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Autore: Brandibuck    19/05/2014    4 recensioni
Nico Di Angelo esce vincitore da una battaglia contro il cancro.
Percy Jackson comincia a combattere.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nico di Angelo, Percy Jackson
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Mi svegliavo la notte, in un mare di sudore.
Piccole meteore mi esplodevano nella testa, tossivo; mi rigiravo nel letto d'ospedale, cercando di far entrare aria nei polmoni, che sembravano atrofizzati.
Piangevo, perché l'infermiera era titubante ad inniettarmi qualcosa per far passare il dolore, perché stavo annegando e non potevo far niente se non farmi trascinare sul fondo.
Mamma mi passava una pezza bagnata sulla fronte, e mi diceva di continuare a combattere.
Spesso capita di sentir parlare di cancro, in particolare delle persone che con eroico coraggio combattono il loro male, col sorriso sulle labbra e il cuore colmo di fiducia cristiana.
Ma nessuno parla dei quindicenni che gridano, si dimenano e piangono chiedendo una morte che tarda ad arrivare, mandando a fanculo il coraggio e la fiducia cristiana.
Io non avevo nemmeno provato a combattere il cancro.
Non ne avevo la forza.
Forse è per questo che stavo così male?

Ma la morte non arrivò quella notte, e nemmeno quella seguente.
Perdevo i capelli, mi si confiavano gli arti e stavo sempre male per la chemioterapia.
C'erano dei giorni in cui sembrava che i miei polmoni prendessero fuoco, altri in cui dovevano imbottirmi di medicinali per sopportare il dolore.
Mamma mi stava sempre accanto, e cominciavo a chiedermi come faceva a dormire, ad andare in bagno o a fare qualsiasi altra cosa che non era aggirarsi in torno al mio letto controllandomi.
Certe volte veniva a farmi visita Bianca con mio padre.
La preoccupazione nei loro occhi mi faceva star male, ma sorridevo lo stesso.


Lo conobbi il giorno in cui il medico disse che il tumore era in regressione, che probabilmente non sarei morto e che non avrei perso nessuno dei due polmoni.
Un mese o due e sarei stato dimesso.
Forse.
Quel giorno mamma e io avevamo deciso di andare al gruppo di supporto genitori-figli tenuto da Padre Tracy; era una scocciatura andarci, ma almeno mamma poteva parlare con delle persone della sua età, magari trovare un'amica con la quale discutenere animamente di chemioterapie e cure alternative orientali.
Mentre mamma parlava con Padre Tracy, orgogliosa di riferire la bellissima ed eletrizzante notizia della mia quasi-guarigione, io sbocconcellavo un biscotto al cioccolato preso dal tavolo del buffet in fondo alla stanza.
E lo vidi.
Aveva gli occhi verdi, come l'oceano poco profondo. 
Durante la mia permanenza in ospedale avevo conosciuto parecchi ragazzi, ma non avevo mai notato se fossero belli o meno, troppo occupato com'ero a “combattere”. Lui era proprio bello.
Poco dopo avevo già scoperto che si chiamava Percy. 

“Allora...tu e Percy avete già...?”
“Ci rivolgiamo appena la parola, Bianca.”
Ero arrossito pesantemente e nascondevo il viso tra le mani, mentre Bianca rideva piano.
Si era messa in testa l'assurda idea che tra me e Percy ci potesse essere qualcosa. In fondo, avrei voluto che fosse la verità.

Passavo fin troppo tempo nella camera di Percy, a giocare ai videogiochi con lui e il suo amico Grover.
“Sai cosa c'è che non va, Nico?” mi disse un giorno, dopo che Grover se ne fu andato.
“Mh no. Cosa?”
“Noi siamo qui, ma il mondo non si ferma. Abbiamo smesso di vivere. Siamo già morti.” 
Ho avuto pauro che ci fosse qualcosa che non andava.
Ma, in fondo, aveva il cancro. Avevamo il cancro. Tutto non andava.
“Non siamo morti. E' più come essere bloccati nel tempo. Tutto cambia ma tu no. Mh?” risposi incerto.
Lui mi guardò e sorrise, il suo sorriso sciocco, da bambino.
Lo avrei baciato.

Il medico consegnò le analisi a mia madre, sorridendo con sincerità.
Ero guarito.
Bianca soffocò un singhiozzo, e mia mamma si rimise a piangere. Piangeva con facilità, ora che non doveva più fingersi forte per tutti e due.
Non vedeva l'ora di telefonare a mio padre per dirglielo.
Era strano, dopo aver passato più di un anno a cercare di non morire per non ferire nessuno, sentirsi dire che era tutto finito.
Non sarei più annegato, non avrei più sofferto.
Immaginavo una vita dove andavo a scuola, mi facevo degli amici, dove uscivo la sera con Bianca e con Percy.
Percy.
Nella mia nuova vita c'era anche lui.

Ricordo una notte in ospedale, quando mamma si era concessa un'ora per andare a casa per controllare la situazione e io cominciavo ad avere problemi di respirazione; avevo avuto il terrore di morire in quel momento, solo, senza la presenza costante di mia mamma.
Non ci pensi a quanto sia confortante una persona accanto a te fino a quando quella non se ne va.
Fatto sta, che avevo paura di morire, e un'infermiera mi disse di non avere paura perché quando arriva veramente la fine la stanza si riempe di amici e parenti a trovarti.
Quando ritornai in ospedale per Percy, trovai la sua stanza piena dei suoi familiari. 
Mi avvicinai a lui e gli tenni la mano.
Non parlammo per tutto il giorno.

Incontrai Padre Tracy, una sera.
Fumava una sigaretta, e si nascondeva il viso nel bavero del giubbetto; lo salutai con un cenno della mano.
Lui mi guardò, e solo in quel momento notai quanto erano azzurri i suoi occhi. 
“Non si merita tutto questo, già?” 
Il mio cuore aveva preso a battere più velocemente.
“E' un bravo ragazzo, mh, già. Molto bravo.” aspirava il fumo e lo buttava fuori con una velocità tale che pensavo avrebbe finito la sigaretta in pochi secondi. “Le cose peggiori capitano alla persone migliori. Mi dispiace così tanto.”
“Parla di Percy?”
“Proprio un bravo ragazzo. Già.”
Mi chiesi se ci stava con la testa.
“Ma parla di Percy?”
Lui sospirò e mi guardò strano, serio.
Buttò il mozzicone della sigaretta a terra.
“Percy è solo un nome, Nico. Io non parlo di Percy. Io parlo di ciò che è.”
Se ne andò senza salutare.

“Come stai Percy?”
“Come se l'ultima briciola della mia dignità stesse cercando di uccidermi nel sonno. Tu?”
Aveva diciasette anni e la voce spezzata di chi aveva vissuto una lunga vita.
“Bene, grazie.” 
Percy aveva sorriso e mi aveva chiesto se volevo un cioccolatino. Ne aveva molti -regali di vari parenti- ma lui non poteva mangiarli: gli facevano venire la nausea.
Ne avevo mangiato uno ma aveva lo stesso sapore del cartone.


Pensavo di aver già toccato il fondo.
Ma mi sbagliavo.
Il fondo era più giù.
Provavo ad immaginarmi Percy come non esistente.
Come carne che marciva tre metri sotto terra.
Combattevo una guerra civile contro la mia coscienza.
Dovevo salvarlo.
L'avevo lasciato andare.
Avrei dovuto baciarlo.
Avevo sprecato l'occasione.
Si meritava più giorni di quelli che aveva vissuto.
Andavo a centottanta all'ora, in un illusione di velocità dovuta allo spostamento dell'asse terrestre dove l'impatto era la parte meno dolorosa.
  
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