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Autore: Ambros    14/05/2014    2 recensioni
-Mette il telefono nella tasca, sospira, e la canzone finisce.
Sono duecentosessantuno giorni che non si specchia negli occhi di Chris.
[...]
Sta per prendere il telefono e chiamarlo, così, perché sa che lo capirebbe, che sarebbe persino più emozionato di lui, le sue dita sono sullo schermo, una folla chiassosa lo circonda e si sente un po’ solo.
Sorride e sospira, perché sa di non poterlo fare.
Incolpa il fuso orario.
Sono passati duecentonovantadue giorni dall’ultima volta che ha visto Darren.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Chris Colfer, Darren Criss
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Counting the Days

A Maria Chiara - sperando di non offenderti -; non so come fai a sopportarmi anche su Facebook. :*
 


Non è che Darren stia contando i giorni.
Lo sa solo per colpa della sua testa che non lo lascia in pace.
Duecentottantatré.
Sono passati duecentottantatré giorni, e sono troppi ma saranno sempre troppo pochi.
Sono passati duecentottantatré giorni, e gli sembra che ne sia passato uno solo e che sia passata una vita intera.
Non è che non si stia tenendo impegnato.
Ha inciso il disco – c’è riuscito, e ha fatto come gli aveva detto Chuck: non si è venduto a nessuno, e quel disco è talmente tanto suo che quando pensa di dover cantare quelle canzoni di fronte ad un pubblico sente un vuoto strano tra lo stomaco e il cuore – e deve pensare a preparare il tour, perché le canzoni non si vendono da sole, e magari dovrebbe dare un’occhiata a quei due copioni che gli ha passato il suo agente – provare a fare un film sembra la scelta giusta, si tiene in allenamento, deve farsi vedere.
Ma Darren non ha voglia di fare niente di tutto questo. La verità è che sta andando alla deriva, e si aggrappa a tutto per tenersi a galla, ogni occasione può essere quella buona, tu prova.
Darren non lo fa.
Non è mai stato bravo a fare quello che gli dicono gli altri, e invece di concentrarsi sulla sua carriera, Darren conta i giorni.
Duecentottantatré.
Duecentottantatré giorni da quando è schioccato il suono dell’ultimo ciak, da quando quel suono si è propagato nel silenzio surreale del set e gli occhi di tutti si sono fatti lucidi e rossi e le labbra hanno iniziato a tremare dopo aver pronunciato l’ultima battuta, e ci sono stati solo sorrisi tremanti e parole sospese, perché finché c’è silenzio tutto è ancora finto e la verità non ti raggiunge.
E poi è successo tutto così velocemente, e i giorni sono volati, e gli eventi sono finiti.
Ogni tanto li rivede, quei ragazzi che sono stati parte della sua vita per cinque anni, meno spesso di quanto vorrebbe, e li osserva da lontano mentre vanno avanti con le loro vite; non può fare a meno, ogni volta, di chiedersi dove stia andando la sua, di vita.
Forse non sta andando da nessuna parte, e lui non ha il coraggio di ammetterlo.
Forse è solo una brutta giornata.
Forse ha bisogno di chiacchierare un po’ con Joey.


*


Darren continua a non contare i giorni, ma quelli scorrono lo stesso.
E adesso ne sono passati trecentosessanta.
Quasi un anno.
Lo pensa e sorride, con quel velo di amarezza che un po’ lo tradisce e stai pensando al passato, hai quella luce spenta nello sguardo.
È il trecentosessantunesimo giorno che lo frega.
 Proprio quando pensava di aver cominciato a dimenticare – o forse non proprio a dimenticare, perché Darren non dimentica quasi niente, tranne le parole, ogni tanto; forse era riuscito a nascondere, sì, a coprire alcuni ricordi col velo sottile della malinconia – ecco che la sua vita lo frega di nuovo, con un’ironia tutta particolare che un po’ lo fa sorridere.
Ha la mano abbandonata sul volante e il finestrino spalancato, gli occhiali da sole che gli stringono il naso e i ricci di nuovo lunghi che gli solleticano la fronte; fa troppo caldo per essere Maggio. Dovrebbe davvero smetterla di fare degli inutili viaggi in macchina solo perché gli sembra che ogni tanto le pareti di casa sua gli si stringano addosso.
Accende la radio passandosi una mano sulla fronte, borbottando un po’ mentre armeggia con i pulsanti – se la usasse un po’ più spesso magari saprebbe come cambiare stazione – e sta per spegnerla con un gesto frustrato, quando una melodia familiare lo costringe a fermarsi ed ascoltare.

-- Like you’re less than
Fuckin’ perfect,
Pretty, pretty please,
Don’t you ever, ever feel
Like you’re nothing,
You’re fuckin’ perfect to me.


La mano rimane sospesa nell’aria, proprio di fronte alla radio, e tutto sembra fermarsi per qualche secondo – il tempo, il traffico, la luce –, e Darren pensa che c’è qualcosa, nell’aria, di profondamente ironico.
Non si sforza nemmeno di controllare i propri pensieri, e lascia che vaghino sotto quel velo di malinconia, in quel set che non esiste più, su un volto che non vede da tanto tempo.
Duecentosessantuno giorni.
Glielo suggerisce una voce bassa e timida da qualche parte nella sua testa, e si immobilizza lì, incapace di formulare un pensiero coerente, e capisce di aver contato i giorni sbagliati.
Duecentosessantuno.
Sono passati duecentosessantuno giorni dall’ultimo volta che l’ha visto di persona, coi suoi occhi magici e quel sorriso tirato.
Si chiede se sia cambiato.
Si chiede se sia cresciuto ancora, se stia ancora con quel ragazzo che ha conosciuto alla fine delle riprese – quando si sarebbero aggrappati a tutto pur di non dover essere soli –, se ancora cammini in punta di piedi attorno ai sentimenti.
L’ha seguito, un po’ per sbaglio, un po’ per finta; ha letto quello che ha fatto, e forse ha visto anche qualche intervista. Ma è stato sempre con un nodo nello stomaco e un groppo nella gola.
Estrae velocemente il cellulare dalla tasca, accosta al marciapiede, le sue dita corrono sullo schermo e raggiungono il suo numero – se lo ricorda ancora a memoria, in realtà – e potrebbe semplicemente chiamarlo, far finta che tra loro sia stato sempre tutto normale, dirgli che ha sentito di nuovo quella canzone e non ha potuto fare a meno di pensare alla sua voce cristallina.
Lo sta per fare davvero, ma poi gli tornano in mente le parole e i brividi che gli sono corsi lungo la schiena quando se lo sono detti per la prima volta – non come fanno gli innamorati, senza guardarsi negli occhi perché tutti  e due avevano troppa paura, e non erano pronti ad una vita che fosse solo stai attento, non ora e meno male che dovresti essere un attore.
Se l’erano detti senza guardarsi negli occhi che la fregatura degli amori impossibili è che durano per sempre.
Mette il telefono nella tasca, sospira, e la canzone finisce.
Sono duecentosessantuno giorni che non si specchia negli occhi di Chris.


*


Chris li sta contando, i giorni.
Quelli passano, quindi perché non contarli?
Ne sono passati trecentosessantanove – ogni tanto controlla lo schermo del telefono per essere sicuro che non ne siano passati tremilaottocento o tre – e la sua vita è andata avanti.
Non pensava che ci sarebbe riuscito, in realtà; pensava che sarebbe rimasto ancorato al passato – gli succede abbastanza spesso – ma non è successo.
Scrive. Scrive un sacco, e pensa che è l’unica cosa che gli dia il senso del tempo. Scrivere.
E cancellare.
Scrive e cancella, perché certe frasi gli sgorgano da qualche parte dal profondo, e forse è meglio che le tenga per sé.


*


Sono passati duecentonovantadue giorni, e Chris lo sa.
Duecentonovantadue, e forse non dovrebbe saperlo, ma lo sa lo stesso perché non può farne a meno.
Sono passati duecentonovantadue giorni dall’ultima volta che ha visto Darren e il suo sorriso. E ne sono passati trecentonovantadue dall’ultima volta che le loro labbra si sono sfiorate.
Forse Chris non è riuscito ad andare molto avanti.
È vero, è in tour con il suo nuovo libro.
È vero, ha incontrato J. K. Rowling.
E la prima cosa che gli viene in mente è che vorrebbe dire a Darren che le ha visto Harry nello sguardo.
Sta per prendere il telefono e chiamarlo, così, perché sa che lo capirebbe, che sarebbe persino più emozionato di lui, le sue dita sono sullo schermo, una folla chiassosa lo circonda e si sente un po’ solo.
Sorride e sospira, perché sa di non poterlo fare.
Incolpa il fuso orario.
Sono passati duecentonovantadue giorni dall’ultima volta che ha visto Darren. 


*


Darren sta cantando.
Ha il microfono troppo vicino alle labbra e la maglia attaccata al busto per il sudore, i ricci che continuano a cadergli davanti agli occhi ed è senza fiato; si gira per prendere la bottiglia d’acqua poggiata sullo sgabello di legno, e ne approfitta per scostarsi i capelli dalla fronte sudata quando li vede: due occhi color acquamarina, sfuggenti e socchiusi, e tutto il suo mondo diventa un po’ più sfuocato e le parole gli sfuggono dalla mente, e si concentra subito, perché se sono i suoi occhi ha bisogno di seguirli.
Ma poi osserva il resto del viso, e non è suo.
Non gli assomiglia nemmeno lontanamente.
Cerca di convincersi che il blocco che sta sentendo nello stomaco non sia di delusione e amarezza.
Più tardi, nel camerino, si lascia cadere su quella sedia cigolante e fissa lo schermo del telefono.
Sarebbe così semplice.
Poi non lo fa.
Perché non ha il coraggio.
Codardo, Darren, sei solo un codardo.
Sono passati trecentocinque giorni dall’ultima volta che ha visto Chris.
Forse è per questo che ha trecentocinque graffi nella gola e nel cuore.


*


Chris è seduto in quella libreria da almeno tre ore, e comincia ad essere esausto. Non sa esattamente quante copie del suo libro abbia autografato, ma le sue dita cominciano ad essere intorpidite e la fila di fronte a lui non sembra che accenni ad accorciarsi; poggia il capo su una mano, solo per qualche secondo, giusto per riprendere fiato, ma qualcosa lo costringe ad immobilizzarsi come se una scarica elettrica gli avesse attraversato la schiena.
Vede dei capelli ricci, e sono esattamente del suo colore, e anche l’altezza dev’essere quella, deve alzarsi, sporgersi per vedere se magari è davvero lui.
Gli basta spingere un po’ con i palmi leggermente sudati sul tavolo e allungare un po’ il collo per vedere che non è lui.
Deglutisce con difficoltà e deve abbassare gli occhi per qualche secondo, guarda l’ennesima copia da firmare e sorride con aria stanca alla ragazza emozionata di fronte a lui.
Più tardi pensa che potrebbe chiamarlo.
Anche se è stanco e i suoi occhi si stanno chiudendo, potrebbe semplicemente prendere il telefono e comporre il suo numero.
Poi si dice che dovrebbe chiamarlo quando è più sveglio, quando le sue facoltà intellettive sono più attive, perché per parlare con lui ha davvero bisogno di concentrarsi.
Sono passati trecentoventidue giorni dall’ultima volta che ha visto Darren.


*


Sono passati trecentoquarantotto giorni.

Darren è abbandonato sulla poltrona del salotto.

Chris è seduto sulla sedia davanti alla scrivania,
gli occhiali calati sul naso e la pagina bianca di Word
davanti a lui.

Darren fruga con le dita dentro le tasche dei jeans, e alla fine
prende il cellulare.
 
Chris ha il cellulare in mano, il numero di Darren già
digitato sullo schermo.
Gli vibra in mano, e il cuore gli sprofonda nel petto.

2:09 da: Darren
Sono passati trecentoquarantotto giorni.
2:09 da: Chris
Lo so.

2:10 da: Darren
Mi sei mancato.

2:11 da: Chris
Possiamo vederci domani?

2:11 da: Darren
Oggi.

2:12 da: Chris
Oggi.

2:23 da: Darren
Chris?

2:25 da: Chris
Mh?

2:26 da: Darren
È come se non fosse cambiato nulla.

2:27 da: Chris
Perché è così.


*



Sono passate sei ore dall’ultima volta che Chris ha visto Darren.

Sono passate sei ore dall’ultima volta che le loro labbra si sono incontrate.

Mancano quindici ore al loro prossimo appuntamento.
Mancano quindici ore e due secondi al loro prossimo bacio.



***

 
Note:
Pubblico questa OS imbarazzante senza farla leggere a mia sorella, quindi ho il panico radicato nello stomaco.
Credo di averla pubblicata perché devo trovare il coraggio di andare a studiare latino *annuisce*
Ma questo non vi interessa.
Uhm.
Spero che vi sia piaciuta.
Fatemi sapere :)

 

 

  
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