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Autore: Vox animae    17/05/2014    0 recensioni
"Quando ero piccolo avevo paura di chiudere gli occhi. Non ne conoscevo il motivo, ma con il passare degli anni ho capito: avevo paura di riaprirli senza sapere ciò che vi avrei trovato."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Quando ero piccolo avevo paura di chiudere gli occhi. Non ne conoscevo il motivo, ma con il passare degli anni ho capito: avevo paura di riaprirli senza sapere ciò che vi avrei trovato."
Camminavo tra i palazzi vestiti di notte e i lampioni di stelle. Non ci ero mai riuscito: camminare… per una vita avevo corso, pensando di fare la cosa giusta, ma continuando a fare in realtà solo quello che la mia mente mi imponeva, schiavo della razionalità. La mia ombra era la mia compagna, l’unica che in una vita ormai al termine continuava a cullarmi nella sua realtà di illusioni e che, come un fantasma, riempiva il vuoto del mio Io.  
Credenze fragili, amori fuggevoli: avevo creduto di poter sostenere il mondo per anni, creduto di essere il presente, senza essere mai in grado di capire veramente fino in fondo chi ero.
 Cocci di un passato ormai sbiadito in bilico sul baratro dell’oblio.
Le paludi si avvicinavano, la brezza soffiava, spazzando figure vaghe, un tempo forse uomini e donne, adesso privi di paure e dolori, diventati finalmente quello che nella vita avevano voluto essere, tutto. Esseri privi di razionalità, di sentimenti, uomini impensabili e impensati: dopo una mediocre e lunga scalata alla fine ce l’avevano fatta. Sospirai. L’indifferente Mosca iniziava ora a brillare, le palpebre ancora velate di sonno, sotto i miei occhi stupiti. Rimasi ad osservarla immobile per qualche istante e come per incanto la città cambiò forma, vestendosi del canto pigro degli uccelli che si levava dai parchi ingrigiti ritagliati tra le mura dei grandi palazzi squadrati.
Distolsi lo sguardo. Sotto i miei piedi i sassi si contorcevano come serpenti, annodati in un groviglio di strade e di vite che era la città stessa.
Salivo. Dovevo farlo. Non avevo scelta.
Avevo uno strano malessere quel giorno. Non era la prima volta, ma quel giorno c’era qualcosa di diverso in me, che sulle prime non riuscii a cogliere. Nonostante ciò entrai timidamente nell’imperiosa sala dei congressi, incurante della pioggia di parole che mi accolse.
«Azione-» la voce del dottor Torme si alzò di qualche ottava per attirare l’attenzione dell’uditorio, «…e reazione!» La mano destra dell’uomo cozzò fragorosamente contro la cattedra facendo calare il silenzio nell’aula.
 «Questo è il principio per cui una società può essere eterna e con cui si possono annullare i tre maggiori difetti dell’uomo: l’ignoranza del potere e la necessità di una gerarchia, l’influenza dei sentimenti e il dominio del più forte.»
A quel punto una voce si levò, tremante, a rompere il silenzio lasciato dalle ultime parole del dottor Torme: «mi scusi, ma se raggiungesse la perfezione, l’uomo non avrebbe più ambizione di vivere…»
La risposta dell’uomo non si fece attendere:
«vedi ragazzo, se l’uomo eliminasse i tre pilastri del problema diventerebbe una macchina pensante in empatia con gli altri e vivrebbe nel desiderio di produrre».
«Se a guidarci fosse veramente un autentico senso della gerarchia allora il più forte, l’unico degno di affermare le proprie idee sulla società, ti direbbe che il motivo per cui oggi siamo riuniti qui e per cui tutti noi siamo chiamati ad agire ci impone che …»
Uscii dall’aula, d’un tratto la mia mente si era come svuotata. Tremavo, il vento sembrava spazzarmi le ossa, il freddo trapanarmi il cervello. Fuggire. Fuggire. Fuggire. Tutto voleva fuggire. L’anima dal corpo, la ragione dalla coscienza, le ossa dai muscoli, la vita dal suo senso.
Avevo paura. Inesorabile, fedele terrore mi scorreva nelle vene.  Ero inebriato da quel volto e allo stesso tempo avvelenato dalla sensazione che la paura mi trasmetteva.  Dovevo adempire al mio compito, inculcare la perfezione nelle fragili e disorientate menti che mi sarebbero state affidate ma non volevo. Ero vivo. La paura mi strappava il cuore dal petto e l’adrenalina tendeva uno ad uno i miei muscoli come corde ed io ero vivo. Vivo grazie allo stesso sentimento che ora mi veniva ordinato di sopprimere, di uccidere, di trucidare nella razionalità.
Il plenilunio arrivò inesorabile. Capire, capire, capire. Imparare a comprendere per voler poi dimenticare. Avevo sacrificato una vita intera con il solo desiderio di riuscire ad assaporare l’essenza del mio esistere, di avere la certezza di essere. E ora che avevo finalmente raggiunto quella certezza, ora che la vita mi scorreva nuovamente nelle vene, dovevo rifiutarla. La paura giaceva in piedi nella stanza vuota, una figura scarna, con gli occhi spalancati, folli. Mi osservava. Non sapevo chi era eppure non mi era estranea. La odiavo? No.  Ma la dovevo odiare, punto. Si faceva odiare, punto. Ecco cos’era, una bestia da odiare, una bestia degna solo di ricevere pietà, un animale da far soffrire e da lasciar vivere solo per divertire un pubblico assente.
Stavo affogando nelle mie lacrime, che inesorabili mi rigavano il viso, e il mio sguardo era incatenato al tavolo, a quelle perfette e luccicanti pastiglie, dai colori decisi e marcati, a cui era legata una scelta, un rischio, una paura, un’incertezza. Io avevo vissuto e potevo ancora vivere sul ciglio di un bivio, sul margine indefinito di un’incertezza. Per questo non volevo scegliere. Paura, chi l’avrebbe mai detto che la mia stessa umanità sarebbe dipesa da un’unica emozione, tra tante la più odiata e apparentemente futile?
Avanzai.
L’aria ruggiva di un vuoto opprimente, la realtà si sfaldava come tessuto epiteliale sotto i miei passi, centimetro dopo  centimetro, attimo dopo attimo. La mia prigione mi seguiva, la mia prigione era dovunque. Tempo e spazio, amore e odio: presto sarei stato in grado di piegare le sbarre di quella cella. La mia ultima battaglia, quella contro l’imperfezione della mia umanità, l’avrei vinta. Dovevo farlo. Gli occhi si chiusero, il corpo si fece immobile, gelato, inerme.
«Azione. Reazione.»
Ero seduto nella sala, le pareti lucide come specchi, la voce di Torme riecheggiante nelle orecchie. Ero nella sala e la figura tremante del mio compagno non smetteva di alzarsi e di obiettare.  Avevo le labbra umide, il volto umido, le dita annodate come le strade di Mosca, e gli scalini salivano, salivano davanti ai miei occhi. E il mio compagno obiettava. O forse ero io a obiettare?
«Azione. Reazione.»
Capivo e non obiettavo. O forse obiettavo perché capivo. O forse, forse avevo solo paura. Anche la voce tuonante di Torme tremava per la paura ora e Mosca bruciava. E la vita improvvisamente non aveva più senso perché gli scalini salivano, salivano mentre io volevo scendere. Scendere giù nel groviglio di persone, di sassi, di cuori, immergermi nel grigiore dei prati umidi di pioggia per ritrovare i colori della mia anima e piangere, piangere come un  bambino.
Ma i gradini salivano e con loro le mie gambe, e dai miei occhi vuoti i colori fuggivano in un tripudio di strida. E la voce di Torme gridava, gridava.
Aprii gli occhi.
Paura. Ripresi fiato come dopo un lungo istante di apnea. Un sogno. Sbattei più volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco gli oggetti che avevo intorno: una libreria, una finestra, un divano. Un ronzio fitto dalla stanza accanto mi annunciò che avevo dimenticato la televisione accesa. La giornalista al di là dello schermo mi rivolse un sorriso. Ricambiai.
«Detto questo la redazione augura a tutti una buona giornata!»
Un sogno, era stato tutto un banale, stupido sogno.
Al di là dei vetri il sole splendeva e i bambini ridevano, inseguendosi per il parco.
Guardai di nuovo lo schermo: l’inquietudine era sparita. Dannati incubi!
Afferrai il telecomando e spensi la televisione.
Non ero mai stato meglio in vita mia.
 
Note dell'autore: vorrei fare un ringraziamento speciale a Klara, la mia beta d'un giorno.
 
  
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