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Autore: Diacquaesangue    17/05/2014    0 recensioni
Un altro tempo è stato colonizzato dal nostro. Daniel, partito alla ricerca della verità sulla morte del fratello, rimane intrappolato in quella matassa di inganni, che non gli permettono di ripartire, e nemmeno di trovare la verità che stava cercando. Perso nella tela di menzogne tessute da qualcun altro, scoprirà che le certezze che aveva su sé stesso sono altrettanto labili dei contorni del tempo. Ma qual è il legame con la storia di Nathaniel? Qual'è il vero piano della Dea? Come è morto suo fratello?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte prima:

Anime sole

 

 

1
Quella dannata bandiera

 
 
 
 
Il Pellegrino
(Daniel)


È triste il grido di un'anima sola, eppure più disperata è la solitudine non compresa da altri. Steso nel grembo della camera oscura; camminando in quella stasi automatica di un cammino noto, che permette al pensiero di vagare, e di trovarsi a destinazione come non avendo intrapreso il viaggio; nella monotonia di attendere dietro la cassa di una libreria senza clienti; nell’imbarazzante silenzio della cena, quando nessuno non ha proprio nulla da dire, lo aveva raggiunto quel morso indistinto allo stomaco, ma prima con più costanza. Lo colpiva, senza preavviso, un’angoscia che non sapeva definire, di una causa ormai così implicita che non riusciva a decifrarla se non dopo avervi riflettuto a lungo. Gli capitava di pensare che in fondo tutti siamo soli, perché è impossibile conoscersi interamente.  Forse non conosciamo del tutto neanche noi stessi. Nessuno appartiene all'altro, e la distanza un giorno ci trasformerà in estranei. Estranei saranno gli amici, estranei i genitori, estranei persino i fratelli. Alla fine resterà in mano solo quella stupida polvere che chiamiamo anima, che si sgretolerà nel vento, per sempre.   
Aveva voglia di urlare: Cosa sta succedendo? Tornava a pizzicarlo quello stupido tarlo, il pungente disagio di sentirsi abbandonato, come quel giorno di sette anni fa, da quel giorno di sette anni fa, a dire il vero. Ma gli sembrava che nessuno percepisse la sua solitudine, no, che non passasse loro nemmeno per la mente di potersi riferire a lui con un tale attributo, l’aggettivo di “solo”: gli accomunavano subito l'identica figura di suo fratello.
Così simili, così diversi.
Tutti pensano che un gemello non sia mai solo, perché riceve il conforto del fratello, anche se distante. Che idiozia. Pensare di avere qualcuno di così simile, e allo stesso modo di così estraneo, non faceva che aumentare il percepire di quella mancanza. E adesso David era solo stupida polvere.
Ma cosa poteva capire quel soldato, che lo guardava con quella faccia da ebete, volendo mascherare comprensione, e non capendo nulla! Come avrebbe potuto consolarli una stupida bandiera, una medaglia al valore, pochi ricordi... ma poi, una medaglia per aver fatto cosa? Quegli stupidi soldati gli davano risposte così vaghe che non avrebbe saputo dirlo. Per cosa era morto suo fratello?
Era così confuso, nonostante quello che gli comunicavano fosse così lineare, da non riuscire a capire nemmeno per quale ragione i suoi pensieri si accatastassero così alla rinfusa. Che cosa significava tutto questo? David non era mai stato un patriota, chi mai avrebbe pensato sarebbe morto in guerra? Una guerra in cui non credeva… Ma in fondo cosa sapeva di lui? Così simili e così diversi. David, che lo aveva sempre odiato in fondo al suo cuore, perché la sua sola esistenza non gli permetteva di essere se stesso, solamente se stesso, perché non era mai lui, ma c'era sempre quel fastidioso “noi”, e quel “noi” adesso non c'era più… e avrebbe soltanto voluto strappare quella stupida bandiera. David, che sette anni prima era scappato da casa, senza un saluto, senza dir niente, quasi fosse un estraneo, ed era corso via nella notte non sapeva nemmeno con chi, per non tornare più se non come polvere grigia, una medaglia e quella stupida bandiera rossa del suo sangue.
Sua madre non era nemmeno in casa... cosa avrebbe dovuto dirle? E quei stupidi soldati che stavano sulla soglia e si aspettavano di essere invitati a entrare, entrare per cosa? Avrebbe dovuto offrire qualcosa da bere a questi uomini che gli portavano la notizia della morte di suo fratello? Oppure erano loro che offrivano una spalla su cui piangere? Beh, non l’avrebbe accettata. E non avrebbe accettato nemmeno quella bandiera come risposta alle sue domande. Col sangue che pulsava nelle tempie, la gola secca, gli occhi lucidi, li avrebbe comunque tenuti sulla porta, finché non gli avrebbero risposto, finché non avrebbe saputo cos’era successo a suo fratello. Li avrebbe tenuti sulla porta, ma la porta si oscurava…gli sembrava di vederla, tutta annebbiata, la polvere di David, che lo salutava. Bentornato fratellino, che torni da morto in questa casa che hai rigettato, da me che hai odiato, togliti dalla faccia quello stupido sorriso da soldato ebete, non lo sopporto.
Non poteva credere di stare svenendo, non avrebbe potuto nemmeno abbracciarlo e invitarlo come si deve a entrare.
 
Vestito di nero, guardava la lenta processione che trovava la sua meta nella bara. Gli piaceva vedere i volti della gente, la curiosità che quasi li avvolgeva quando si chinavano a guardare quello del morto, quell'ipocrita scuotere la testa, oh poverino, morto così giovane. E infine lo spavento quando, voltandosi, vedevano il morto nel suo volto. Così simili e così diversi. Stava seduto lì dietro, avendo quasi paura di affacciarsi dal bordo di legno scuro.
Sua madre, invece, aveva reagito meglio di quanto avesse pensato. Quando, tornando, aveva trovato i soldati in casa e lui pallido nel divano, quando ebbe ricevuto dalle loro ebeti facce la notizia, aveva pianto un poco, ma poi aveva accettato la sua morte così semplicemente, come se in fondo gli avesse detto addio anni prima.
Prima suo padre, poi David, scappati nella notte. E adesso stava fuggendo anche lui. Perché proprio non riusciva a capacitarsi di quella morte che a suo fratello non sembrava calzare in nessun modo. Sarebbe scomparso anche lui, nascosto dalla notte, con la valigia in mano, verso l'Iraq. Non sapeva come avrebbe reagito sua madre, scoprendo alla mattina un altro letto vuoto… ma lui doveva andare, doveva capire. Questo strano sentimento che lo spingeva lontano non l’aveva mai accarezzato in tutta la sua vita; si era sempre accontentato di ciò che veniva, come veniva, preferendo, quasi senza ammetterlo, vivere tranquillamente nella stessa cittadina in cui era cresciuto, piuttosto che allontanarsi nella vertigine. Al contrario, suo fratello… si bloccò un attimo, nel chiudere la zip della sua piccola valigia. Come se il tentativo di immedesimarsi per capire si fosse stirato in modo eccessivo, per un attimo, ma solo per un attimo, era come se avesse dimenticato chi era. Ma l’attimo passò, riprese a chiudere la zip, e chi l’avesse visto non avrebbe notato in lui nessun cambiamento.
Sì, doveva partire per l’Iraq e capire cosa fosse successo. Si sarebbe finto un giornalista, oppure… oppure si sarebbe direttamente presentato come David, magari non tutti sapevano che suo fratello era morto. Così sarebbe stato tutto più semplice, il suo volto gli avrebbe fatto da passaporto, e sarebbe potuto entrare dove anche lui era stato, conoscere chi aveva conosciuto, e vedere cosa aveva visto con i suoi stessi occhi. Solo così avrebbe potuto darsi pace.
 
«Dove stai andando?» gli chiese Suzanne, con un sospiro. Sapeva già che sarebbe successo, aspettava nascosta nell’ombra del pianerottolo, che anche il suo ultimo figlio scendesse le scale nel pieno della notte.
La guardò da sopra le scale, il volto pallido e quasi spaventato, non sapendo più cosa rispondere. Eppure aveva immaginato quella scena tante volte, sperando così, quasi dovesse recitare un copione, di ricordare le battute e trovare il coraggio. Per David era stato più semplice, Suzanne di certo non se lo aspettava, a lui era bastata una stupida lettera come spiegazione.
«D-devo farlo, lo sai» rispose.
«No Daniel, non devi fare niente!- disse, scoppiando tutta in un colpo- so cosa provi, lo capisco, ma non devi imitarlo per forza! Non devi imitare tuo fratello, solo perché è morto, lo capisci?».
Non aveva compreso. «Non lo faccio per imitarlo, mamma… lo faccio perché voglio capire».
«Capire che cosa?» adesso era basita.
«Perché è andato in guerra? Questo non è da lui… non era da lui. Che ci faceva David in Iraq?».
«Daniel…» Suzanne gli si rivolse come si sarebbe rivolta ad un bambino, quando si tenta di spiegare qualcosa di semplice: «tuo fratello è scomparso per cinque anni, come speri di capire cosa gli passasse per la testa? Era lunatico, avrà sentito che i soldati hanno un buono stipendio, questo è quanto…».
Le rivolse infuriato un: «Che cosa? Ma almeno ci credi a quello che stai dicendo?».
Suzanne lo guardò per alcuni istanti: «Almeno io non ho l’arroganza di credere di capire qualcuno che non conosco più».
« Era mio fratello, certo che lo comprendo!».
«Se davvero l’avessimo compreso, non se ne sarebbe andato mai via».
La guardò in silenzio, preso dal dubbio: forse, quell’atteggiarsi freddo al funerale…
«Non è…» cominciò a dire, ma qualcosa nel prevederla lo blocco al “colpa tua”. Lei comprese comunque, e gli disse a denti stretti: «Tu non lo puoi sapere, nessuno può… ormai è troppo tardi».
Era quasi convinto che il rimpianto l’avrebbe fatto fermare da un momento all’altro, quando l’abbracciò forte, mentre lei singhiozzava sulla spalla, tirandogli i capelli, ma, inaspettatamente, dopo averle dato un bacio sulla  guancia, riuscì ad oltrepassarla.
«Tornerò. Almeno io tornerò, te lo prometto» uscì da casa.
L’aria fredda, pungente, gli asciugò le calde lacrime sul cristallo degli occhi. Si allontanò, tentando di non voltarsi, sempre col timore di non farcela. Non doveva riflettere troppo, soltanto andare avanti come in un sogno, tentando di allontanare la nebbia bagnata che gli impediva la vista, e che era solo sui suoi occhi.
Intanto la luce cadenzata dei lampioni illuminava a tratti il taxi che aveva chiamato per andare all'aeroporto. Con sé aveva solo poche cose, non voleva restare fuori troppo a lungo. Se mai avesse avuto bisogno di qualcosa, l’avrebbe comprata sul posto. In fondo, l'Iraq non era fuori dal mondo.
 
 
*
 
 
Il Penitente
(Nathaniel)

 
È triste il grido di un’anima sola, ed io sono solo. Sono solo adesso. Perché nella fuga ho ritrovato la mia essenza. Guardo i lividi neri che macchiano le mie braccia, i graffi che solcano il petto ed il viso… echeggiano nella mente quei disperati scongiuri, e lui che alza le mani, che picchia mia madre. Quelle grida sono anche le mie. Cerco di farlo ragionare, quell’idiota, l’odiato patrigno che mia madre come niente ha portato in questa casa, per sostentarci, come dice lei; e invece lui la picchia, percuote entrambi, quando cerco di farlo ragionare, e quando poi arrivo disperato alle minacce.
Adesso sono solo, ma almeno non sono più disperato.
Alla fredda aria notturna, mentre corro, in spalla una borsa con poche cose prese a caso prima di scappare, nella mente riassaporo quei momenti che per altri sarebbero stati di disperazione. Ma io ho provato una strana gioia, quasi una catarsi. A quegli agnelli ho addossato tutti i miei mali, e me ne sono liberato. Ecco, lo scintillio del coltello alla chiara luce lunare, lo abbasso con forza sul carnefice di mia madre, una, due volte, strappo tutto quello che ho odiato dall’odiata vita di questo mondo, una, due, tre volte. Lo faccio con tanta veemenza che perdo la cognizione di ciò che sto facendo, e del perché. In lontananza sento mia madre che mi strattona vicina, che mi implora di smettere, che mi colpisce alla tempia, ma è inutile, io non capisco più niente. Sento solo che nel mio volto si è dipinta un’espressione estatica, solerte. Non mi importa più di niente, adesso sono io il carnefice.
È solo quando ormai di quell’uomo sento l’ultimo rantolo, l’ultimo spasimo di agonia, solo quando le sue orbite iniziano a fissare qualcosa di troppo distante perché anch’io possa vederlo, qualcosa che non è il tappeto, non sono le gambe del tavolo, solo allora rivolgo a mia madre uno sguardo sereno, nel comunicarle: «siamo salvi».
 Ma lei continua a gridare, mi chiama “mostro”, piange e si dimena, continua a darmi pugni, uno mi arriva all’orecchio: adesso non sento proprio più niente, se non il mio lento e calmo respiro. Non capisco, non riesco a capirla. Ripeto, inebetito dal colpo, credendo che forse lei non abbia capito:
 «Siamo salvi».
Mostro.
Lei piange, piange ancora, grida così tanto che riesco a sentirla nonostante l’orecchio mi ronzi e pulsi per il dolore, così forte che riesce adesso a fare innervosire pure me. Getto uno sguardo al morto che adesso giace calmo nel suo letto di sangue, mia madre me lo indica sbraitando: «Guarda che cos’hai fatto, mostro! Non sei altro che un mostro!».
Adesso ho paura. Non ho più paura del patrigno, ma di mia madre. Perché è stata lei a portarlo in questa casa, lei a sottostare ad ogni suo sopruso, lei a non gridare mai “basta”. Stringo più forte il coltello in mano, con rabbia, lei forse se n’accorge, perché smette di gridare, ma ancora trema e singhiozza.
Ho paura di te, perché sei una codarda.
Ecco, alzo di nuovo il coltello.
Adesso corro nella notte. Sono calmo, non ho più paura. Il mostro si è acquetato nella casa e dentro di me. Corro e sento soltanto la fredda brezza della notte che mi rende più lucido. Sorrido ad uno stupido pensiero: non so più il mostro chi sia, se loro, o me.
 
 
*
 
 
Il Condannato


 Muhammad fissa fuori dalla finestra e aspetta. Sa che stanno per arrivare, e che non potrà fare niente. Farà la fine di quelli che ficcano troppo il naso in affari che non gli riguardano; e loro sono sempre affamati di nuovo sangue, di vittime da sacrificare per i loro schifosi sacrifici. Quanti, quanti ha perso, che sono stati ammazzati da loro, proprio da loro che stanno arrivando, che stanno venendo a prenderlo, che verranno ad ammazzare pure lui. Il cuore gli batte sempre più forte, sempre di più, sembra scoppiare. Se almeno gli venisse un infarto, se puntasse la fredda pistola che tiene in mano alla tempia,  avrebbe almeno la soddisfazione di non cadere nelle loro mani, di andarsene di sua scelta… ma non ha il coraggio. Per scusarsi con sé stesso, si dice che almeno non se n’è andrà solo. Se ne porterà qualcuno con sé, qualche odiato compagno di viaggio verso l’inferno.
Ad un tratto il silenzio è rotto, è rotto da sospiri dietro la porta, da flebili movimenti quasi impercettibili, dal lento cigolio della maniglia. Muhammad sente tutto, l’adrenalina gli ha acuito i sensi, sente quei freddi respiri, quei sussurri. Poi la porta si apre. Entra un uomo, solo per cadere poco dopo: la paura ha preso il sopravvento, Muhammad spara esitante, contro il primo, contro il secondo. Poi il dolore alla gamba. Cade per terra, alza la testa verso il suo aggressore, che gli punta la pistola alla tempia. Se almeno l’avesse fatto lui poco prima. Chiude gli occhi, sospirando.
«Fermi, questo ci serve vivo» la roca voce di uno di quegli schifosi cavalieri.
«Almeno uccidetemi subito» implora.
«No, ti ho detto che ci servi vivo» l’uomo sogghignando si china verso di lui. Con il calcio della pistola gli accarezza la testa.
«Ma di sicuro non ci servi sveglio». Un forte dolore alla nuca, poi nulla.
   
 
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