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Autore: radioactive    14/05/2014    1 recensioni
Partecipante al contest Watercolor indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡.
― Viaggio con mia figlia Clara, siamo… ― ci pensò un attimo, alzando gli occhi al cielo, ― una sorta di circensi. O vagabondi, scelga lei come chiamarci.
[...] ― Mi verrete a guardare? ― domandò infine lui.
Ava alzò il capo, scuotendo le spalle come se fosse stata svegliata, ― dipende, in cosa vi esibite?
La risposta non le arrivò subito: Jostein si tirò in piedi, raggiunse la sedia vicino al camino e riprese la propria camicia, infilandosela malamente. Prese la giacca in mano e mise i piedi nelle scarpe senza allacciarle. ― Non posso dirvelo, è una sorpresa.

La voce "Contenuti forti" è stata inserita solo per mettervi in guardia da eventuali brutte sorprese (che è lo scopo di questa storiella, in effetti) - quindi non partite troppo prevenuti! Inoltre, ci sarebbe un leggerissimo incest padre/sorella, molto trascurabile.
Genere: Dark, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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            Partecipante al contest Watercolor indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡.
                       
(la storia non sarà valutata in quanto scritta da uno dei giudici).



PACCHETTO VIOLA: dark, horror, mistero.
PAROLE: 3.650 (circa).



«Bimbi e bimbe di ogni età,

ecco qualcosa che vi stupirà»

 

 

 

Jostein strinse tra le dita le rendini dell’asinello, tirandolo appena – il suo gesto assomigliava ad una carezza. Si fermò per far passare due bambine che portavano un cesto a testa di fiori scoloriti e appassiti.

Tutto era appassito, in quella città.

Forse era un bene, per lui.

Riprese a camminare piano, dentro la carrozza malandata sua figlia si era appena svegliata: la sentiva borbottare mentre cercava da mangiare, passando poi a lamentarsi delle pieghe della sua gonna ed infine del freddo.

― Clara? ― chiamò lui, piano, ― Clara! ― riprovò poi, cercando di guardarsi indietro. Dalle tende vide spuntare una zazzera aggrovigliata che, con il fumo che danzava sopra di loro e le nubi grigie che coprivano il cielo, sembrava di un castano spento. Da dove venivano loro, i capelli di Clara erano ramati.

― Siamo arrivati? ― dalla sua voce, Jostein percepiva ancora delle tracce del sonno che si era concessa poco prima. Ritornò a guardare dritto davanti a sé, immaginando le gonne scomposte di cui si lamentava.

― La città è questa ― rispose pacatamente, mise per sbaglio un piede in una pozzanghera ed il suo riflesso si distorse in piccole onde dalle tonalità grigio scuro. I suoi capelli, meno spenti di quelli di Clara in mezzo al marciume, parevano lingue di fuoco che spezzavano le nuvole e il fumo dietro di lui; il suo sorriso era moltiplicato all’infinito.

― Fa schifo!

Clara ritornò dentro la baracca su quattro ruote, l’asino fece un lamento di stanchezza e Jostein rise.

 

• • •

 

― La mamma avrebbe odiato questo posto ― la voce di Clara si disperse tra le particelle di polvere e fumo dentro quella stanza. Sebbene la vecchia torre dell’orologio avesse suonato da poco le quattro, il sole sembrava essere scomparso, come se fosse già sera.

Una sera chiara, però, perché invece del blu profondo nel cielo vi era il grigio, decorato dai contorni sfocati delle nuvole che sembravano minacciare pioggia, ma che non piangevano mai.

Jostein si sedette sul ciglio del materasso, accarezzando la corona di capelli della figlia, sparpagliati sul lenzuolo. Alzò una ciocca, tenendola tra due dita – assottigliò lo sguardo alla ricerca del suo colore originale, come se dai propri occhi potesse lanciare fasci di luce, luce vera.

― Non dici niente? ― di nuovo, la voce della figlia sembrava illuminare la stanza per qualche secondo, racchiudendoli in una bolla dorata che ricordava i loro prati e le loro pecore. Anche la madre di Clara aveva il potere di racchiudere tutto in un modo limpido, dove quello che vedevano brillavano di un colore senza nome. Per questo Jostein l’amò così tanto.

― Pensavo a quanto stai diventando bella ― confessò, abbandonando la ciocca di capelli prima di tirarsi su, sfilandosi le bretelle dalle spalle che gli ricaddero sui fianchi come corde. Jostein mosse le braccia in movimenti circolari, il cigolio del letto catturò la sua attenzione. I tacchetti delle scarpe sporche di Clara batterono sul parquet malandato, precedendo la sua voce. ― Hai intenzione di darmi in moglie a qualcuno?

Jostein colse la nota quasi disperata, scosse la testa e si girò verso di lei, sorridendole. ― Non potrei mai darti in moglie a qualcuno che non ami, mia cara.

― Piuttosto mi faccio suora.

Jostein rise.

― Piuttosto ti fai suora ― ripeté, ― suora… ― qualcosa, nella sua testa, prendeva improvvisamente forma. Batté la mano chiusa a pugno sull’altra aperta, alzando il mento e schiudendo le labbra. ― Idea! ― esclamò, avvicinandosi alla figlia, abbracciandola, ― mi dai sempre nuove idee, Clara ― le stampò un bacio sulla fronte e fece scorrere le dita sulla sua schiena, immaginando per un momento la curva della colonna della madre sotto le proprie dita.

― Farei di tutto per te, papà ― era un sussurro, una promessa, un sorriso trasformato in parole.

― Fai già tutto quello che puoi fare per il tuo povero, vecchio padre…

La ragazza lo allontanò, aggiustandogli il colletto della camicia, la cosa più brillante e pulita in mezzo a tutto quel grigio marcio. ― Non sei tanto vecchio ― lo consolò, ― ma che ne dici di rivestirti e andare a fare quel che sai fare meglio? Questa città ha bisogno di colore ― Clara si sedette sul letto, le gonne del vestito si gonfiarono come dei petali di rosa pronti a sbocciare. Con la mano gli indicò la porta, muovendola poi come se dovesse scacciare un insetto, ― forza! Vai, vai ― i suoi denti splendevano come il colletto di Jostein.

 

• • •

 

Più Jostein affondava i piedi nelle pozze o inciampava sui sanpietrini mal incastrati, più si rendeva conto che Clara aveva ragione: questa città ha bisogno di colore.

L’idea di poterglielo portare, questo colore, non gli dispiaceva. Era come se davanti ai suoi occhi ci fossero delle lenti grigie che scolorivano e ingrigivano tutto. Sicuramente, si diceva, era colpa delle ciminiere lontane della Grande Città: vomitavano su quel piccolo paese i rifiuti degli abitanti. Sembrava di vedere sulle spalle delle donne e degli uomini che passeggiavano nella sua stessa via tutti i problemi e le angosce dei poveri e dei ricchi della Città.

Più sono grandi le città, sosteneva Jostein, più è difficile trovare del colore vero – le industrie producevano colore e lo mettevano sui vestiti, tutta roba chimica. Per questo lui era fiero di venire dalla campagna, dove il verde è verde e il rosso dei suoi capelli sembrava fuoco vero.

Una volta sognò Clara che perdeva quel rosso nei capelli, lasciando posto al nero, la sua pelle diventava come quella del cadavere e persino il suo vestito preferito perdeva quella bellezza naturale. Quel ricordo gli fece venire i brividi e affondò ancora il piede in una pozzanghera. Tutti gli uomini attorno a lui sembravano essere diventati come la sua Clara onirica, e Jostein non sopportava di pensare a come potesse essere frustrante vivere così.

Da qualche parte, qualcuno suonava uno strumento che lui non conosceva: la melodia spiegazzata e grave gli entrava nelle orecchie e stringeva il cuore. Jostein immaginò il proprio organo, rosso di vita, venire lentamente coperto da lampi grigi – sciupando il suo cuore, consumando i suoi battiti che sembravano sempre di più una nota spiegazzata.

Si tappò le orecchie e camminò più velocemente, cercando di evitare le buche e gli escrementi per terra. Non aveva paura di respirare il fumo e la tristezza grigia di quell’aria, perché sapeva che non potevano fargli nulla – erano deboli rispetto a lui, alla sua anima. Quella canzone invece parlava di lacrime e dolore, ed era qualcosa che Jostein non riusciva a domare: erano sentimenti che si insinuavano facilmente in quella crepa che tutti avevano, da qualche parte, nello spirito. Come quel colore che, in tutte le sue tonalità, non riusciva ad essere accostato con quello della propria anima.

 

• • •

 

Finalmente le nuvole piansero. Jostein alzò gli occhi verso il cielo, l’acqua sembrava evitare accuratamente le sue ciglia, perché non si incastravano tra queste. Gli colpivano le labbra secche e screpolate, seguivano la curva delle guance e confluivano sul mento, scivolando via. Ma gli occhi no.

Si appoggiò ad un muro in pietra, il freddo gli attraversava la giacca e bagnava la camicia, scorrendo sulla sua schiena. Lo sentiva ovunque, dentro di sé – persino la sua voce sembrava congelata. L’acqua lo stava avvolgendo e lavava via tutto il grigio che aveva addosso.

Scivolò lentamente a terra, stringendosi le braccia contro il petto, i denti battevano così forte che pensò potrebbero spezzarsi da un momento all’altro. Chiuse gli occhi, sentendo le ciglia pesanti, chiedendosi se Clara stesse dormendo in quel buco di locanda. Appena avrebbe smesso di piovere, sarebbe ritornato da lei.

― Signore? ― era la voce di una bambina.

― Becca, non parlare con gli sconosciuti ― questa, invece, di una donna.

Jostein aprì piano gli occhi, alzandoli per incontrare il volto della più grande. Sorrise.

I suoi capelli sembravano spighe di grano al sole – sotto il cappellino viola, erano perfettamente asciutti, protetti dal grigio della Grande Città.

Jostein sorrise, e credette di essersi innamorato di nuovo.

― Signore, vi sentite bene?

La voce della donna gli arrivò dritta al cuore, come se avesse acceso un fuoco proprio sotto l’organo. Lo sentiva scaldarsi e il ghiaccio sciogliersi in stille cristalline. I polmoni gli si riempirono di aria fredda ma che era leggera come farfalle. Eppure la sua gola era ancora congelata, e per quanto schiudesse le labbra e provasse a parlare, ne usciva solo un rantolio.

La sconosciuta sbuffò, diede il cesto coperto che teneva sul braccio alla bambina nascosta dietro le sue gonne e si avvicinò a Jostein.

― Si faccia forza, Signore ― gli consigliò, mentre passava un braccio dietro le sue spalle e provava ad alzarlo. Jostein si sorprese della facilità con cui lo tirò su: era così leggero?

Camminò appoggiato alla donna, mettendo un piede dentro l’altro, lentamente. La pioggia li accompagnò fino a quella che, secondo lui, era la casa della sconosciuta.

 

• • •

 

― Come si chiama?

― Jostein.

La bambina gli sorrise, le sue dita erano morbide mentre le sfiorava per prendere la tazza che gli stava offrendo. ― E tu? ― Jostein osservò il volto tondeggiante della piccola, le ciglia erano amorevolmente incurvate in su, ma erano scure – non chiare come quelle della più grande.

― Becca ― si sedette per terra, ai piedi di Jostein, e si mise a giocare con il lembo della coperta che la padrona di casa gli aveva offerto.

― E quanti anni hai, Becca?

― Dodici.

― Mia figlia ne ha sedici.

Il silenzio calò nella piccola sala da pranzo, il fruscio di gonne della donna precedette la sua comparsa. Un profumo di mirtilli riempì le narici di Jostein e l’immagine di quelle bacche viola si impossessò della sua mente. Chiuse gli occhi, come se potesse rendere quella visione più reale, e il colore più vero.

― Ne mangi uno, le farà bene. ― lo incitò lei, teneva con una mano un cesto intrecciato, con l’altra si postava un ciuffo chiaro dietro l’orecchio, ― sono ripieni di marmellata di more, nulla di più ― continuò poi.

Gli occhi castani di lei avevano dei riflessi dorati, sottili pagliuzze puntavano verso l’iride scura come minuscoli fasci di luce. Jostein schiuse le labbra secche e assottigliò lo sguardo, trattenendosi dall’avvicinarsi all’altra.

― Nome?

― Mi scusi?

Jostein sospirò, riappoggiando la schiena alla seggiola, ― il suo nome ― concluse.

― Ava. Lei è un forestiero? ― cambiò argomento, a Jostein diede l’impressione di non voler parlare di sé. La bambina si alzò, rubò una pagnotta calda dal cestino e scomparve dietro il muro.

Jostein si servì, tenendo la tazza tra le gambe, con le dita staccò un pezzo di pasta dal panetto e lo assaggiò: era buono.

― Viaggio con mia figlia Clara, siamo… ― ci pensò un attimo, alzando gli occhi al cielo, ― una sorta di circensi. O vagabondi, scelga lei come chiamarci.

― Vi esibirete qui o alla Grande Città?

Jostein scosse il capo, masticando un altro boccone. La marmellata di more scendeva calda nella sua gola. ― Qui, assolutamente. Non amiamo le città come quelle.

Ava si sedette dove prima vi era sua figlia, e aspettò. Jostein alternava i morsi al manicaretto con i sorsi della bevanda calda – i suoi occhi erano fissi sui capelli chiari di Ava, la delicatezza della curva del suo naso era adorabile.

― Mi verrete a guardare? ― domandò infine lui.

Ava alzò il capo, scuotendo le spalle come se fosse stata svegliata, ― dipende, in cosa vi esibite?

La risposta non le arrivò subito: Jostein si tirò in piedi, raggiunse la sedia vicino al camino e riprese la propria camicia, infilandosela malamente. Prese la giacca in mano e mise i piedi nelle scarpe senza allacciarle. ― Non posso dirvelo, è una sorpresa.

Con poche falcate si avvicinò alla porta, rivolse un ultimo, vivace, sguardo verso Ava, ― confido nella sua presenza, le assicuro divertimento e colori.

L’uscio si chiuse dietro di lui e il trotto di un cavallo lo riaccompagnò fino a casa.

 

• • •

 

Clara si svegliò di colpo, facendo ritrarre a Jostein la mano, il movimento fu rapido ed istantaneo.

― Papà!

La sua voce riecheggiò nel silenzio della camera e, nello stesso momento, il fuoco scoppiettò. Quello di Clara sembrava un grido di felicità, quello del camino un lamento doloroso.

Le braccia della ragazza gli avvolsero il collo, in un gesto altrettanto naturale, Jostein prese ad accarezzarle la schiena, affondando il sorriso nei suoi capelli scompigliati.

― Dov’eri finito? Sei fradicio! ― commentò lei, scivolando via dalla presa, alzandosi dal letto e lisciandosi inutilmente i vestiti, ― ti preparo un bagno? ― la sua preoccupazione era adorabile.

Jostein si sfilò la camicia e le scarpe, mettendosi sul letto, affondando tra le coperte. ― Non stare in pensiero per me, Clara ― la rassicurò, sbadigliando, ― rilassati, leggi se vuoi ― le disse, quasi fosse una concessione.

Alzò le ciglia chiare nel sentirla camminare verso di lui, il viso della figlia era  davanti al proprio. ― Hai trovato qualcuno che ti può aiutare, domani?

― Sì, tranquilla.

― Ti daranno buca come al solito?

Jostein sorrise, allungandosi a dare un bacio sulla fronte della ragazza, ― non preoccuparti, Clara. Lo spettacolo sarà ugualmente fantastico, come sempre ― la consolò, prima di darle la schiena per riposare.

La giovane si alzò, sospirando, raccolse da terra la camicia del padre.

Le maniche erano sporche di rosso.

 

• • •

 

La piazza veniva attraversata da piccoli gruppi di persone. Sopra le loro teste le nuvole, grigie ed immobili, stavano a guardare il piccolo carretto e l’asino spazzolato che lo trainava.

Clara dava da mangiare all’animale delle carote, tenendo con una mano il legume e con l’altra un lembo del suo vestito viola, attenta a non sporcarlo. Era il suo vestito per lo spettacolo, non poteva rovinarlo.

Lasciò una carezza all’animale e fece il giro dell’abitacolo ambulante, spostando una tenda color prugna per osservare l’interno: Jostein stava di schiena, la giacca – viola come il suo vestito – era liscia sulle sue spalle.

― Papà? ― domandò piano, come se temesse qualcosa.

Osservò i capelli rossastri dell’uomo, innaturalmente rivolti verso l’alto, eppure puliti. Come se ci fosse qualcosa che li sollevasse. Quando il padre si girò, notò sul suo viso i lineamenti di una donna, un sorriso rosso scuro gli squarciava il viso, assomigliava ad una ferita incrostata di sangue. Per quanto lo guardasse, non riusciva a trovare i punti in cui quella seconda pelle si fondeva con la prima.

Trattenne il respiro sentendo parlare quel volto con la voce di Jostein.

― Ci sono quasi, Clara. Che ne dici di iniziare a raccogliere un po’ di pubblico? ― e ritornò a trafficare con le sue maschere.

Clara ubbidì, come faceva tutte le sere in cui si esibivano. Non aveva ancora capito il perché suo padre si ostinasse a mettersi e togliersi decina di maschere quasi ogni giorno, sorridendo in modo buffo e facendo strani balletti mentre impersonava qualcuno a cui quel volto poteva calzare a pennello.

Afferrò i suoi birilli e iniziò a volteggiare, facendo saltellare gli strumenti da una mano all’altra. Cantando per dimenticare quel volto – o, più precisamente, quei volti – che erano arrivati a infestarle i sogni. La sua vita era un teatro con le tende fatte di maschere senza spessore, esattamente come quelle che usavano loro.

Un gruppo di bambini si avvicinarono a lei, dietro di loro le mamme dai visi scavati dal pianto e qualche uomo. Il gruppetto di infoltì in fretta e ci fu un leggero applauso alla fine del piccolo spettacolo di una Clara sorridente con i capelli raccolti e tirati all’indietro.

Quando si chinò a terra per posare i birilli, notò che l’orlo viola del suo vestito si era sporcato di fango e altro sudiciume.

 

• • •

 

Jostein aprì le tende scure, i volti ricamati sopra queste così finemente da sembrare quasi dipinti si storpiarono in linee senza senso.

Clara rimase vicino ai bambini per tutto lo spettacolo, abbracciando quelli che, nel guardare suo padre, si giravano impauriti.

― Te l’ho detto ti avrebbe stupito! ― sussurrava, accarezzando i capelli scuri ai piccoli, dietro di sé le madri commentavano con parole che lei non ascoltava.

Aveva gli occhi fissi su suo padre: al suo modo di mettersi le mani dietro alla nuca  e strapparsi via una, due, tre, quattro, decine di facce diverse. Non sapeva come se le procurava: erano differenti di volta in volta, e tutte le volte che lei gli chiedeva “il trucco”, lui le posava un dito sulle labbra e mormorava ― è un segreto ―.

Vedeva quei sorrisi che perdevano vita una volta strappati dal suo viso che cadevano a terra tra l’acqua e il fango. Nessuno osava avvicinarsi a raccoglierli, nemmeno lei. Continuava a guardare Jostein, pregando che quello che vedeva non fosse il suo volto vero, che non tentasse di strapparsi anche quello – non voleva ritrovarsi davanti lo scheletro sanguinante del padre.

 

• • •

 

Jostein giocava, cambiando espressione con la stessa velocità con cui si toglieva una delle sue maschere.

― La cosa veramente bella, ― cercava sempre di spiegare a Clara ― è che il mio volto non cambia mai spessore, piccola ― diceva, sorridendo mentre le acconciava i capelli in una treccia o in uno chignon.

Ma non le avrebbe mai detto la verità. Si era promesso questo: non dirle mai da dove venivano le maschere, sperando che non lo scoprisse da sola.

Sua madre non aveva fatto una bella fine.

Si strappò di dosso l’ultimo volto, regalando un sorriso ad Ava, al centro del pubblico. I suoi capelli di sole spiccavano in mezzo al grigio della città – era più intenso della figura di Clara. Lo rapiva totalmente.

Ava sorrise e dalle sue labbra sfuggirono raggi di luce, che attraversavano la città e mostravano il suo colore originario: vedeva il bianco brillante del marmo, il verde delle lenzuola e l’azzurro degli abiti.

Si inchinò, arrivando a sfiorarsi la punta delle scarpe con le dita. Ammirò i volti caduti a terra che lo fissavano con la stessa espressione dei loro proprietari quando Jostein li uccise.

Si concentrò sui lineamenti duri dell’ultimo viso che padroneggiava su quel piccolo cumulo: ricordava la persona a cui appartenevano, a quell’uomo seduto sul ciglio della strada.

 

• • •

 

― Signore, signore ― lo aveva chiamato, piano, allungando una mano ad afferrargli i pantaloni. ― Una moneta, signore. Avete una moneta?

Jostein ricordò di averlo fissato a lungo, studiando i suoi occhi stanchi, scuri, dello stesso colore dei pochi capelli che aveva attaccati  alle tempie per la pioggia come fossero righe scavate dalle lacrime.

Gli aveva fatto pena, compassione, e anche rabbia: se ne stava lì, lamentandosi e piangendo senza cercare la forza di rialzarsi. Jostein sospirò, infilando la mano in tasca e lanciandogli un nichelino, lo vide gettarsi con tanta avarizia sulla monetina che ebbe l’impulso di sputargli.

Ma no, poteva offrirgli di meglio che una moneta – Jostein non era… cattivo.

― La ringrazio, signore ― lo vice strisciare per terra e baciargli le scarpe.

― Se vuoi ringraziarmi davvero ― continuò Jostein, osservando la linea dura dei suoi zigomi, ― che ne dici di venire un attimo con me? Ho bisogno di una mano ― continuò e, come si aspettava, il vagabondo non rifiutò.

Si avvicinarono silenziosamente al carretto, il mulo sembrava non accorgersi della loro presenza. I rumori erano minimi, la sensazione che si impossessava del corpo di Jostein era febbricitante. Alzò le tende per far passare il buon uomo, lo fece sedere e si accomodò davanti a lui, accendendo una lampada ad olio.

― Cosa siamo venuti a fare, qui? ― chiese lo sconosciuto, sembrava preoccuparsi. Ma aveva offerto il suo aiuto a Jostein.

― Lei sa chi sono?

― Un… ― iniziò, grattandosi la barba incolta e grigiastra, ― forestiero? ― e fece l’errore di guardarlo negli occhi.

Perché Jostein stava sorridendo in un modo folle, gli occhi erano diventati scuri, profondi come due pozzi, ma scintillavano del loro colore originale. I capelli si muovevano con la brezza che si infiltrava come lingue di fuoco occupate a divorare anime di peccatori.

Si avventò sullo sconosciuto, mettendogli una mano sulla bocca, facendogli cozzare la testa contro i cardini che tenevano unite le lastre di legno. Sangue caldo scivolò nella sua mano, bagnandogli la giacca e la camicia.

Gli occhi dell’uomo si ribaltarono all’indietro, le spalle si abbandonarono, mosce e Jostein fu quasi convinto di vedere l’anima uscire dal corpo attraverso le fessure tra le sue dita.

Afferrò un telo, lasciando il pugnale nel petto, e avvolse il torace dell’uomo, si sedette, spostando il fantoccio senza vita in modo da avere il suo viso sulle gambe.

Allungò le mani e con indice e medio della destra scavò nelle orbite, svuotandole dei bulbi, con un’altra lama iniziò a tagliare meticolosamente la pelle dalla base del collo fino alla radice dei capelli, tralasciando le orecchie. Vedeva la carne e il sangue che disegnavano ghirigori sulle sue dita, come la traccia di due farfalle che si rincorrono.

― Le labbra sono sempre le più difficili ― commentò tra sé e sé, assottigliando lo sguardo mentre cercava di concludere il suo lavoro.

Sapeva già dove buttare via il cadavere, una volta recuperata la sua maschera: nel fiumiciattolo dove aveva gettato tutti gli altri, quello scorrere nero di rifiuti della Grande Città.

― Sarà uno spettacolo bellissimo ― commentò, avvolgendo la pelle dell’uomo negli stracci, chiudendola nel baule insieme alle altre. Aveva ripreso a piovere, era un bene: il sangue se ne sarebbe andato via prima.

 

• • •

 

― L’ho fatto solo per Clara ― sussurrò, facendo un passo indietro e chiudendosi la tenda davanti, ― per Clara e per questa città ― concluse.

Era una magia semplice, come quella di un mangiafuoco o di un contorsionista. Lui lo faceva con delle maschere: volti di persone che non meritavano abbastanza la vita, almeno secondo il suo criterio.

Non aveva fatto nulla di male.

Solo spacciato un po’ di sorrisi qua e là.

 

 

   
 
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