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Autore: jawaadseyes1993    17/05/2014    3 recensioni
La baciò e in quel bacio c’erano tutti gli infiniti baci che per dieci anni erano andati sprecati, c’era tutto il tempo perso, tutto l’amore che avevano sempre provato, ma che non avevano mai avuto il coraggio di dirsi.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Coming back into you



 




"I don’t mind spending everyday, out on your corner in the pouring rain, look for the girl with the broken smile, asking her she wants to stay a while…”
 
Bradford era esattamente quella di dieci anni prima.
Tutto sembrava essere rimasto uguale, come se da quando lui se ne fosse andato il tempo avesse smesso di scorrere e tutto fosse rimasto fermo ad aspettare il suo ritorno.
Le case di mattoni rossi una addossata all’altra, l’immenso parco verde, il capolinea degli autobus, la chiesa e la scuola del quartiere, l’odore di smog misto a quello di erba appena tagliata e il profumo del pane appena sfornato dal panificio vicino al centro commerciale.
L’unico ad essere cambiato sembrava essere lui. Intendiamoci, era sempre il solito ragazzo magro e alto, i muscoli delle braccia appena accennati, gli infiniti tatuaggi a marchiare la pelle color caffèlatte, il ciuffo nero e la camminata sbilenca. Era sempre il piccolo ragazzo di Bradford, il bulletto delle elementari, il fighetto delle medie, il sogno di ogni ragazza alle  superiori.
Eppure c’era qualcosa di diverso, qualcosa che sembrava averlo segnato. E non si trattava della barba che metteva in risalto la mascella o dei capelli stranamente in disordine a cadergli sulla fronte. Erano gli occhi. Era il suo sguardo. Quegli occhi color cioccolato, profondi come una notte stellata, sembravano aver attraversato ogni angolo del dolore, sembravano aver conosciuto ogni aspetto dell’angoscia, sembravano aver percorso ogni sentiero della rabbia. E soprattutto, glielo si leggeva come se fosse scritto in grassetto a caratteri cubitali, avevano assaggiato il succo amaro della paura.
Se dieci anni prima qualcuno avesse chiesto a chiunque lo conoscesse, anche solo di vista o per sentito dire, di descrivere Zayn Malik in poche parole, la risposta sarebbe stata una sola. Zayn Malik non ha paura. Non ha paura di niente. Zayn Malik non sa nemmeno cosa sia la paura.
E allora chi era quell’uomo di ventinove anni fermo davanti alla ruota panoramica di Bradford? Di chi era quello sguardo pieno di tristezza? A chi apparteneva quel volto carico di timore che assomigliava così tanto al caro vecchio Zayn Malik di Granton Street, 12?
I piedi del moro giocavano con l’erba sotto la panchina, mentre i suoi occhi guardavano le coppie felici di genitori, figli, amici e fidanzati sulla ruota panoramica. Il vento scompigliava ancora di più il ciuffo disordinato sulla sua fronte e smuoveva la canottiera bianca troppo larga che lasciava intravedere i muscoli dell’addome con gli annessi tatuaggi a marcare ogni angolo del suo corpo. La canzone gli era venuta in mente non appena aveva messo di nuovo piede nella sua città e ora non riusciva a togliersela dalla testa. E non era di certo l’unica cosa che lo tormentava.
L’avrebbe rivista? Com’era diventata? Cosa faceva ora? Viveva ancora lì a Bradford? Era finalmente felice? Le domande che non avevano smesso di tormentarlo per tutti quegli anni si erano triplicate non appena era tornato in quel parco, sotto quella ruota panoramica di quella città, la sua città. La loro città.
Di tutte le cose stupide e insensate che aveva fatto nella sua vita, quella era l’unica che non era riuscito a perdonarsi, l’unica che non era riuscito a dimenticare.
 
 
 
 
 
 
  

“…And she will be loved, yeah she will be loved”
 
 
Di solito avrebbe cambiato immediatamente la canzone scelta dalla riproduzione casuale del suo Ipod, eppure in quel pomeriggio ventoso di maggio, in quel parco della sua città, chiuse gli occhi cullata da quelle parole che non sentiva ormai da troppo tempo e tutto sembrò tornare indietro, tutto sembrò ritornare a quella che per un breve periodo della sua vita era stata la normalità.
Con i capelli sciolti che andavano in tutte le direzioni, la ragazza prese un gran respiro e si decise a svoltare a destra, verso la via che portava alla grande ruota panoramica. Per quanto tempo aveva evitato di mettere piede in quella parte del parco? Magari poteva non ammetterlo a se stessa, ma lo sapeva benissimo. Sapeva esattamente quanti giorni, quante settimane e quanti anni erano passati da quando era stata sopra quella ruota per l’ultima volta e, a volte il destino si diverte davvero, quella volta coincideva esattamente con l’ultima volta in cui aveva ascoltato quella canzone. La sua canzone preferita tra l’altro.
Alzò gli occhi verso l’enorme struttura e sorrise vedendo tutte le coppie felici che si tenevano per mano o erano abbracciate a godersi il panorama della città da lassù. Incredibile pensare che una volta ci era salita anche lei su quella ruota, ancora più assurdo ricordare che un tempo si era sentita felice in quel modo anche lei. O almeno così credeva. Comunque, che lo fosse stata o meno, quella si avvicinava senza dubbio a tutto ciò che lei intendesse con la parola felicità.
 
 
“Abbie…”
 
 La voce profonda di un uomo. Si scosse dai suoi pensieri per capire chi aveva cercato di catturare la sua attenzione. Sapeva esattamente che la voce proveniva dalle sue spalle, eppure, per chissà quale assurdo motivo, non riusciva a voltarsi. Una tensione improvvisa si fece spazio dentro di lei senza che potesse capire cosa le stesse succedendo.
Sentì dei passi farsi sempre più vicini, la presenza di un altro essere umano a pochi centimetri dalle sue spalle. Si sentiva come soffocare, paradossalmente in trappola in uno spazio così ampio come un parco. E allo stesso tempo sentiva un’energia potentissima che legava il suo corpo a quello della persona sconosciuta dietro di lei; qualcosa a che fare con il magnetismo, come due poli negativi o positivi che si attraggono l’un l’altro, come due calamite incapaci di stare lontane neanche per pochi secondi.
 
 “Abbie…”
 
 Sempre la stessa voce e lei non riusciva a girarsi per darle un nome, per attribuirle un viso. Fece un bel respiro e si rese conto di avere paura di voltarsi. Ma paura di cosa? Di chi?
La voce era dura, il più lontano possibile da un suono dolce e rassicurante. Eppure aveva un qualcosa di famigliare, come se fosse cambiata, ma avesse conservato comunque in sé un po’ di quello che era stata prima.
Non poteva continuare quel silenzio agghiacciante.
Abbie si decise a voltarsi contro ogni particella del suo corpo che gli rendeva difficilissimo il compito che si era imposta.
Tutto quello che riuscì a vedere poi furono i suoi occhi. Il resto del parco sparì; i rumori, gli odori, le persone, gli alberi, le panchine. Niente di niente. Solo un paio di occhi così profondi da caderci dentro in un millesimo di secondo e non ritrovare più una via d’uscita.
Restarono così per un tempo interminabile. In piedi, fermi, senza dire una parola, senza l’ombra di un contatto fisico. Occhi dentro occhi.
Poi Abbie si decise a parlare.
 
“Zayn”
 
Fu tutto quello che riuscì a dire.
Lo guardò attentamente, spostando finalmente lo sguardo dai suoi occhi a tutto il corpo. Muscoli più definiti, tatuaggi più numerosi, capelli più disordinati, viso e sguardo più segnati.
Il moro allungò un braccio verso di lei che, spaventata, si ritrasse indietro. Lo guardò ancora una volta negli occhi, si rigirò velocemente e iniziò a correre. Verso dove non ne aveva la più pallida idea. Ma correva, senza fermarsi, correva per scappare da qualcosa più grande di lei, da qualcosa che non riusciva e non voleva affrontare.
 
 
 
 
 
  
Non l’avrebbe persa di vista. Non se la sarebbe lasciata sfuggire. Non un’altra volta. Sbagliando s’impara. Lui aveva sbagliato, ne era più che consapevole e aveva imparato. Non poteva lasciare andare via Abbie di nuovo. Non poteva permettersi di perderla ancora.
La canottiera era ormai madida di sudore e i polmoni, consumati dalle migliaia di sigarette, chiedevano pietà. Ma lui continuava a correre dietro di lei senza sapere dove la ragazza l’avrebbe portato. E poco gli importava a dirla tutta.
Era sempre lei, sempre la sua Abbie. Niente sembrava essere cambiato. I capelli lunghi e castani a caderle sulle spalle, gli occhi verdi segnati da un po’ di matita nera, il fisico minuscolo e la postura sbilenca. La sua piccola era lì davanti a lui e dopo dieci anni l’effetto che le aveva sempre fatto quando era al suo fianco non era scemato, anzi, era, se possibile, ancora più intenso.
La ragazza, sfinita, si fermò appoggiandosi con le mani al muro in un vicolo stretto. Zayn cercò di starle il più lontano possibile per lasciarle i suoi spazi e i suoi tempi. Cercava un contatto visivo con lei, come quello di poco prima nel parco, ma di alzare gli occhi Abbie non ne voleva sapere. Allora, dopo qualche minuto, provò a riavvicinarsi a lei. La reazione fu immediata quanto inaspettata. Abbie alzò lo sguardo di colpo, gli occhi stracolmi di lacrime pronte ad uscire. Gli si avvicinò e i muscoli di lui sembrarono rilassarsi un po’. Erano ormai a qualche centimetro di distanza, l’energia fra i due corpi era palpabile nell’aria, quando Abbie sferzò il primo colpo sull’addome durissimo di Zayn. Poi un altro e un altro ancora. Pugni, calci, graffi. E piangeva. Piangeva come non l’aveva mai vista piangere, come se non ci fosse più tempo per piangere e voleva finire tutte le lacrime, fino all’ultima goccia salata. I capelli sudati attaccati alla pelle bagnata. E lui se ne stava immobile, subiva ogni colpo, ogni ferita che ovviamente non gli lasciava molti segni sul corpo, ma fin troppi nel cuore. Sapeva di meritare tutto quello, comprendeva lo sfogo di Abbie e per questo stava fermo, in piedi davanti a lei che cercava di imprimergli quel dolore che lui aveva impresso a lei dieci anni prima.
I pugni iniziarono a farsi più deboli e distanziati l’uno dall’altro, fino a che Abbie non si lasciò cadere per terra, sfinita, con le gambe e le braccia a tremare per lo sforzo e le lacrime a rigarle le guance.
Zayn si inginocchiò di fronte a lei e la strinse fra le sue braccia. Abbie si abbandonò a lui, facendosi cullare. Era tutto così giusto, così come doveva essere che né l’uno né l’altra avrebbero voluto cambiare nulla di quel momento. Poi Zayn le prese il viso fra le mani e la costrinse a guardarlo negli occhi.
 
“Parlami” le sussurrò sulla bocca.
 
Abbie abbassò lo sguardo per poi riposarlo su di lui.
 
“Cosa vuoi da me, Zayn?” riuscì a dire con voce tremante.
“Te, Abbie. Voglio te”
“E te ne rendi conto ora?”
“E’ diverso. L’ho ammesso a me stesso ora, ma lo sapevo da sempre.”
“E cosa ti ha illuminato, sentiamo. La puttanella di turno ti ha piantato? Oppure sei tu ad esserti rotto i coglioni?”
“Abbie…”
 
La ragazza di alzò di nuovo e si allontanò da Zayn.
 
“Cosa, Zayn? Cosa? Ti rendi conto che per dieci cazzo di anni io non ho avuto idea di dove tu fossi? Di cosa tu stessi facendo? Non avevo idea di come stessi, non sapevo con chi stessi, non sapevo neanche se esistessi ancora. Lo capisci che sono impazzita? Lo capisci o no che hai fatto l’unica cosa che non dovevi fare? Ti eri rotto il cazzo di stare con una sedicenne piena di problemi? Ti eri scassato le palle di mantenere quella promessa? Di affrontare tutto insieme, qualsiasi cosa sarebbe successa? Me lo sputavi in faccia! E io avrei pianto, mi sarei disperata, avrei cercato di convincerti a stare con me e poi di convincere me a dimenticarti, me ne sarei fatta una ragione, mi sarei fatta una nuova vita! Porco cane Zayn, ci voleva tanto a dirmelo in faccia che non mi volevi più invece che sparire?”
 
Il senso di colpa Zayn se lo sentiva dentro le ossa, dentro i muscoli, ovunque. Ed era lo stesso senso di colpa che lo aveva logorato dentro durante gli anni in prigione, durante la riabilitazione e i mesi passati in America da suo padre.
 
“Faccio schifo. Sono una merda. Ho rovinato l’unica cosa a cui tenevo davvero, l’unica cosa di cui mi importava in questo schifo di mondo, in quello schifo che era la mia vita. E sono stato un codardo, un vigliacco perché non ti ho detto nulla. Non perché non ti ho detto che non ti volevo più perché quello non l’ho mai pensato, perché ti voglio come si vuole l’acqua quando si è assetati e il cibo quando si è affamati; sono un vigliacco perché non ho avuto il coraggio di venire da te e dirti che avevo paura. Avevo paura della prigione, avevo paura di me stesso e di quello che ero diventato per colpa dello spaccio e della droga, avevo paura di fidarmi di qualcuno quando mi é sempre stato insegnato a non fidarmi di nessuno in questo mondo. Avevo paura di amare, di amare così malsanamente una persona come amavo e amo te, Abbie. E mi vergognavo, mi vergogno. Di quello che ero, dell’esempio che davo a te, del fatto che non mi meritavo di starti accanto e rovinare la tua vita e invece tu continuavi a scegliere sempre e comunque me. Sei l’unica cosa bella di quel periodo di merda. Sei l’unica cosa bella in questo straccio di Universo.”
 
“La vita va avanti, Zayn. Le cose cambiano, le persone cambiano. Io ho sempre scelto te, ma tu non hai scelto me. E allora mi sono dovuta adattare, dopo dieci anni non sono potuta stare qui ferma ad aspettare te. Sei stato la luce della mia vita e il buio allo stesso tempo. Amare te mi ha consumata e una volta passato il dolore lancinante, una volta realizzato che tu non volevi me quanto io volevo te, sono andata avanti per me, mi sono rialzata per me.
Facile venire qui dieci anni dopo. Cosa ti aspettavi che sarei stata qui a braccia aperte in attesa del tuo ritorno? Che non avrei mai più amato un altro? Ho ventisei anni, Zayn, tu ne hai ventinove. E le cose cambiano.”
 
Abbie prese la sua tracolla da per terra e si asciugò le lacrime, decisa ad andarsene e non voltarsi mai più.
 
“Abbie ti prego non andartene.
Abbie ti amo, ho bisogno di te accanto a me. Scusami per tutto, so che non serve a niente, ma scusami. Ho bisogno che tu mi perdoni, Abbie. Ho bisogno che tu mi ami.”
 
Si limitò a scuotere la testa Abbie. E poi riprese a correre, sicura che se non fosse scappata subito non sarebbe riuscita ad andarsene una volta per tutte.
Zayn pianse. Pianse per un tempo interminabile. Poi si alzò da quel vicolo, se ne tornò nella sua vecchia casa, riprese lo zaino che aveva portato con sé dall’America pronto a ritornare lì da solo. Passò l’ultima volta sotto quella ruota panoramica dove aveva visto Abbie per la prima volta e dove avevano passato tanto di quel tempo insieme da non essere in grado di contarlo. E la vide, di nuovo, dall’altro lato della piazza che ospitava la ruota. La vide da lontano, consapevole che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto l’amore della sua vita. E ancora più consapevole che la colpa era solo ed esclusivamente sua.
Andò di corsa alla stazione per prendere il treno che l’avrebbe portato all’aeroporto, alla sua nuova vita. In attesa sulla banchina, con la solita canzone nelle orecchie e niente più cuore nel petto. Il treno arrivò veloce come Abbie se n’era andata via da lui.
Si girò un’ultima volta verso la vetrata per guardare la sua Bradford. Fu allora che la vide. Pensò di avere le allucinazioni. Poteva aspettarsi di tutto ormai. Eppure lei era lì. Ferma a qualche metro da lui, sulla sua stessa banchina. I capelli legati in una coda, la stessa canottiera azzurra di quella mattina. La vide correre verso di lui. Non riusciva a muoversi, sapeva che tutto quello non era vero quindi gli sembrava inutile correre e fare la figura dell’idiota in una stazione. Rimase fermo e girò lo sguardo. Le porte del treno si stavano chiudendo, l’avrebbe perso se non si fosse sbrigato.
Si girò per salire e un ammasso di capelli castani gli coprì interamente la faccia, mentre quel corpicino minuscolo che conosceva a memoria e di cui non aveva mai dimenticato neanche il più piccolo dettaglio si addossò forte e prepotente contro il suo.
La strinse a sé, ancora incerto se quello che stava accadendo fosse solo frutto della sua immaginazione.
Ma quando “Zayn resta. Zayn anche io ti amo. Non ho mai smesso di farlo e non ho mai smesso di avere bisogno di te accanto a me. Zayn, ti prego non andartene di nuovo” soffiò lei tutto di getto, capì che tutto quanto stava accadendo davvero. Che Abbie era davvero lì tra le sue braccia a supplicarlo di restare. Che Abbie era davvero lì accanto a lui a dirgli quanto lo amava.
La baciò e in quel bacio c’erano tutti gli infiniti baci che per dieci anni erano andati sprecati, c’era tutto il tempo perso, tutto l’amore che avevano sempre provato, ma che non avevano mai avuto il coraggio di dirsi. La baciò in modo da farle capire che quella volta non ci sarebbe cascato più, che quella volta non se la sarebbe più fatta scappare per nessuna ragione al mondo.







Saaaaalve (:
Non ci crederete, penserete di avere le allucinazioni, ma sono davvero tornata a scrivere su EFP.
Sono pessima perchè ho lasciato la mia long incompleta e mi scuso con tutte le povere anime belle che mi tartassano dicendomi di aggiornare, ma dovete prendervela davvero con questo liceo di merda. Non respiro più ormai. Fortunatamente sono gli ultimi sforzi e poi giuuuuuro *mano sul cuore* che recupererò il tempo perso. Wait for me, I'll be back *radio globo is da way*
Niente... questa qui l'ho scritta tutta di getto una notte che non riuscivo a prendere sonno ed è uscita così. Spero che vi piaccia e ringrazio in anticipo chiunque si trovi qui a leggere questo angolo autrice perchè vuol dire che ha dedicato del tempo alle mie parole. Ti amo, sappilo.
Mi farebbe tanto piacere sapere cosa ne pensate perchè non so se è uno schifo, un qualcosa che non lascia niente dentro o banale. Help me pleeeeease.
Byeee people

Sara. <3

 
  
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