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Autore: WestboundSign_    10/05/2014    3 recensioni
"Il problema è che pensano tutti di essere speciali. Perché sanno più cose di te, perché ascoltano più musica, e soffrono di più, e ce le hanno peggiori (...) ed è tutto così colorato che dentro sono diventato grigio."
Perché ti senti impazzire ma è solo la tua crisi adolescenziale.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le sere, dopo i temporali, sono le più belle. Nuvole grige coprivano il cielo, che all'orizzonte sfumava dai colori caldi dell'arancione verso un rosa acceso, rimasuglio di quel sole che si era negato alla città nelle ore precedenti. Non sembrava tuttavia essere finita la tempesta, nonostante gli uccelli stessero cantando e gli ultimi insetti volando alla ricerca di un riparo per la notte, la calma era continuamente rotta dal rombare dei tuoni, costante e minaccioso. Come si dice, “rosso di sera, bel tempo si spera”, si poteva sperare che il giorno dopo fosse finalmente degno di essere chiamato Maggio.
Jack era seduto su un divano nel portico di casa sua, abbastanza in periferia da affacciarsi su un campo incolto, il tramonto esattamente di fronte a lui. Poteva ancora quasi sentire i raggi del sole sfiorargli il viso. Era solo, i suoi genitori erano partiti un paio di giorni prima con i suoi fratelli e lui, avendo quasi diciotto anni e essendo estremamente vicino agli esami di fine quadrimestre, aveva avuto il permesso di rimanere a casa. Nonostante gli avessero raccomandato di non provarci neanche, era sicuro del fatto che sabato, o venerdì, avrebbe dato una festa, dopo tutto era stato il compleanno di Jordan il giorno prima, aveva l'obbligo di festeggiarlo.
Si appoggiò allo schienale, affondò nei cuscini morbidi fino a quando la sua testa non toccò il legno del divano e poi alzò il drum che aveva rollato prima di uscire, accendendolo con attenzione. Non fumava spesso, un po' per il fatto che non aveva soldi, spendendoli tutti in alcolici, erba, biglietti del treno o corde della chitarra, un po' per il fatto che Alex non sopportava l'odore del fumo, e aveva minacciato più volte di non parlargli mai più se avesse fumato ancora in sua presenza. Vivendo con lui praticamente ventiquattro ore su ventiquattro, gli era decisamente impossibile farlo.
Era strano per lui sentire i rumori della vita attorno a lui. Era consapevole del fatto che esistesse altro al di fuori, e un po' gli mancava, ma non poteva soffermarsi. C'era sempre qualcosa a distrarlo o impedirglielo, il novantanove per cento delle volte una canzone allo stereo. In qualche modo, quella sera, non se la sentiva. Forse perché quelle canzoni erano state suonate e risuonate, anni di stesse note e melodie, testi che aveva impresso nel profondo delle sue ossa. Forse perché nessuna di quelle avrebbe potuto aiutarlo, in quel momento e in quel luogo. Dicono che le persone riempiano le loro giornate di arte e musica perché sono vive, che canalizzino la loro energia in quegli spartiti, quelle tele con pennellate a caso, schizzi di vernice ovunque che non sono confusione ma i sentimenti, quelli che scoppiano dentro di te e senti i polmoni grandi, che respiri la vita degli altri e ne sei pieno, completo, lo spartito è troppo piccolo per quello che vorresti ed esci, rompi i tuoi legami e ti fondi con le altre cellule, gusci che si aprono e liquidi che si sciolgono, sei le foglie sugli alberi e la linfa al loro interno, la stella più brillante, gli insetti che corrono veloci ai tuoi piedi e gli uccelli in cielo, quelli che vanno più in alto, quelli trasportati dal vento, quelli che vedono tutto e sono parte del mondo. Ma dicono anche che le persone riempiano le loro giornate di arte e musica perché non sono nulla. Perché, improvvisamente, o forse è stato un processo lungo, o forse hanno passato tutta la vita così, forse se ne sono accorti solo ora, forse, forse, forse, il tutto è niente, forse quel fuoco che ti brucia dentro non è davvero una fiamma, i rimasugli di qualcosa che hai perso, fumo passivo e droga a basso prezzo, l'aria non ti passa attraverso ma ti colpisce e non puoi fare altro che resistere, come un muro una pietra, vai a avanti e cammini, e non hai parole, non hai mai parole, e l'arte è lì, la musica riempie la tua cassa toracica per quei tre minuti sparsi che ti stai negando, li stai perdendo, li senti scivolare fra le tue dita e sei già vecchio, a sedici diciassette diciotto anni sei decrepito, sei lì lì per morire, puoi vedere la tua bara e sentire la musica suonare in chiesa, la tua pelle è nido delle incertezze del mondo e lasci che il male entri, i pori sono porte per la paura, non vuoi essere solo, non vuoi essere solo di nuovo. E lanci il pennello sulla tela, lanci il nero e il blu, quelle macchie rosse che vorresti fossero sangue, e non sei mai stato il re di niente e di nessuno, e sei sempre stato quell'altro ragazzo, e nessuno ti ha mai notato e non farai mai nulla nella tua vita perché non hai neanche voglia, perché perché dovresti farlo? Qual è lo scopo? Non esiste. Non esiste e tu non sei niente e non mentire, perché ti sei sentito anche tu così. Perché sei un miserabile rifiuto che passa il tempo a piangersi addosso, perché non hai le palle di fare qualcosa, perché aspetti solo una tragedia per sentirti peggio, perché ti piace vedere il tuo corpo accartocciarsi e sentire il tuo interno ribollire o calmarsi e non muoversi mai più, non riesci a sentire neanche il battito del tuo cuore oppure è troppo forte e non riesci a calmarlo e non riesci a respirare e i polmoni sono sempre più inutili e minuscoli e dai la colpa alle sigarette ma la verità è che non sei capace, non sei più capace, hai perso il senso di cosa vuol dire fare qualcosa, e forse forse forse lo sei, sei un punto di domanda che fluttua sullo scheletro di un animale morto prima di imparare a correre, morto nella tana sporca, perché non ha avuto il sostegno necessario a uscire? No, perché si è lasciato morire, ed è quello che stai facendo, pensi che, tanto, non ti sentirai mai bene. È risaputo che il luogo non fa la tua persona, ed è solo colpa tua. Lo dicono loro.
Ma allora a chi dovresti credere? Quell'autodistruzione che ti insegue, come fai a seminarla? Vorresti andare in prigione.
Jack si spense per sbaglio il drum sul palmo della sua mano e fece una faccia, non provando davvero dolore ma come riflesso istintivo. Si era perso il sole sparire dietro la linea dell'orizzonte, troppo impegnato a dare risposte a domande inesistenti.
Controllò l'ora sul cellulare ma non la guardò veramente, perché aveva tre chiamate perse da Alex e un messaggio da Zack. Rimise il telefono in tasca.
Forse, se non avesse acceso la musica, non sarebbe stato né morto né vivo. Sperò di essere diverso dagli altri. Cosa alquanto impossibile.
“Jack! Sei qui! Cristo, ti ho cercato in tutta la casa, perché cazzo non sei dentro? Si congela!”
Davvero? Anche la voce di Alex era fastidiosa in quel momento. No, non era corretto dire una cosa del genere. Avrebbe voluto essere lasciato annegare nelle sue paranoie.
“Sai qual è il problema?”, disse senza guardarlo, sicuro del fatto che non si sarebbe spostato dalla soglia di casa, ma sarebbe rimasto immobile, le braccia strette al petto per proteggersi dal freddo. Non si era girato per osservarlo, ma ormai lo conosceva troppo bene.
“Quale?”. Poteva vederlo nella propria mente inclinare la testa verso sinistra e corrugare le sopracciglia.
“Il problema è che pensano tutti di essere speciali. Perché sanno più cose di te, perché ascoltano più musica, e soffrono di più, e ce le hanno peggiori, ed è davvero, davvero un inferno, e quella non li ama, e quello le ha lasciate, e non hanno un padre una madre un cane o litigano, e non li possono sopportare, quei genitori di merda, e vengono picchiati e piangono e si tagliano e diventano anoressici e bulimici e fanno le playlist tristi e le dicono a tutti, perché non sono capaci di tenerle per loro, proprio no, devono aprire il loro dolore come un cioccolatino e buttarlo in mezzo ai bambini, e disprezzare chi non è come loro, e comunque pensare di essere meglio, più su, e ce le hanno peggiori, peggiori, peggiori, hanno davvero toccato il fondo, e mentono, prima di tutto a loro stessi, tu lo faresti? Perché io, oh, io lo faccio sempre. Ma almeno ho smesso di dirglielo, lo tengo per me e sembro una persona vuota e schifosa e mi odiano, non lo sanno ma gli faccio schifo. O no? O forse lo penso io? Perché sono come loro? Mi piace pensare che tutti ce l'abbiano con me per essere importante? Perché se mi guardano e pensano a me allora io vivo. Allora sono immortale. Gli faccio vedere di avere una vita bellissima, riempita da amici, da te, dalle mie passioni, ma guardami. Guarda come mi sono ridotto. Ti sembro felice? Probabilmente sì. Ma soffro come un cane, e nessuno lo saprà mai. Sono passato allo stadio successivo. All'inizio ti tagli e smetti di mangiare e non esci più di casa, poi stai fermo e piangi molto, e infine diventi come me, e non so quale sia peggio, perché posso ridere e dire che sto bene e fartelo capire ma dentro, dietro a tutti gli strati, dietro ai mattoni che ho appoggiato anno dopo anno, sono questo. E vorrei essere abbandonato. Ma è troppo tardi. Ed è tutto così colorato che dentro sono diventato grigio.”
Ci fu silenzio. Per mezzo minuto; Jack continuò a fissare il cielo ormai di un blu scuro, e Alex Jack, l'espressione del viso di Jack, e capì di aver appena incontrato la rabbia, la rabbia più pura, rossa e nera e fatta di tutti quei materiali appuntiti e compatti.
“Io... wow”, riuscì a dire infine. Jack scrollò le spalle e non spostò lo sguardo. Il rumore delle Vans distrutte di Alex risuonò sul legno e sparì in casa. Jack pensò che avrebbe dovuto aspettarselo.
Dopo un lasso di tempo estremamente breve che gli sembrarono anni, i passi tornarono indietro. Alex gli passò davanti e si sedette di fianco a lui per poi rialzarsi immediatamente. Si inginocchiò di fianco a lui e gli alzò una gamba, poi l'altra, spingendole verso il sedile, finché Jack non capì e lo guardò interrogativamente, entrando nei suoi occhi per la prima volta quella sera. Alex sorrise piano, preoccupato di poterlo in qualche modo ferire se avesse permesso ai suoi muscoli di stendersi troppo. Gli fece un cenno con la testa e Jack si lasciò andare sul divano, fin troppo stanco per ribattere. Alex cambiò il sorriso da incoraggiante a soddisfatto e si sdraiò, con la testa sul suo petto, proprio sopra al cuore. Tirò la coperta che aveva appoggiato in fondo sopra di loro e lo abbracciò, sistemandosi meglio fra le ossa di Jack.
“Penso che l'importante non sia essere speciali per noi stessi o per loro, forse l'importante è essere speciali per quelle persone che ci amano. E non dirmi che è una mancanza d'indipendenza, perché sai benissimo anche tu che da soli saremmo miserabili. E non me ne frega un cazzo se non hai fiducia nelle persone o hai paura di perderle, perché io ho fiducia in te e questo basta. Buonanotte.”
Jack, aggrappato alle lacrime che lo stavano pregando di essere liberate, non rispose ma lo strinse.
Forse.

Più che una fanfic sembra è un flusso di coscienza ma shhht. Penso sia la cosa meno slash che abbia mai scritto ma hey. Viva la vita.
Se ci sono errori incolpate
Ale che mi fa da beta :-)
Il titolo è preso dalla canzone dei Neck Deep, cià vvb recensite (oh e se qualcuno leggeva la mia kellic perdonatemi, aggiornerò eventually, promesso)

   
 
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