a pezzi, non è più come prima, ed è tutta colpa vostra.-

-Tony, aspet…-

Ma lui aveva già chiuso la comunicazione e gettato il telefono in un angolo. Si abbatté contro una parete scavandoci dentro una crepa: poco male, tanto erano mesi che stava pensando di cambiare l’intonaco.

Tornò in camera, e si sdraiò accanto a Steve, che dormiva con un’espressione tormentata. Gli sfiorò una guancia con il dorso della mano, il cuore pieno di tristezza e pesante di tutti i segreti che suo marito gli aveva tenuto nascosti e che ora sapeva.

Non avrebbe mai dovuto lasciarlo partire. Avrebbe dovuto comportarsi come l’enorme egoista che era e costringerlo a restare. Invece gli aveva dato la sua benedizione mentre Steve andava in mezzo a quel branco di sciacalli che hanno pasteggiato con la sua buona volontà finché non hanno avuto a disposizione altro che le ossa. Ed ora Steve stava male, lo avevano rispedito a casa come merce avariata che aveva cominciato a fargli schifo.

Tony sentì gli occhi riempirsi di lacrime di rabbia e di impotenza mentre lo guardava dormire stremato dopo la battaglia coi suoi incubi.

-Ti aiuterò io- sussurrò alla sua figura dormiente. –Non sono come loro, io non ti lascio solo, tranquillo. Devo solo sapere con cosa ho a che fare, e trovare il modo migliore per farti tornare come prima.-

Circondò la vita di Steve con un movimento leggero del braccio, per non svegliarlo.

-Adesso siamo di nuovo insieme, non abbiamo bisogno di nient’altro. Ci penserò io a te.-

 

 

N.d.A.

 

La storia sarà divisa in due capitoli, per comodità di lettura; è venuta più lunga di quanto pensassi.

Per una volta nella mia vita rendo Steve quello incasinato, mentre Tony è una persona sana e normale (per quanto possa essere normale un genio miliardario).

Peter è stata un’aggiunta dell’ultimo minuto. Nella versione originale non c’era, ma trovo che ci stia bene, che ne dite? Non fa molto, in realtà (sarà presente solo in questo capitolo e all’inizio del secondo), ma mi piace l’idea che anche lui, nel suo piccolo, contribuisca a questa fic, sebbene di solito scriva più volentieri di ragazzi non ancora alle prese con una famiglia loro.

Diciamo che l’ho inserito per rendere Tony ancora più responsabile (difficile da credere, vero? Ma anche lui se si impegna ce la può fare^^). Con un marito pieno di problemi e un bambino piccolo a cui badare, Tony diventa quello affidabile, per questa volta.

  
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