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Autore: Guardian1    29/07/2008    0 recensioni
[Completa, riveduta e corretta.]
Sono passati tredici anni dagli eventi di Final Fantasy IX, ed ecco che la vita di Eiko Carol viene stravolta di nuovo da un nemico creduto morto da tempo. Che cosa può fare una ragazza sola per cambiare le cose?
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Eiko Carol, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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NdA: la solita solfa la conoscete già; appartengono alla Square, non a me, e io sono una poverina che non sa quello che fa. E lo faccio perché è un sacco che volevo scrivere su Eiko, perché ammiro le piccole “donne” bambine che sanno esattamente quello che vogliono all’età di sei anni.

Divertitevi. Io di sicuro mi sono divertita a scriverla!





prologo
cattiveria trasferita



And death shall have no dominion.
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again;
Though lovers be lost love shall not;
And death shall have no dominion.


E la morte non avrà più dominio.

I morti nudi saranno una cosa

Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;

Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,

Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;

Benché impazziscano saranno sani di mente,

Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,

Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;

E la morte non avrà più dominio.


- dylan thomas (brano della poesia tradotto da ariodante marianni)



Per il mio decimo compleanno, papà mi regalò dei nastri per capelli e della cioccolata e un nuovo set di chiavi e la possibilità di guidare un’aeronave senza Erin al volante come copilota. Per il suo dodicesimo compleanno, Vivi ricevette una nidiata di bambini morti e ci lasciò con un piccolo biglietto molto gentile e se ne andò e si Fermò.

Perché?

Papà sembrò sapermelo spiegare meglio di tutti. « Mio piccolo amore, non accusarlo per il suo ragionamento. Se un giorno tornassi a casa e ti trovassi morta, e trovassi morta anche Hilda, e scoprissi che la mia intera città è diventata fredda e glaciale, come potrei continuare ad abitare da solo in questo mondo desolato? »

Per come la metteva lui, non potevo prendermela con Vivi per il suo comportamento. Non potevo rimproverare un ragazzino che aveva visto ogni altro singolo mago nero attorno a lui Fermarsi come un giocattolo a orologeria e che aveva lavorato così duramente per creare i suoi piccoli figlioletti, dei piccoli maghi – oh, Vivi, padre a nove anni! – solo per guardarli svanire, nuvole nei venti dissipatori. « Avresti preferito che vivesse così, tutto solo? » mi disse mia madre, dolcemente. No, mamma, no, non avrei mai voluto che fosse triste.

Ma non importa quanto poco volessi che Vivi soffrisse, questo non impedì ai rabbiosi fiumi di lacrime di scorrere sul mio cuscino, né attutì l’impetuoso lamento vulcanico che spaventava a tal punto i miei preziosi moguri che nessuno di loro riusciva mai a trovare il coraggio di entrare nella mia camera per cercare di placare i miei singhiozzi, e lo stesso valse per alcune domestiche, quando in una finale e violenta distruzione, il mio menar testate nella parete vi lasciò un buco dentro. Anche se eravamo stati separati per molti anni, non riuscivo a sopportare il velato tradimento del mio amico d’infanzia.

Cenere alla cenere…

Un mondo senza maghi neri. Niente più cappelli che andavano su e giù, niente più occhi lampeggianti luce artificiale, Vivi sparito per sempre. Ricordo ancora le mie lacrime salate sulla spalla di Gidan, e le sue sui miei capelli.

Polvere alla- nebbia alla nebbia, Vivi, così è più adeguato?

Forse mi dimenticai di lui l’anno seguente, o quello dopo ancora? Accesi puntualmente una candela per lui ad ogni suo compleanno. Trovammo- beh, non lo si può chiamare corpo, con i maghi neri non si è mai potuto parlare di nulla del genere, ma Gidan trovò il suo cappello, e lo mise su uno spaventapasseri all’entrata dell’orto caotico che erano le tombe di tutti quei tanti che si erano Fermati prima di lui. Vivi con i suoi figli e i suoi fratelli e… e mi dispiace tanto di essermene dimenticata.

Mi dispiace tantissimo. Tanto, tanto, tanto.

Ecco, come al solito anticipo le cose e ingarbuglio la matassa. Papà lo scrive alla fine di tutti i miei articoli che intende pubblicare nei giornali d’aeronave, i miei trattati sul cuore delle macchine.

Respiri profondi, donna. Puoi farcela. Dannazione, padre, avremmo dovuto controllare che fossero tutti morti.

Oh, Vivi. Avrei tanto voluto che tu fossi stato lì a vederlo.



« Eiko Hildegarde Carol! »

Mi paralizzai, un piede ancora a mezz’aria, nel tentativo di confondermi con il paesaggio. Una parte molto decorativa del paesaggio. Una parte del paesaggio che assomigliava terribilmente ad Eiko e che era unta di olio.

Ovviamente, il mio piano di mescolarmi con la tappezzeria fallì miseramente. « Sì, mamma? » chiesi, candida.

Mia madre mi squadrò dalla testa alle punte sudicie dei piedi, notando con lugubre perspicacia lo sporco depositato sotto le mie unghie, la macchia d’olio sulla mia guancia e i rumorosi stivali da lavoro ancora indosso. Lei invece era impeccabile, molto avanti con la sua cinquantina ma all’apparenza la stessa di quando aveva trent’anni; i capelli grigi erano l’unica cosa che testimoniasse la sua effettiva età. « Ho forse bisogno di domandarti perché mai non sei ancora pronta per il banchetto con il Ministro dell’Ingegneria e il Sindaco di Tolosa? »

« Viene Yucky? Grande » commentai con entusiasmo, nominando il mio amico Ministro.

« Devi proprio chiamare il ministro Yucata in quel modo? No, no, non mi interessa che l’altra volta lui abbia riso fino alle lacrime. Non rientra nell’etichetta. » Mia madre era affettuosa. Era premurosa, raffinata e gentile. Ma se veniva costretta a ricorrere ai famosi estremi rimedi era infernale, e tremo al pensiero di come dovesse essere quand’era una giovane maga rossa molto dotata. Lo dico a beneficio di ogni cittadino che si sia chiesto chi fosse veramente al potere dietro la Reggenza. « Hai ripreso a lavorare sulla tua aeronave? »

Chinai la testa. « Non ho fatto caso all’ora. Scusa. »

« Davvero, cara? » disse allegramente papà da dietro la spalla di mia madre, sistemandosi la cravatta e facendo immediatamente in modo che lei gliela strappasse di mano per raddrizzarla nuovamente. « Sei riuscita a mettere a posto il sistema di refrigerazione? »

« Il problema non è il sistema di refrigerazione in sé, padre, è il motore che è troppo potente e consuma troppo carburante in pochissimo tempo per poter essere conveniente da un punto di vista economico- »

« Al diavolo! Avremmo dovuto capirlo dall’inizio. Però, fintanto che la ricerca continua, noi- »

« Eiko. Vestiti. Ora » ordinò mia madre, uno scintillio d’acciaio negli occhi, e mentre uscivo di corsa dalla sala lasciando impronte d’olio al mio passaggio riuscii a sentirla borbottare: « Sangue o no, Cid, è figlia tua. »

« Avevi qualche dubbio? »

La mia risata risuonò per tutto il corridoio.



Questa è una storia su Vivi, e sull’eredità di Vivi, e sui figli di Vivi, e su di me, in minuscola parte.

E cominciò davvero quando avevo diciannove anni ed ero prossima ai venti, ero l’ingegnere-capo di tutti i prototipi di ricerca personali di mio padre e, per quanto riguardava i nomi stampati sui testi accademici, mi firmavo Eiko Fabool. Non c’erano state guerre per oltre dieci anni e i calli sulle dita me li ero procurati a furia di stringere attrezzi di ingegneria, non di magia. Magia bianca? Ero davvero fuori esercizio. L’evocazione? Ancora peggio, anche se pregavo Madein ogni notte della mia vita e tappavo le orecchie per avere qualche possibilità di sentirla bisbigliare nel mio cuore. Avevo passato la maggior parte della mia adolescenza con la testa sepolta tra grasso e diagrammi, mi legavo i capelli perché mi sfiorassero appena le spalle e non si infilassero nei congegni, sapevo quale forchetta usare quando mangiavo le pere di Alexandria e non ero più stata baciata dall’età di dieci anni. Ero felice e serena e mi incamminavo verso lo strapiombo.

È dura… adattarsi, come dicono. Sono cresciuta per i primi anni della mia vita con mio nonno in una pianura completamente selvaggia, e l’unica regola della mia infanzia è stata, e sono seria, “non farti ammazzare.” Amavo in modo selvatico e vivevo in modo altrettanto selvatico, e poi sono stata messa in questa enorme città dove la magia del futuro viveva nel rumore che facevano le tubature quando cigolavano nelle grandi aeronavi. Anni di pazienti insegnamenti del mio padre adottivo e dei suoi ministri ampliarono così tanto la mia mente che vi insidiai dentro il cielo e tutto ciò che lo solcava. Puoi sottrarre la ragazza alle rovine, ma puoi instillare la città nella ragazza?

… Ho un problema: giro intorno agli argomenti come un’aeronave guidata da mani inesperte vira aggressivamente nel cielo, senza mai ritornare alla pista principale. Lasciamo perdere-

Primo bacio? Volete sapere del mio primo bacio? Il mio primo bacio è stato di Gidan, ovviamente, il pre-principe consorte Gidan, un goffo, esuberante bacio a fior di labbra dopo il quale mi aveva sollevato per la collottola, mi aveva agitato un po’, e poi mi aveva intenerito chiedendomi cosa avrebbe pensato Daga se l’avesse visto baciare una ragazza così carina. Il mio primo bacio è stato con Vivi, e non era neanche sulla bocca: mi aveva riavviato i capelli dietro le orecchie e aveva strofinato nervosamente qualcosa che ricordava tanto un paio di labbra contro la mia fronte prima di cominciare a balbettare tanto forte da dare quasi l’impressione che degli yan gli stessero infestando la gola con i loro soffi di morte; ma qualsiasi cosa fosse stato, bruciava come fuoco sacro. Gli adulti lì intorno, ovviamente, si erano concessi un gran numero di “hmmm” e di “awww,” quasi fossimo due rari esemplari di scroccamao in amore. Chi si era accorto di quanto fossero diventate rosse le mie guance aveva probabilmente attribuito la cosa ai possibili germi di imbarazzo.

Ecco, quello è stato il mio primo bacio. O meglio. I BacI. Ma tanto solo uno dei due contava davvero.

Sarei stata io la reggente una volta che mio padre fosse morto o doveva essere eletto qualcun altro? Dopotutto, tradizionalmente, il successore avrebbe dovuto essere un Cid, ma mio padre era stato abbastanza inopportuno da non avere un figlio maschio- o un figlio in generale; io ero adottata ed ero l’unica. Non desideravo assolutamente diventare reggente, e non osavo nemmeno pensare che qualcuno mi avrebbe voluto come tale. Ero molte cose, ma non una leader, e avrei probabilmente portato rancore al titolo.

Hades, portavo già abbastanza rancore per essere una “principessa,” ora che ero venuta a conoscenza degli oneri che comportava.

« Non pensi che i tuoi capelli abbiano bisogno di una spazzolata? »

Mi fermai nel mezzo della mia spugnatura convulsiva, abbastanza a lungo da perdere il sapone ed iniziare ad annaspare freneticamente per riprenderlo. « Prima devo lavarmeli, i capelli. Grandi maledetti Dei lassù, assomiglio a una che è passata a forza attraverso il retro di un motore! » Me l’aveva detto una volta uno dei miei assistenti; deliziata, mi ero affezionata a quell’espressione.

Mogara, cui era stato rivolto questo commento, svolazzò con grazia verso la finestra, lasciandosi sfuggire un sommesso kupò di disapprovazione. « Hai dell’olio sulla fronte. »

« Si abbina al contesto. Ho dell’olio anche sulla schiena. »

« Tua madre andrà su tutte le furie. »

« È lei quella appassionata di vestiti, non io. Io non sono una gran bellezza. O una papera, se è per questo. » Strofinai con maggiore vigore; la mia piccola moguri aveva ragione riguardo all’olio. « Dici che devo portarmi gli occhiali da lettura? »

« Credi che il Ministro metterà in mezzo qualche progetto? »

« Non dovrebbe, ma so che muore dalla voglia di discutere dell’Excelsior con papà. Me li metterò nella tasca, così mamma non potrà rompere. »

« Ti creeranno un rigonfiamento, sai. »

« Oh, me li infilerò molto semplicemente sul davanti assieme al fazzoletto, così a mamma verrà letteralmente la bava alla bocca. » Afferrai la spugna gonfia e sfregai furiosamente, scoprendo presto un rosa poco attraente. « Perché Garnet non ha mai avuto di questi problemi? Accidenti! »

Non sono mai stata un individuo estremamente pulito. Questo non dipende da un odio viscerale per i bagni o i vestiti freschi di bucato, dato che mi capita spesso di sprofondare in una vasca e ignorare beatamente la realtà per tutto il tempo che mi pare. Ma già quand’ero una bambina della stazza di un dito mignolo, avevo la tendenza a impiastricciarmi la faccia con tutto quello che mi capitava sotto mano; adesso ero un’esile giovinetta ricoperta di olio e di grasso con una faccia cotta a vapore.

Com’è comprensibile, tutto ciò faceva meraviglie per la mia carnagione, e avevo delle guance perennemente arrossate, ma sono stata sempre magra invece che formosa, sebbene durante la pubertà mamma mi avesse fatto bere un bicchiere di latte ogni giorno nel vano tentativo di aiutarmi a riempire i vestiti nei punti giusti. Avevo smesso da tempo di formulare pensieri sul diventare bella, mi ero arresa, e avevo deciso di essere un’ingegnere piuttosto che una splendida principessa. Se mai mi fossi sposata, mio marito sarebbe stato un tizio tozzo con la vista brutta quanto la mia, che avrebbe potuto aiutarmi a leggere i miei piani di lavoro e si sarebbe occupato dei bambini quando io ne studiavo altri. Dei, come vanno strani i sogni.

« Farai tardi » mi sgridò Mogara. « E poi tua madre inveirà contro di te fin quando non verrà servito il pranzo e tossirà in maniera significativa non appena entrerai. »

Saltai in fretta e furia fuori dalla vasca e tracciai una scia di impronte bagnate mentre mi asciugavo, dimenticando volutamente un paio di sottovesti che non mi piacevano e pensando che Yucata non avrebbe notato la differenza. Sbattendo le alucce e sfoderando un’espressione impensabilmente ipercritica per un moguri, Mogara mi abbottonò il retro del vestito, dando nel frattempo voce alle sue preoccupazioni e cercando di pettinarmi mentre mi infilavo le scarpe. Ho avuto modo di scoprire che quando hai un corno da sciamana, non c’è da stare in pena su come diamine ti stanno i capelli: nessuno li noterà con quel palo piantato in testa.

Molti capelli tirati o staccati e diversi ansiti dopo, quando finalmente mi vidi nello specchio, sembravo… Beh, mi ero vestita in cinque minuti, ed ero troppo disgustosamente in ritardo per badarvi. Mi allacciai la parte frontale del vestito mentre correvo lungo il corridoio, con le guardie che cercavano il più possibile di non sembrare divertite, e fui costretta a tornare indietro perché mi ero completamente dimenticata gli occhiali, e li persi pure un’altra volta anche dopo essermeli messi sul naso; poi presi a correre così rapidamente verso la sala blu che superai quasi la velocità del suono.

Per arrivare, ovviamente, davanti una porta chiusa.

« Mamma- » cominciai, tetra, rivolgendomi alla guardia di servizio.

« Lady Hilda mi ha detto di riferirle che sarete convocata al banchetto una volta che il Granduca avrà finito i suoi discorsi, sua grazia » recitò quella, monotona.

Io sbottai in una parolaccia e pestai i piedi per terra. La guardia parve ipercritica quanto prima lo era stata Mogara, e così mi diressi furiosamente verso l’ascensore. Non sarei rimasta immobile nella mia stanza per la mezz’ora successiva mentre la mia moguri mi faceva una partaccia. Depressa e imbarazzata – perché doveva succedere sempre a me, ero quasi adulta che più non si poteva – sgattaiolai fuori.

Ad anni di distanza, mi chiedo ancora se sia stata una buona idea.



Ho sempre trovato molto arduo imbronciarmi quando ho la possibilità di guardare il traffico. La prima volta che approdai rispettabilmente a Lindblum per trasformarla nella mia casa dal momento che Garnet mi aveva fatto delicatamente notare che siccome io ero orfana e Cid e Hilda non avevano bambini forse potevamo aiutarci a vicenda visto che già andavamo d’accordo, Cid mi portò in cima al Gran Castello, perché era bellissimo e perché mi sentivo soffocata e nervosa e avevo nostalgia di casa (e facevo la ribelle per sopperire al tutto). La danza delle aeronavi mi scosse nell’anima – come potevano stare tutte in cielo nello stesso momento! – e da allora la amai, nel profondo. Con aria sognante mi riabbottonai frettolosamente le maniche fin sopra le braccia e scrutai il cielo, appoggiando la testa sulla fredda pietra della parete.

Dimenticai troppo presto il mio broncio vergognoso e mi persi nel fiordaliso di cristallo, nel lontano sapore di olio e nell’odore degli ingranaggi a vapore. Alla fine ero diventata una sognatrice, ma con tutta l’astuzia di quando avevo sei anni a tramutare i miei sogni in realtà. Questo aveva fatto di me un’ottima ingegnere.

Facevo la damigella, sapete, al matrimonio di Gidan, insieme a Vivi, anche se lo presi insensibilmente in giro per il fatto che pure lui era una damigella. Ero convinta che il mio cuore si stesse spezzando a vedere Gidan che si sposava, ma fu un evento troppo felice, e fu terribilmente difficile rimanere in quello stato di pura e angosciante infelicità. La regina Garnet, sposata a Gidan! Tutti conoscevano la loro storia d’amore da fiaba, e ora sarebbe stata suggellata con un grande “E vissero per sempre felici e contenti.” Tra cesti pieni di petali di rose che spuntavano ovunque, io e Vivi attraversammo a saltelli tutta la navata, io in rosa che cavalcavo la compiaciuta onda di approvazione per il fatto che ero assurdamente carina e lui in grigio che cercava di non inciampare nei suoi enormi piedoni. (E inciampò. Lo aiutai ad alzarsi e lo rimbrottai in un virulento bisbiglio, strattonandolo per il resto della sfilata. Daga, guidata da Cid, dopo ridacchiò praticamente per tutto il tempo.) E quella fu probabilmente l’ultima volta che lo vidi veramente vivo, ora che ci penso.

Persa nei miei sogni e nei fortissimi rumori che provenivano da ogni dove, quando arrivò la prima esplosione non me ne curai più di tanto. Nella città di Lindblum ci sono esplosioni di continuo, specialmente dalle fabbriche sperimentali.

Ma quando mi riscossi dalle mie fantasticherie e guardai a sud, il cielo era in fiamme.

Balzai in piedi, fissandolo stupidamente: un ruggito aveva sovrastato improvvisamente qualsiasi altro rumore perché un rottame, un cargo, era esploso e stava ora piovendo in forma di morte ardente sul terreno. Tutto il cielo si era tinto di rosso per le fiamme. Un edificio venne tagliato in due come se colpito frontalmente da un missile, invece di accartocciarsi su se stesso scoppiò, e schegge di ogni tipo si sparsero dappertutto-

E un’altra! Verso ovest, un’altra aeronave era stata ridotta in tanti piccoli pezzettini con un basso, lugubre, tonante boom; orrore su orrore, dolore su dolore, tormentato metallo fuso che si riversava come una cascata sulle grida che salivano dal basso. Ero fuori di me dalla paura e dalla rabbia. Non si trattava di ordinaria amministrazione; Lindblum era sotto attacco. Riuscii a sentire la magia, ad assaporare il suo sapore argentato sulla lingua, ed ecco che in un lampo, prima ancora di rendermi realmente conto di cosa stessi facendo, stavo rientrando di corsa nel castello con le sirene d’allarme nelle orecchie e il panico dilagante che mi circondava.

Non si fa saltare la gente di Eiko Carol nella città di Eiko Carol!

Regnava il caos anche dentro, e mi fu facile sgusciare nell’ascensore e digitare a pugni il codice segreto per raggiungere il ponte. (Certo che lo sapevo. Era praticamente il mio ponte.) Fui la prima a salire a bordo di una skimmer, le lustre e levigate mini-aereonavi che conoscevo a menadito perché grazie a Fenril le avevo progettate in larga parte da sola, e pigiai sull’acceleratore con tutta me stessa, sparandomi in cielo prima che si potesse dire wow.

Ripiegai la gonna fino alle ginocchia e me la spianai addosso, socchiudendo gli occhi in risposta al fumo denso e soffocante quando sentii il sapore del fuoco. Mi sentivo male per la rabbia, quasi fosse una malattia, e cercai disperatamente di richiamare i miei Eidolon – ma era come se ricevessi spiritualmente tutti pollici versi, e me ne diedi la colpa.

Altre esplosioni. Ora veniva preso di mira tutto, dal cielo agli edifici, al Gran Castello – oh, madre! – e mi concentrai sul flusso magico, oltrepassando il traffico e allontanandomi velocemente dalla zona più a rischio con una manovra che avrebbe reso Gidan fiero di me. Accelerai ancora di più, per dissipare il fumo, e poi lo vidi. E il mio cuore si congelò.

Dalla cima della torre di controllo vicino alle porte della città, appollaiata come un corvo, una sagoma solitaria sferruzzava magie con le mani che volteggiavano potenti e impetuose in direzione di Lindblum. Oh, ma non avevo già ascoltato molte racconti che me la descrivessero? Aveva un cappello, e dei rozzi vestiti neri, e due consunte ali d’ebano che spuntavano da dietro le spalle. Stava accadendo tutto troppo in fretta – mi vennero in mente le calde notti alla luce del fuoco che trascorsi inginocchiata davanti a Garnet, lieta di aver allontanato il suo pettine dai miei capelli, mentre Gidan, virtuoso narratore, ci parlava dei Valzer Neri. Ne esistevano tre, come i passi della danza, e assomigliavano a Vivi – ti ricordi, eh, Vivi? Gliel’abbiamo fatta vedere, ora non tremare – e agli altri maghi neri, solo che erano più… cattivi. Alti, e cenciosi, e molto morti.

Non potevo mica permettere che si portassero via Daga, insomma, no? Fa’ silenzio, ammasso di latta.


Allora chi era questo brivido dal passato, con tanto di enormi occhi d’oro e mani ammantate di pelle di drago? Le urla e l’inarrestabile demenza generate da quel… quel coso mi riportarono alla realtà, e puntando la skimmer contro di esso mi preparai a un ennesimo scatto. Quantomeno questo lo distrasse dai suoi incantesimi!

Perché non mi ero portata il Flauto d’Angelo? Almeno ora avrei potuto lanciargli un po’ di Sancta, e ridurre quel bastardo in dieci milioni di piccoli maghi neri. Stupida, stupida Eiko! Anticipa sempre tutto, perché no! Divenni improvvisamente ed enormemente conscia del pericolo in cui mi trovavo: fino a che non fosse arrivata la Guardia del Granduca, ero un’inerme maga bianca, nonché sciamana, che non aveva nemmeno il suo bastone e non riusciva a trovare le parole per Chiamare le sue evocazioni assopite. Disperata, suicida, accelerai comunque, i capelli che mi sferzavano il viso.

Pigramente, lui – perché nella mia testa era già un lui per il primordiale bisogno inconscio di catalogare qualsiasi cosa di rovinoso sempre sotto il genere maschile – discese dalla torre e si innalzò velocemente con qualche battito delle ali potenti opportunamente spiegate. Io virai così rapidamente che mi batterono i denti, e l’inseguimento iniziò.

Mi ero rammollita. Ero stata la bambina dalla pelle scura più povera e più abituata al deserto che fosse mai cresciuta a Madain Sari; mesi di avventure con Gidan a mangiare il cibo che mi preparavo da sola (bleah!) mi avevano rafforzato ulteriormente, ma ero stata indebolita da tredici anni di sontuosi pasti e di mamma, che mi aveva costretto a mangiare anche il più piccolo pezzettino di quello che mi veniva messo nel piatto ricordandomi di tutte le persone povere che morivano di fame. Essendo un’ingegnere, la freddezza non mi era ancora sfuggita dalle mani, ma per il fatto stesso che obbligavo il cervello a ragionare quando tutto attorno a me bruciava, io ero disarmata e il colpevole se la stava squagliando, mi sentii una smidollata. Credo che le uniche cose che mi sostennero in quei minuti fossero la mia collera e il mio odio.

Colta in fallo senza un’arma. Freija mi avrebbe giustamente tirato le orecchie se l’avesse saputo.

Lui frenò così rapidamente che lo superai, e mi costrinse a sterzare con tanta forza che vidi delle macchie rosse davanti agli occhi, le palme delle mani che diventavano scivolose per il sudore. Il fumo delle fiamme mi avrebbe raggiunto presto, e sarei morta soffocata; non m’importava. Non potevo far altro che fissarlo, lui e quei malevoli occhi d’oro, curvati a mezzaluna e completamente privi di emozione dietro quella maschera nera come il fumo. Si voltò per contemplare la città, precipitata nello scompiglio più totale, e poi tornò a me, come a dire: « Beh? Ti è piaciuta la mia opera? »

Io strillai tutta la mia frustrazione. « Bastardo, sei, sei un assassino, ti ucciderò oltre cento milioni di volte e ti farò desiderare di non essere mai nato! »

« Io esisto solo per uccidere. » recitò semplicemente. Aveva la voce profonda, un tono piatto, caldo e polveroso. Notai un paio di corna scure da diavolo sul suo cappello. Oh, ricordai, ricordai con un improvviso scroscio di chiarezza i vecchi maghi neri posseduti che seguivano Kuja senza avere alcun tipo di coscienza, e il semplice pragmatismo con cui uccidevano.

Non potevo morire. Nonno, Alexander, Vivi, non potevo.

« Ah sì » sbraitai, incapace di escogitare un appunto adeguatamente tagliente. « Allora avrai un assaggio della tua stessa medicina! »

« Io esisto solo per uccidere. » Continuò a librarsi lì, catturato dalla calda corrente ascensionale, e mi tese una mano quasi a volermi offrire qualcosa; una fiamma gli si formò tra le dita, rovente e ustionante, fino a nascondere completamente la mano nel vacillante nembo di magia. Riuscivo a sentire la magia che emanava in tacite onde, mentre il fumo si addensava e inquinava l’aria. Sembrava che non usasse la voce da anni. « Io sono giunto per distruggere. Io sono il castigo. Io esisto- »

Non continuò mai quella frase, dato che gli andai di nuovo addosso con la skimmer. Sentii il fragore distante e instabile della altre aeronavi che mio zio Oltania doveva aver schierato per arginare i danni. Ah. Sei fregato, ragazzo mio. Non poteva assolutamente andare più veloce delle macchine – non con delle semplici ali.

Il mago parve pensare lui la stessa cosa e improvvisamente schizzò – su! Nella più stupida, impulsiva e sconsiderata reazione della mia vita, premetti di nuovo l’acceleratore a rotta di collo, e quando gli fui abbastanza vicina mi gettai addosso a lui.

Eravamo in alto, sopra la città.

Tremendamente in alto.

Non volavo da anni, e non avevo neanche le ali di mio nonno, che si trovavano invece in fondo al mio armadio, riposte al sicuro e amorevolmente nella carta velina. Se fossi caduta, sarei diventata l’ingegnere più spiaccicata di questa parte del Fossil Roo. E rimanere lì sospesa era terribilmente complicato, visto che il mio obiettivo e appiglio si stava agitando e stava piroettando come un chocobo in calore che cercava di espellere il tafano azzeccato alla sua schiena, e cioè io.

Il mio veicolo si fermò, avendo installato l’autopilota nel momento in cui aveva perso il mio peso; con i muscoli della sua schiena che pompavano nel tentativo di aiutarlo a sbarazzarsi di me, affondai le unghie negli strati più superficiali dei suoi abiti. Tenevo molto alla mia pelle, ed entrambi salimmo a spirale sempre più su mentre lui dimenava le braccia e urlava; il mio intervento non gli impedì di lanciare magie, il suo incantesimo fu troppo rapido perché io potessi anche solo pensare a un Dispel, ed entrambi ci schiantammo a capofitto nel Portale che aveva fatto apparire sopra di noi. Tutto si fece nero.

Pessima mossa strategica da parte sua, senza contare che le signorine non si trattano affatto così!





Nota della traduttrice (Youffie, sì): hm, i beta-reader a questo capitolo sono stati tre (l’allora kar85, Frances e infine la_vale), per il semplice fatto che ogni tanto rileggevo, cambiavo tutto e dovevo risottoporla al giudizio di qualcuno :| Come anche la stesura della storia originale ha impiegato anni, sono secoli che sto traducendo Gently, perché non è per niente facile, ma nonostante tutto continuo a pensare che ne valga la pena. Anche se FFIX è una sezione così desolata. Anche se arriverò alla fine tra trecento anni o più. I miei bisnipoti la continueranno per me.
Però, ne vale la pena, dai.
Per le traduzioni delle poesie: solo riuscita a trovare una traduzione che mi soddisfacesse (o anche solo a trovarla – e a trovare il nome del traduttore che l'ha realizzata) solo nel caso di questo prologo. Il resto l'ho tradotto io, ma non aspettatevi chissà cosa: non so niente di metrica, non so niente di poesia, non so niente degli autori – e certe cose non si imparano da un giorno all’altro.
Alcune sono molto fedeli, altre, nel mio piccolo, ho provato ad interpretarle, pensando soprattutto alla storia e al capitolo a cui si riferivano. È solo e soltanto per dare un’idea generale a chi non è espertissimo di inglese.
Anche i titoli dei capitoli sono tradotti all'interno della storia, spesso in maniera abbastanza libera, pensando più alla musicalità che alla fedeltà letterale.
   
 
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