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Autore: Veronikadb    15/05/2014    0 recensioni
Melissa, ossessionata e al tempo stesso traumatizzata dall'abbandono della madre, rivive il trauma subito sforzandosi di ristabilire l'equilibrio nella sua mente.
Inizialmente scritta e inviata per il concorso "Tuttiscrittori2014".
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il rumore dei miei tacchi fece girare tutti verso di me. Rimasi un po' perplessa e subito arrestai il mio passo. Il silenzio che c'era in chiesa era inquietante. Mi aveva sempre terrorizzato tutto quel silenzio, interrotto a scatti dal brusio delle preghiere.
Erano anni che non entravo in quel lungo che mi era tanto caro, ma allo stesso tempo mi faceva tornare in mente brutti ricordi. Con il groppo in gola mi feci coraggio e avanzai il mio cammino verso il confessionale, questa volta con un passo un po' più leggero che distraeva meno i fedeli. Avevo ancora forti dubbi su quello che stavo per fare, ma era necessario, dovevo farlo, l'avevo promesso a me stessa e a mia madre. L'ultima volta che la vidi fu proprio in questa chiesa, piccola, accogliente, delicata. Le ultime parole che mi disse furono "Torna presto a casa!". Eravamo sedute in terza fila, avevo dodici anni. Era domenica, una bella domenica primaverile. Dopo la solita messa io e le mie amiche andavamo a fare una passeggiata al parco. Era nostra abitudine camminare mangiando qualcosa. Quella si che fu una domenica da ricordare, e non solo per tutte le risate che ci facemmo.
Come promisi alla mamma tornai a casa presto. Io si, tornai. Lei no; quella domenica fu l'ultima in cui la vidi. Da allora non sono più andata in chiesa. Non avevo il coraggio di entrarci, continuavo a pensare a me e lei sedute in quella terza fila ad ascoltare Don Mauro parlare dell'amore fraterno, del vincolo che ci lega, soprattutto nella famiglia. Nessun amore, nessun vincolo tenne mia madre legata a noi.
Sono passati 11 anni da allora e mi ritrovo a camminare nella stessa chiesa, a guardare quella terza fila che mi ha cambiato la vita.
Entro nel confessionale con aria molto confusa, agitata, irrequieta. Non so se restare o scappare via. "Dimmi figliola!!"- disse il prete con aria meccanica, al quanto seccata; "Perdonami Padre, perché ho peccato!!" iniziai con voce tremolante; era troppo tardi per poter scappare.
"Sono 11 anni che non entro in chiesa e penso che Dio ormai mi abbia abbandonato. Non lo sento più parte di me, non mi sento protetta e amata. Mi sento indegna di tornare a Lui." dissi con voce sofferente, con la voce di una che non prega da anni e che ha finito per credere di essere solo uno sbaglio della natura.
"Dio è amore, figlia, non ti abbandonerà mai! Tre Ave Maria e un Credo ti faranno ritrovare la convinzione che Lui per te c'e sempre stato! Ora va."  concluse velocemente il prete.
L'idea di dover uscire dal confessionale mi terrorizzava ancor più di come mi sentivo prima di  dover entrare in  chiesa. Sembrava un posto sicuro quella piccola stanzina, al riparo dagli sguardi curiosi e indagatori di tutti. Con un profondo respiro chiusi gli occhi e mi alzai, uscii dal confessionale e mi diressi alla panchina per poter ritrovare la convinzione che Dio c'era sempre stato per me; prima ancora, però, dovevo trovare il coraggio di parlare con Lui, di dire quelle penitenze che mi avrebbero aiutato. L'agitazione che avevo prima in corpo ormai si era trasformato in terrore puro. Non sapevo se iniziare o meno, eppure lo volevo, lo desideravo; quel senso di indegnità che mi portavo dentro era difficile da abbattere, era un muro altissimo difficile da scalfire.
"Ave......Ave Maria..." - pensai di non farcela... "Ave Maria..." - affrontai le mie paure e cominciai a dire le mie penitenze; dopo averle terminate rimasi li a pensare. Non volevo più tornare a casa. Rimasi seduta per ore su quella panchina ad ascoltare il silenzio nella mia mente che si univa al silenzio devastante di quella piccola chiesetta. Era impressionante il modo in cui tutto quel silenzio, invece di incutermi timore, mi facesse smettere di pensare. La mia testa era vuota, completamente vuota e priva di qualsiasi pensiero positivo o negativo. Tutto quello che riuscivo a sentire era silenzio, silenzio, silenzio. Non mi sentivo più me stessa, mi sentivo completamente vuota, non perché ero nuovamente entrata in chiesa o perché avevo pronunciato le penitenze che dovevo, ma perché in quei pochi istanti avrei potuto essere chiunque, una persona completamente diversa (anche solo nell’immaginario).
Miravo a quel momento da sempre, lo anelavo da anni; per quei lunghissimi undici anni avevo vissuto in una bolla, una bolla creata nel ricordo di quella donna forte, bella, che non aveva paura di niente, che non permetteva a nessuno di dirle quello che doveva e/o poteva fare. Neanche alla sua coscienza dava ascolto, sempreché ne avesse una. Mia madre era una donna di pietra. Non si è fatta scrupoli a lasciarmi.
Il mio sguardo, poi,  si posò su una finestra posta sulla facciata destra della chiesa. Era lucente, probabilmente per effetto dei raggi del sole che erano puntati proprio su quel lato della chiesa. Mi aveva sempre colpita quel blu intenso, quelle immagini così perfettamente scalfite nel vetro. Nel disegno, che stavo guardando con tanto stupore ritrovato, ho rivisto una ragazzina spaventata che chiede alla mamma di cambiare fila mentre ascolta la messa.
  • “Cosa c’è Melissa!?” mi chiese.
  • “C’è quell’uomo lì in alto che mi fissa, mi fa un po’ paura, mamma!! Mi porterà via da te perché a volte ti faccio i dispetti?”,  implorai disperata.
  • “Non dire stupidaggini, Melissa!! Sta zitta e ascolta!” - replicò duramente lei.
La mamma mi strinse la mano con una intensità che mai avrei dimenticato, mi teneva ferma vicino a sé, soffocai il lamento del dolore che mi stava procurando ed impaurita cercai di guardare di fronte a me. Il prete raccontava di un episodio descritto nel Vecchio Testamento, di un ragazzino di nome Giuseppe che veniva tradito dai suoi fratelli e venduto come schiavo. Mentre cercavo di restare concentrata sul brano descritto, pensavo a quanto coraggio fosse necessario per dei parenti a te così stretti per comportarsi in quel modo. Vendere un proprio fratello era impensabile per me. Un brivido mi attraversò la schiena e rimasi disgustata da quell’atteggiamento.
Ripensandoci, ora, lo stesso brivido mi pervase, ma la mia mente era rivolta ad immaginare a cosa stesse pensando mia madre durante quel racconto, se fu proprio in quel momento che avesse deciso di “vendermi” in cambio della sua libertà o se fosse stato solo il destino a far si che Don Mauro parlasse proprio di quell’avvenimento. Forse il destino cercava di fermarla, ma lei ha voluto essere più forte di lui.
Ad interrompere quel flashback fu Don Mauro che, posando la sua mano sulla mia spalla in modo affettuoso, mi disse che si era fatto tardi e che era meglio se tornassi a casa. Ringraziai in modo affettuoso quell’amico ritrovato e gli promisi che sarei stata presente alla messa della domenica.
Arrivata a casa lanciai bruscamente borsa e chiavi sul divano e mentre mi dirigevo verso la mia camera, già avevo tolto quei fastidiosissimi tacchi e i miei piedi trovarono subito sollievo al contatto con il pavimento fresco. Decisi di concedermi un bagno rilassante con musica soft in sottofondo. Volevo regalarmi un momento speciale, così tornai in cucina ad aprire il pacco di un ordine di Bottega Verde che mi era arrivato proprio quella mattina. Nell’aria ci sarebbe stato un dolce profumo di vaniglia nera grazie alle nuove candele profumate. 
Sazia di emozioni, non mangiai nulla quella sera e mi avvolsi nelle lenzuola di cotone color rosa shock. Mi aspettavo una nottata tranquilla, ma cosi non fu. Forse per il forte stress emotivo della giornata, forse per la voglia improvvisa di patatine fritte, passai una nottata al quanto movimentata in dormiveglia dove rividi per un attimo lei. Ancora lei a distruggere la tranquillità che volevo ricreare dentro di me.
Non volevo crederci, sapevo di essere in un sogno. Poi sentii la sua mano, fredda, gelida, ruvida. Mentre la avvicinava a me, pensavo volesse accarezzarmi, darmi un po’ di affetto materno che tanto avevo desiderato in quegli anni. La mano si dirigeva ora verso il mio collo, senza esitazione, rapida e decisa. Premeva con decisione, il volto spento, gli occhi vitrei, privi di amore.
“Come può farmi questo!?”, pensai. “Lasciami!” – urlai, cercando di usare quel poco fiato che ormai mi era rimasto.
A malapena riuscivo a respirare, i capelli raccolti in un ciuffo ormai disfatto, intorcigliata alle lenzuola sgualcite. Suonò la sveglia. Era ora di andare a lavoro. Controvoglia e stanca ancor più di prima di andare a dormire, mi trascinai fuori dal letto per preparare la colazione.
Mangiai solo due fette biscottate e una tazza di latte e subito mi preparai per andare a lavoro. In auto pensai a quando anche io sarei diventata più forte, più sicura. Il tragitto durava all’incirca un quarto d’ora senza traffico e fortunatamente quella mattina non ce n’era. Passai quindi spedita anche davanti la chiesa di Don Mauro e già sapevo in me che non sarei andata alla messa della domenica. Non ero pronta. Non ancora.
 
 
 
 
   
 
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