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Autore: Part of the Masterplan    15/05/2014    0 recensioni
Se n’è andata per sempre, dall’altra parte del mondo. Mi ha lasciato qui, solo, senza i suoi capelli biondi, il suo accento mancuniano, i suoi rimproveri e l’odore di Benson così familiare.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Sally I was never happy.'
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“Puoi farla addormentare? Ho davvero bisogno di una doccia.” Meg distende le braccia verso di me porgendomi Anais, dolcemente avvolta in una copertina bianca, che mi fissa con gli occhioni azzurri spalancati. Annuisco, assecondandone il movimento e stringendola delicatamente a me, la sua pelle profuma di vaniglia e un risolino proviene dalle piccole labbra rosee socchiuse.
Meg mi passa una mano tra i capelli, appoggiando il viso sulla mia spalla “E’ sempre più bella.” Commenta in modo pacato.
“Già.” sorrido “Vai a riposarti, ci penso io ad Anais.”
Le bacio la fronte e, dopo essersi fermata ancora un attimo ad osservare nostra figlia, si allontana verso le scale. Fuori il sole di marzo, ancora debole e freddo, illumina di una luce verdognola il paesaggio e cullando la piccola tra le braccia, accendo la radio regolandone il volume. La stazione della BBC sta passando i Chaka Demon and Pliers, in un moto di stizza mi lascio scappare un insulto per il quale mi scuso con mia figlia con lo sguardo. Cammino, avanti e indietro per la cucina, canticchiando melodie casuali, senza nessun collegamento tra loro senza che siano canzoni mie, sono solo il libero ragionare ad alta voce di uno che ha la musica in testa ogni ora di ogni giorno della sua vita. Anais è silenziosa, mi osserva con gli occhi socchiusi, a volte temo che possa capire cosa mi corre nel cervello.
E’ uno dei primi giorni dall’uscita dell’album che riesco a stare a casa con la mia famiglia, ma tra poco ci saranno grandi novità, suoneremo a Wembley, inizierà un nuovo tour, ho già metà delle canzoni pronte per il prossimo lavoro, forse riempirsi la vita di cose da fare bulimicamente aiuta.
Avrei sempre voluto una sorella più piccola. Guardando i capelli biondi della mia bambina, non posso fare a meno di ricordare quando un pomeriggio di parecchi anni fa ricevemmo una telefonata a casa, avevo quattro anni. Mia mamma rispose in maniera ansiosa ma allegra, come quando attendi una notizia impazientemente e non riesci a trattenerti. “E’ nata una bimba, Noel, andiamo a trovarla!” mi disse prendendomi per mano e passandomi il giubbottino di jeans, l’aveva già preparato sulla sedia vicino alla porta. Ricordo il dettaglio di quella mano snella ma forte che lo afferrava e me lo porgeva. Fuori, quel giorno, faceva caldo, non c’era una nuvola. Avevo il mio Action Man con me, per far vedere anche a lui chi fosse arrivato, come fosse quella bambina. Si chiamava Ben.
“Può essere mia sorella, mamma? Io voglio una sorellina.”
Sorrise, camminando spedita “Se lo vuoi, sarà come tua sorella.”
“E come si chiama?”
“Si chiama Sally.”
Sally, Sally. Quel nome non accennava a togliersi dalla mia testa. Era un bel nome, aveva una musicalità, un senso, che anche se non riuscivo a spiegare – e se non ci riesco adesso, non ce l’avrei fatta sicuramente a quattro anni – mi era chiarissimo. Quel nome, come se fosse l’unico nome capace di dirmi qualcosa, era quello della nuova creatura che sarebbe potuta essere come mia sorella.
In quella casa, che negli anni seguenti ho imparato a conoscere tanto bene da dormirci e intrufolarmici di nascosto a qualsiasi ora del giorno e della notte, c’era ancora un fottuto coglione stravaccato sul divano a guardare in un misto di timore e attrazione Lily che aveva tra le braccia quella piccola bimba dalla carnagione di porcellana. Aveva un vestito verde acqua che arrivava al ginocchio e guardava quella piccola creatura con tutto l’amore che gli occhi di un bambino di quattro anni avrebbero potuto cogliere. Me la porse, rimasi a guardarla, totalmente rapito mentre quegli occhi scuri mi fissavano, mi guardavano come se potessi dirle qualcosa, svelarle un segreto, farla ridere. Quelle due perle scure si aspettavano qualcosa da me, chiedevano e pretendevano tutto.
Non hanno mai smesso di farlo.
Più o meno un anno dopo nacque Liam e io proprio non lo volevo intorno. Mentre lui frignava tutta la notte e mia mamma non chiudeva occhio, e così anche io e Paul, pensavo al biondo di quei capelli, a come ci si infilava la luce, tra quei boccoli ribelli. Più passavano gli anni, più la vedevo crescere, anche se sempre un po’ a distanza a causa di quei quattro anni di differenza che, entrato nell’adolescenza, si fecero sentire. I problemi a scuola, quelli con nostro padre, le prime sbronze e il fatto che lei fosse legatissima a Liam. Loro erano davvero come fratello e sorella e ciò che più mi faceva incazzare è che l’unica che sarebbe potuta essere la sorella che non avevo mai avuto, lo era in realtà di un fratello che non avevo mai chiesto. Ci perdemmo per qualche tempo, ma capitava che lei venisse a casa nostra nel pomeriggio per studiare con mio fratello e io tornassi dal lavoro trovandoli a scambiarsi effusioni che mal sopportavo. Ero geloso di qualcosa che sentivo come estremamente vicino a me, nonostante in realtà fosse tutto solo nella mia mente. Il nostro punto d’incontro divenne presto la musica. I cd, i vinili, le cassette, i concerti a Manchester. Le birre che compravo io anche per lei, gli spinelli che condividevamo spesso in silenzio, non avevamo molto da dirci. Quegli occhi chiedevano sempre di più e lei era sempre più vera, viva, davanti a me. Donna.
Il fatto di vederla crescere con le sue debolezze ma soprattutto con i suoi punti di forza e di ragionarci su, come se fosse un processo che mi coinvolgeva, perché con quegli occhi pieni di determinazione lei aveva guardato solo me. Era sempre così, come se da me volesse di più. A me non chiedeva di passarle l’acqua durante i pranzi insieme, non domandava una sigaretta o non rimaneva a ridere sul ciglio della strada. No. A me chiedeva perché avevano ucciso Lennon, mi rubava le Benson quando mi addormentavo e si faceva accompagnare a Sifter per comprare i cd con i soldi che risparmiava meticolosamente. Quel pezzo di strada fatto insieme era sempre un po’ imbarazzante, un imbarazzo insicuro che arrossisce, perché non capivo che diamine pretendesse da me. Non ero mio fratello, ma cosa si aspettava davvero?
Nonostante i quattro anni di differenza e il fatto che lei fosse più piccola, riusciva sempre a far sentire la gravità del suo sguardo su di me, quello che con il passare del tempo si caricò di sensualità, di rabbia, di determinazione, di fiero orgoglio. Da quella bambina che mi tirava l’orlo della maglia perché ordinassi a Liam di smetterla di darle i pizzicotti, ora c’è una bellissima donna dal carattere multiforme, volubile. Eppure quei cazzo di occhi non sono mai cambiati. Vogliono di più, vogliono tutto.
Anais si è addormentata, ma la tengo tra le braccia ancora un po’, è come se mi rassicurasse averla qui e sapere di potermene prendere cura.
Vicino alla finestra, una copia di Rolling Stone America, un nome nel reparto dei fotografi che sembra inciso con il fuoco su quella pagina. Sally. Rimbomba nella orecchie come la prima volta.
Spike ha preparato per lei uno scatolone in cui ha messo di tutto, copie di giornali per cui ho fatto interviste che neanche ricordavo. Liam era eccitatissimo, autografava tutto quello che gli capitava a tiro scrivendole frasi sempre diverse, mentre fumavo una sigaretta appoggiato al muro.
“Non firmi niente, Noel?”
E’ bastato uno sguardo per far capire a tutti che avrebbero dovuto lasciarmi stare. Non si è nemmeno degnata di salutarmi, prima di andarsene. Andarsene per sempre, con un taglio netto per recidere tutto, cosa mi sarei dovuto aspettare.
Mia figlia ha due meravigliosi occhi azzurri. Sono belli, sono attenti, sono sempre alla ricerca di qualcosa. Ha anche dei capelli biondi che sembrano di seta, e più la guardo, più mi chiedo come sarebbe stato. Se fosse andato tutto diversamente, se non ci fossimo mai separati o se non ci fossimo mai avvicinati.
Mi va stretto tutto questo. Devo tornare su quel palco, sbronzarmi un po’.
Il nuovo fotografo è un ciccione del cazzo che cammina avanti e indietro, mi fa venire il mal di testa. Bastava rannicchiarsi in quella posizione un po’ isolata, stringere le spalle e scattare. Perché a lei non ci voleva così tanto?
Do un bacio sulla fronte di Anais che sospira lentamente, sento il suo corpicino muoversi al ritmo del respiro attraverso la coperta che poggia sui miei avambracci.
Lei non ha mai avuto un padre che la stringesse e le dicesse che le voleva bene davvero e l’avrebbe meritato. Eppure con le nostre famiglie un po’ disastrate, che quasi non sembravano famiglie, siamo cresciuti con l’amore di chi ti è accanto e soffre come te e nasconde i soprusi dietro gli occhiali da sole e un gintonic di troppo.
“Come dorme la nostra piccola.” Meg è tornata dalla doccia, mi chiedo quanto tempo io sia stato qui in piedi vicino alla finestra.
“Era stanca.” sorrido.
Mia moglie la prende dalle mie braccia annunciandomi di portarla nella culla per farla riposare in pace in camera da letto. Mentre si allontana, raggiungo il giornale, lo sfoglio dal fondo alla prima pagina, avidamente e velocemente, con rabbia. Una pagina plastificata mi taglia il polpastrello infidamente e mi sfugge un improperio a mezza voce.
Mentre porto l’indice alle labbra, il sapore ferreo del sangue si mischia con la vista di quel nome.
Rimbomba e sibila.
Sally.
  
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