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Autore: Super Mimi_    12/05/2014    2 recensioni
[Ace|Pre-Marineford/Impel Down]
Dopo i primi colpi che si abbattevano sordi sulla sua schiena, strappandogli lembi di epidermide e violentando il tatuaggio che spiccava fiero sulla sua pelle, tutto ciò che lo circondava diveniva bianco, sfocato e poi nero. Non c'erano più suoni, né colori, e neppure il dolore. Rimaneva sospeso così, quasi stesse dormendo, fino a quando non rinveniva nella sua cella, ancora incatenato e sanguinante... più bestia che uomo.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jinbe, Portuguese D. Ace
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: One Piece ©1997 Eiichiro Oda

Ancora Buio

Buio.
Socchiuse gli occhi e una massa informe di oscurità lo circondò... uno dei brevi sprazzi di piena coscienza in quella prigionia. Non c'era poi molta differenza tra la notte e il giorno, tra il sonno e la veglia,. Una debole risata sgusciò dalla sua gola arida a quel pensiero, un riso secco e privo di una qualsiasi traccia di felicità, il suo, vuoto.
Chinò il capo contro il petto quando si ritrovò a tossire e sputare insieme un grumo di sangue e saliva. Storse il viso in una smorfia di dolore per una fitta al torace, forse aveva qualche costola rotta a causa delle percosse e delle frustate... ma a lui che importava, dopotutto? Dopo i primi colpi che si abbattevano sordi sulla sua schiena, strappandogli lembi di epidermide e violentando il tatuaggio che spiccava fiero sulla sua pelle, tutto ciò che lo circondava diveniva bianco, sfocato e poi nero. Non c'erano più suoni, né colori, e neppure il dolore. Rimaneva sospeso così, quasi stesse dormendo, fino a quando non rinveniva nella sua cella, ancora incatenato e sanguinante... più bestia che uomo.
Ormai nulla aveva più senso lì; neanche il sole che sorgeva sul mare poteva più sfiorarlo da quanto si trovava sepolto sotto metri, chilometri di acqua, circondato da sbarre scure di agamaltolite e pietra sporca di sangue, suo e dei detenuti precedenti. Si sentiva più all'Inferno che ancora vivo e così forse era o, comunque, presto sarebbe stato. Riusciva a capire di non essere morto solo per il debole respiro e i gemiti sofferenti degli altri prigionieri, criminali troppo crudeli e temuti per esser lasciati scorrazzare in superficie, alla luce del giorno.
Sollevò a fatica il capo, sentendo i polsi bruciare. Aveva perso completamente la sensibilità alle dita delle mani, ma le catene arrugginite che sfregavano e laceravano la pelle era ancora in grado di avvertirle. Sorrise debolmente, tristemente: credeva di esser diventato immune a qualsiasi dolore, sia fisico che psicologico. A quanto pareva, però, il suo corpo continuava a lottare per sopravvivere spronandolo a rialzarsi, a liberarsi, e lo stesso faceva la sua anima, pronta a rivedere la luce del sole. Quanto gli mancava il calore dell'astro lucente che accarezzava la sua pelle, e il fresco profumo di salsedine e legno bagnato! Ora l'unico odore che raggiungeva le sue narici era quello del sangue, rappreso e acre, e di ferro. Un po' , tuttavia, era sollevato: presto quella tortura sarebbe terminata, e con essa la sua vita. Che differenza c'era, poi, tra quella prigionia e un'esistenza inutile, senza un valido motivo per essere vissuta?
Non era abituato a sentire freddo. Lì, invece, aveva imparato a tremare a causa del freddo: non avvertiva altro che il gelo penetrargli fin dentro le ossa, pungente e umido, bagnato e sporco. Il caldo, tuttavia, lo riusciva ancora a percepire quando la frusta di una delle guardie di Impel Down calava sulla sua schiena, ultimo giudice che confermava la sua crudele condanna. Poi tornava il freddo, quello della resa, dell'ingiustizia, della solitudine. Da quest'ultima, però, vi era ormai assuefatto, immune. Fin da bambino lo aveva accompagnato come una silenziosa compagna, forse da quando era nato quel legame era stato sancito. L'aveva odiata, quella solitudine gelida e crudele, fino ad accettarla. Ma poi era arrivato lui: un semplice bambino piagnucolone e debole che lo aveva seguito ovunque, pur di diventare amici. Ace, invece, lo aveva sempre evitato, allontanato e respinto fino a quando quello stesso bambino, con il suo enorme sorriso e il suo strambo cappello di paglia, non era divenuto indispensabile per lui.
Dopotutto, chi trova un amico trova un tesoro. Lui ne aveva due, di amici... due fratelli maggiori e uno minore. Le sue labbra si arricciarono debolmente a quei ricordi, quante avventure e sofferenze, quanti sorrisi e lacrime... era stato uno dei periodi più belli della sua giovane e tormentata vita. Presto avrebbe rincontrato Sabo, sua madre, Tatch... questo si ripeteva in continuo, quasi fosse un mantra. Chissà come lo avrebbero accolto; chissà che avrebbe detto il fratello, se si fosse arrabbiato con lui per aveva abbandonato il moro.
Diede uno strattone alle braccia legate e trattenne un gemito di dolore mordendosi il labbro inferiore, spaccato e sanguinante... chissà che avrebbe detto quello zuccone di Rufy, se avesse visto conciato in quelle condizioni il suo fratellone.
«Ru...R-Rufy.» sussurrò il suo nome, un basso ringhio cupo e rauco. Non ricordava così la sua voce, ma presto il mondo intero se la sarebbe dimenticata e con essa anche la sua faccia – sempre che non l'avesse già fatto.
Le catene sbatacchiavano tra loro e contro il muro provocando un tintinnio acuto e fastidioso che fece innalzare qualche lamento dalle altre celle. Non vi prestò molta attenzione, Ace, intento a cercare di ignorare il bruciore delle escoriazioni, e il sangue che colava e si aggiungeva a quello che già imbrattava gli anelli di metallo. Digrignò i denti, i capelli appiccicati alla fronte imperlata di sudore e la schiena piegata in avanti con i muscoli vibranti e tesi. Le gambe rimanevano fisse, nonostante stesse cercando di muoverle. Doveva riacquistarne la sensibilità e il controllo, così cercò di alzarsi, ma il suo corpo non era abbastanza in forze per reggerlo. A dirla tutta, faticava a riconoscerlo come proprio, quel corpo martoriato e sporco. La sua pelle era ricoperta di cicatrici e di ferite fresche e grondanti sangue, e il sudore e la polvere parevano nasconderne il colore roseo. Sentì un respiro alle sue spalle intensificasi, diventare sempre più forte fino a sfociare in un debole mormorio affaticato: «S-si può sapere che d-diavolo stai facendo, Ace?»
Il diretto interessato lo ignorò: non poteva fermarsi, altrimenti la forza che pulsava nei suoi muscoli sarebbe terminata, sprecata in un inutile tentativo di...
«Fermati!» di nuovo la voce di Jinbe si sovrappose, profonda e rauca, sulle grida e i lamenti dei detenuti rinchiusi nelle celle vicine.
Il moro gli rivolse solo una fugace occhiata per poi ritornare a puntare lo sguardo sulle pietre del pavimento impolverate e sporche di dense macchie scarlatte. Rufy, che avrebbe detto? Il suo fratellino...
«Ti ucciderai, Ace.» I rimproveri dell'Uomo-pesce non venivano uditi dal pirata, così come i richiami dei prigionieri e di alcune guardie attirate dal rumore delle sue catene.
Bene, era riuscito a mettersi in ginocchio. Rufy aveva sempre creduto in lui e nei loro sogni. Come poteva deluderlo, senza nemmeno provarci? Dov'era finita la sua determinazione? Era forse colata dalla sua pelle, come il suo sangue? Di voglia di vivere non ne aveva mai avuta troppa, ad esser sinceri, ma le ambizioni, l'adrenalina e l'avventura non erano mai riuscite ad evitare di scorrergli dentro, nelle vene.
«A-Ace...» Jinbe lo guardò preoccupato.
Pugno di Fuoco strinse maggiormente i pugni fino a sbiancarsi le nocche, le mani avevano riacquistato sensibilità abbastanza da poter essere controllate e da fargli avvertire con rinvigorita forza il bruciante dolore. Affondò i denti nelle labbra per lo sforzo e fece leva sulle braccia per riuscire ad alzarsi.
Con un ultimo sforzo e qualche strattone alle catene, le gambe si raddrizzarono e, tremante, posò il proprio peso su di esse: erano deboli, così come ogni altra parte del suo corpo. Le ginocchia malferme e doloranti lo reggevano appena. Digrignò i denti, avvertendo un gusto acre e ferruginoso in fondo al palato e gli arti superiori bruciare, per poi sorridere debolmente: ce l'aveva fatta, per il suo fratellino.
«Ehi, tu!» tre guardie in divisa lo guardarono, scioccate e minacciose allo stesso tempo. Sicuramente si domandavano come fosse riuscito ad alzarsi, nonostante le sue pessime condizioni, e mai avrebbero compreso cosa potesse compiere un uomo disperato, un pirata determinato, un fratello maggiore. Guardò i carcerieri, senza vederli realmente. Sentiva caldo, e non per il sudore bollente che lo bagnava né per le ferite, ma per la felicità. Sarebbe stato fiero di lui, Rufy.
«Ritorna seduto!»
Uno schiocco secco e agghiacciante perforò i timpani di Ace, le gambe cedettero sotto di lui e una scarica elettrica gli percorse la spina dorsale. Ricadde in ginocchio, per poi accasciarsi sul pavimento freddo e duro. Gli arti inferiori erano scossi da lievi tremiti, ma che differenza faceva qualche osso rotto? Altro sangue grondò dalle sue ferite, raccogliendosi in piccole pozzanghere nelle crepe tra le piastrelle, e il suo corpo bruciò di dolore. Boccheggiò e batté le palpebre ripetutamente, cercando di focalizzare il pavimento dinanzi a sé.
Nessuna fiamma avrebbe più arso nelle sue vene e divampato sulla sua pelle. Un fuoco soffocato ed estinto per sempre, così si sentiva e così si sarebbe sentito durante i giorni che lo separavano dalla sua esecuzione. Un'ultima occasione per riscattarsi, però, l'aveva ottenuta e nuovamente il suo corpo aveva lottato e la sua anima si era librata, oltre le catene e le sbarre, oltre le frustate e l'acqua. Si era ricongiunta a quella di Cappello di Paglia, non sarebbe mai stata trafitta da due lance.
«ACE!» percepì in lontananza l'urlo di Jinbe e le sue catene che si scontravano nel trattenerlo; avrebbe voluto avvicinarsi per aiutarlo, e gliene fu immensamente grato per questo. Riuscì a sentire anche le guardie deriderlo ed andarsene, gli altri detenuti ridere di lui e definirlo con vari epiteti. Niente, tuttavia, lo sfiorò più del calore che bruciava nel suo petto, mentre il suo respiro si faceva affannoso e spezzato. «R-Rufy...» un rivolo di acqua cristallina gli scivolò dalle ciglia e gli percorse una gota, intanto che il volto del fratello si faceva sempre più sfocato nella sua mente.
E fu ancora buio.










Note d'autrice:
Di sicuro, devo avere una spiegazione per aver scritto questa cosa, più comunemente definita One-shot. Ebbene non ho un motivo veroe proprio, semplicemente ho provato ad immedesimarmi in Ace mentre era prigioniero ad Impel Down... era un'idea che da un po' mi frullava nella testa. Ho trattato molto i suoi pensieri riguardo a Rufy perché secondo me non c'è persona a cui il moro abbia pensato più del suo amato fratellino pasticcione. Si chiede che penserebbe di lui nel vederlo lì, incatenato e arreso, e riesce a trovare la forza che gli mancava, la volontà di dimostrare che lui è ancora Pugno di Fuoco. Inoltre, inutile aggiungere che amo quei due fratelli così pucciosi uwwwu <33
Okay, dopo questi brevi chiarimenti, spero che Ace non risulti OCC e che vi sia piaciuta la Shot!
Consigli e critiche costruttive sono sempre ben accetti.
Grazie per aver letto :3 Un saluto,

Mimi
 

  
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