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Autore: Horrorealumna    19/05/2014    3 recensioni
Senza un apparente motivo, ti ritrovi rinchiuso in una minuscola gabbia composta da ossa umane, insieme ad altre persone. E al tuo fianco, lo strano carceriere incappucciato, dal mantello nero come la notte, vaga senza darsi pace, uccidendo i suoi prigionieri, uno per uno.
Presto verrà il tuo turno.
C’è solo un modo per sfuggire da quella terribile situazione.
Uno strano diario parlante, appartenuto tempo prima ad un ragazzo non proprio comune e dalle straordinarie capacità, ti sfida: “Se riuscirai a leggermi fino alla fine, potrò farti uscire da qui. Ma nessuno ci è mai riuscito. Cosa ti renderebbe così speciale?”
Soccombere al proprio destino o... ?
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter 1 – The Mother and the Child

 
  “La stanzetta era illuminata da una minuscola candela, tenuta in bilico dalle lunghe e affusolate dita di una giovane donna: i suoi capelli, biondi e lunghi, le cadevano dritti sulle spalle e sulla schiena, simili ad una cascata d’oro fuso, e gli occhi le brillavano di bontà e ancora di infantile tenerezza. Sarebbe potuta sembrare la figlia di un grande signore o di un re per via della sua strana e intrigante, quasi sovrannaturale, bellezza; ma il destino riservò per lei, Naacela di Orion, una normalissima famiglia, nella contea a nord del lago di Avalon, un luogo dove l’inverno portava neve e tormente senza fine e dove il sole era considerato una vera e propria benedizione; esso veniva venerato, soprattutto d'estate, come lo splendente Padre di quella terra fertile e selvaggia, signore del tempo e sposo della Natura, regina e sua vera e propria consorte, denominata semplicemente "Dea".
Quando Naacela era ancora una giovanissima ed inesperta ragazzina, appena entrata in contatto con le divinità di quella sacra terra come le sue compagne ed amiche, la sua famiglia riuscì ad accordarsi con i genitori di un bellissimo e benestante viziato ragazzo, affinché i due si sposassero al più presto, per motivi per lo più economici; si usava così e, allora, i due furono fatti maritare quasi subito, senza nemmeno essersi visti e senza preparazioni, con l’approvazione dei villaggi natali... e della Setta di Avalon, naturalmente, luogo dove lo sposo aveva passato quasi tutta l’adolescenza.
Avalon...
Entrare nella Setta di Avalon era segno di prestigio... quasi di nobiltà, di onore e di rispetto. I membri della Setta risiedevano proprio ai piedi della rocca, situata sul punto più alto di questa, dove l’isola di Avalon riusciva a far sognare i bambini e gli avventurieri mentre faceva morire d’invidia chi non poteva essere ammesso; gli affari della sua gilda, infatti, erano segreti e ben sorvegliati, così come l'ingresso stesso. Qualunque uomo o donna che non risiedesse su quell’isola, o che non vivesse sulle sponde del lago che circondava il luogo, non poteva avere un'idea precisa su cosa accadeva dietro quelle spesse mura bianche, che ardentemente nascondevano qualcosa di troppo grande per essere apertamente rivelato. Neanche Naacela ne era a conoscenza, essendo nata in aperta campagna ed avendo passato tutta la propria vita nei boschi insieme alle sue compagne di gioco e sorvegliata dai genitori.
Perciò, lei non poteva nemmeno immaginare l’aspetto del promesso sposo.
E il giorno delle nozze fu uno dei suoi più bei e strani giorni mai vissuti: quella mattina splendente di primavera, si trovò, quasi portata di peso, al cospetto del saggio del villaggio, coi piedi nella fresca e limpida acqua delle cascate di Orion, il sacro posto adibito per la cerimonia, e fu proprio là che i due fidanzati si videro per la prima volta. E l’aspetto del ragazzo la sconvolse: era più grande di lei, alto, muscoloso e dallo sguardo severo. Troppo maturo in viso, per la sua età, portava i capelli lunghi e scuri legati dietro il capo e indossava un lungo mantello blu-notte, dai ricami d’oro e d’argento che riflettevano la luce del sole, conferendogli, comunque, un aspetto quasi divino. E la giovane sposa non sfigurò di certo: apparve, quel giorno, bella come un angelo, una vera e propria visione dal paradiso nel suo vestito azzurro e giallo, di lino, il più prezioso che avesse mai portato, dono della ricca famiglia dello sposo, con fiori blu nei capelli.
In ogni caso, erano passati parecchi anni dal loro matrimonio e dalla loro unione. Come da tradizione, lui aveva detto addio alla sua casa, ad Avalon, col permesso dei funzionari della Setta, e lei aveva lasciato padre, madre e amiche, per trasferirsi in un altro villaggio, nella nuova casa coniugale. Abbandonò l’età dell’innocenza e presto si ritrovò al servizio del marito, come perfetta e giovane moglie; gli unici momenti in cui poteva godersi un po’ di pace e tranquillità erano quando, quasi una volta ogni mese, gli amici del ragazzo passavano per il villaggio e lo trascinavano via di casa per certe “battute di caccia” che lo tenevano lontano da casa per diverse settimane, per ritornare poi, ogni volta, sempre più consumato dalla fatica e dal vino.
La fredda aria invernale minacciò di spegnere la debole fiammella danzante, che vacillò creando strane ombre sul vestito della donna e sul suo bel viso. Anni prima, cercò di spegnere anche quella povera e innocente vita, pronta ad affacciarsi all’età adulta. Non aveva speranze: la conoscevano tutti come le ragazza straniera, la fanciulla dai capelli dorati come il sole, biondi come i frutti e i cereali che la sua lontana terra produceva, e che non sapeva cosa voleva dire patire il vero freddo, a volte completamente sola.
Là non conosceva nessuno. E passò anni nell’ombra dell'ignoranza e dell'infelicità, nel silenzio e nella solitudine.
Fu davvero sola... fino al giorno in cui scoprì di portare un bambino in grembo. Quando ebbe la certezza, infatti, che una nuova vita cresceva dentro di lei, ritrovò la gioia che credeva svanita tempo addietro e quella sua felicità le rifece sentire un calore che credeva di aver perso dopo il matrimonio e dopo il trasferimento a nord. Era l’arrivo della nuova primavera.
E non solo in lei: anche il suo compagno, quando ne venne a conoscenza, ringraziò gli dei e gli spiriti dei suoi padri, per poi sorridere, per la prima vera volta, alla sua sposa. Le sue battute di caccia divennero sempre meno frequenti e, a gravidanza inoltrata, insistette per portare la donna al villaggio dei suoi genitori. Furono i mesi più belli che avessero mai passato, da veri innamorati: cominciò un susseguirsi di viaggi, feste, regali per il pargolo e per la coppia, cene e notti di passioni, di danze felici e di brindisi.
Poi ritornò l’estate.
La stagione dei canti e dell’abbondanza.
E fu proprio durante una sera estiva che, di ritorno a casa da una passeggiata nel boschetto degli dei, luogo di culto e preghiera del loro villaggio, Naacela sentì dolere il ventre rigonfio e capì che il bambino era prossimo al nascere. Così, una volta avvertito il marito, venne presa in braccio e condotta velocemente al sicuro. Lui le stette vicino, sempre, dimostrando un amore che sembrava non potesse mai e poi mai appartenergli per natura. O per "lavoro".
In cuor suo, la donna aveva sempre sperato di dare alla luce una bambina: una graziosa bimba da educare alle buone maniere, all’intelligenza, alla bellezza, alla vanità e anche all’ingenuità, da coccolare e viziare come una principessina. Ma quando si trovò tra le braccia un maschietto dovette profondamente ricredersi. Suo figlio era piccolo e fragile, come tutti i bimbi nati d’estate. La boccuccia sdentata era quasi sempre aperta in un pianto disperato, ma incredibilmente dolce, e gli occhi brillavano come zaffiri alla luce delle candele. Erano i suoi stessi occhi. Azzurri come il cielo sereno di Orion e come l’acqua degli oceani lontani. Invece i capelli, raccolti in buffi e piccoli ricci erano castani e folti, come quelli di suo padre.
Fu sicuramente amore a prima vista, per entrambi i genitori.
Il bimbo sarebbe, penserete voi, cresciuto circondato d’amore e d’affetto... se solo quei tempi spensierati non fossero diventati solo un pallido ricordo del passato: la coppia si allontanò, lentamente e in silenzio, a causa di diverse incomprensioni e dal desiderio dell’uomo di ritornare ad Avalon, dai suoi amici e alla sua solita “caccia”.
E pochi anni dopo la nascita, a casa non era quasi mai presente, né per la compagna né per il figlio; ci avevano fatto l’abitudine, ma vederlo tornare, pochissime volte all’anno, fuori di sé, ubriaco o sporco di sangue, era orribile per tutti e due. Era diventato pericoloso persino starci vicino...
 
La candela tremò al respiro della donna, che fece qualche altro passo in avanti, per sedersi sul bordo di un lettino e sistemare le lenzuola bianche attorno ad un caldo corpicino.
- Madre... - sussurrò il bambino facendole cenno di avvicinarsi ancora un po' di più.
- Geoffrey... - le rispose lei, lisciandogli i capelli scuri - Stai piangendo?
La fonte di luce venne appoggiata per terra.
Geoffrey si mise seduto in fretta, dimenando i piedini per stare più comodo, e accennò un tenero ma falso sorriso:
- Sì... prima, sì - si lamentò lui, arricciando il naso e asciugandosi le guance.
Geoffrey.
Era stato suo marito a chiamarlo così. E a lei non poteva che andarle bene, visto che i nomi che aveva in mente, prima  della sua nascita, era solo femminili.
- Perché, piccolo mio? - le chiese lei dolcemente.
Per tutta risposta, il bambino puntò la finestra, accanto al suo letto, con un ditino:
- Ho sentito qualcuno urlare... e il castello continua a brillare.
Aveva ragione. Dalla sua finestra, Geoffrey aveva quasi l’intera vista del villaggio, dato che il minuscolo quartiere era posizionato su un dolce pendio; e ancora più in alto, spostando lo sguardo, nascosto dalle nuvole, il castello di Avalon risplendeva di luce propria, anche se lontanissimo, minuscolo e nascosto parzialmente da una strana foschia, oscurando la stessa luna. Era davvero distante dal posto, ma il suo bagliore sembrava raggiungere chiunque e rendeva impossibile non vederlo, sorpassando valli, città, boschi e castelli. Le pareti risplendevano, andando a colpire il viso del bambino, e proiettando su di lui una strana atmosfera.
Il castello degli orrori... la dimora degli spiriti... la tomba dei draghi... l'isola di Avalon...
Non erano nomi estranei ai bambini.
- Non riesco a dormire... la luce oggi è più forte delle altre notti - si giustificò lui infine.
Allora, Naacela lo accolse dolcemente tra le sue braccia, facendogli poggiare la testa contro il suo petto e cominciando ad oscillare... avanti ed indietro, proprio come faceva anni addietro per calmarlo e farlo dormire, giocando intanto coi suoi capelli:
- Neanche se ti racconto una storia? Quale ti piacerebbe sentire stanotte, mia stella? - cantilenò.
Stella. Il bimbo era abituato a sentirsi chiamare con dolci appellativi da sua madre; ma essere chiamato "piccola stella" era qualcosa che adorava più di qualunque altra cosa. Amava gli oggetti luccicanti, tutto ciò che brillava e non esitava nemmeno a giocare col fuoco delle candele: essere paragonato ad una stella doveva riempirlo di bellezza e chiarore, desiderio e infinità. Ecco perché, al suono di quelle ultime parole, Geoffrey, tirato su col naso, sembrò rilassarsi e pensare. Poi, ritornato alla realtà, scosse leggermente il capo. Conosceva un bel po’ di storie, tutte raccontate da sua madre: quella dei suoi genitori, quella di Avalon, quella della sua stessa nascita e dei suoi antenati, i miti e leggende sui saggi druidi...
- Non storie... - mormorò, inspirando il delicato odore di pulito di sua madre per poi tornare sui morbidi cuscini - E se mi cantassi qualcosa? Una bella canzone...
La donna rise debolmente a quella richiesta, tanto infantile e innocente.
- Una canzone... sull’isola di Avalon? Per dormire... e non pensare più a quella luce? - continuò il piccolo facendole gli occhioni dolci. Per quanto quel posto lo impaurisse, si sentiva stranamente legato a quello strano nome. E più cercava di non pensarci, più l’idea di quella città e di quella rocca luminosa si fissava nella sua mente.
- Ti piace tanto quel posto, eh? - rise piano lei, scuotendo i capelli d’oro.
- Sono solo curioso... - ammise Geoffrey.
Ci fu un ultimo sguardo tra loro, un’intesa carica di tenerezza e dolcezza. Poi la donna, prese a modificare una strana ed invitante nenia che aveva sentito da bambina, con parole dell’antica lingua di Avalon. La lingua che spesso suo marito usava per urlarle contro... una lingua all’apparenza gutturale, ma fatta di suoni lunghi e strascicati, dolce e misteriosa, di chiara influenza antica; alcuni anziani affermavano discendesse persino da una strana lingua lontana, morta e in disuso, chiamata "Latino". Ma quelle erano parole avvolte da una strana malinconia. Prolungò il suono delle vocali proprio come erano soliti gli antichi nelle loro preghiere e nei loro riti.
La comprendeva perfettamente: era tradizione conoscerla, almeno a grandi linee, e, alla base di una buona educazione, c’erano sempre alcune nozioni sul quella lingua. Persino Geoffrey riconobbe alcuni vocaboli, riuscendo a cogliere il senso della storia.
Naacela cantò di un uomo e del suo perduto amore, entrambi in viaggio verso Avalon, ma inconsapevolmente; la donna, vestita da uomo per scampare ai pregiudizi del popolo, superò molte prove e difficoltà, uccidendo fiere per il bene della Setta e del Regno intero, fino a perdere la testa e mettere innocenti in pericolo, assetata solo di sangue. Fu incaricato il suo vecchio amore di ucciderla e, quando la missione fu compiuta e il giovane riconobbe nel cadavere l’amata perduta da tempo, si tolse la vita ai suoi piedi ricongiungendosi a lei, nell'aldilà, mentre i loro corpi furono lasciati riposare sulle sponde dell'isola di Avalon, mano nella mano, indivisibili, e sorvegliati costantemente da un bellissimo e mansueto dragone.
Geoffrey ne rimase affascinato: delle volte lanciò persino piccole occhiate verso la finestra, verso la lontana Avalon, come se sperasse di veder passare i due sfrotunati amanti.
Una volta finito il canto, chiese piano alla madre:
- Secondo te, potrò mai entrare ad Avalon? Come mio padre?
Gli occhi fieri e profondi di lei persero quasi tutta la loro luce; si fece vicina al figlioletto, sfiorandogli la guancia:
- E perché vorresti entrare ad Avalon... ?
Ma prima che finisse la domanda, un soffio di gelido vento proveniente da una fessura della finestra, attraversò la stanza di Geoffrey spegnendo la candela e lasciandoli entrambi al buio.
Un secondo dopo, l’ambiente fu di nuovo illuminato. Il bambino aveva il palmo della mano destra aperto e sopra di esso ci danzava una piccola lingua di fuoco. Sorrise ammirato dalle sue stesse gesta e tese la mano alla madre; le illuminò il viso e le riportò un po' di calore.
Lei non aveva mai conosciuto la magia, al contrario di suo padre, che comunque non aveva mai provveduto ad insegnargliela. Suo marito, invece, ne era davvero un maestro.
Era per questo che lui era entrato ad Avalon. Quel posto era chiamato anche “l’isola degli Stregoni”. Lui era uno dei migliori, e spesso veniva reclutato per cacce al mostro, in boschi, foreste o deserti in tutto il Regno. Ci era entrato a far parte quando aveva solo undici anni. Sembrava proprio che Geoffrey avesse ereditato anche la bravura negli incantesimi da lui, oltre che i suoi ricci castani.
- Guarda, madre. Io posso - ridacchiò il bambino - Io posso!
- Geoffrey... - le sussurrò lei, prima di essere nuovamente interrotta dal suono della porta d’ingresso di casa.
Qualcuno era appena entrato.
- Aspettami qui - le ordinò la donna, uscendo di corsa dalla stanza; il suo lungo vestito bianco svolazzò un ultima volta nel buio, prima che chiudesse la porta, lasciando il piccolo da solo.
Quasi immediatamente orribili, delle urla colpirono le orecchie di Geoffrey, che spense la fiammella magica e si immobilizzò inorridito nel proprio letto, e con l’orecchio attento ad ogni singolo suono. Sentì la voce di un uomo: suo padre. Ma furono le urla di sua madre a costringerlo, tremante, a lasciare il proprio giaciglio e seguire i paurosi rumori. Camminò scalzo sul legno, muovendosi più veloce una volta arrivato alla porta.
Il trambusto lo condusse nella piccola stanza dove erano soliti pranzare e passare la giornata.
E lì trovò suo padre, coperto da una strana e pungente puzza, mista a profumo da donna, in piedi, che grugniva contro sua madre. Lei giaceva per terra, con un rivolo di sangue che le scendeva sul collo, ma ancora cosciente.
L’uomo non si accorse della presenza del figlio.
- Contenta che io sia tornato?! - urlò l’uomo all’indifesa, sorridendo come un pazzo - Non hai idea di cosa ho passato ad Avalon! E tu mi accogli in casa mia come se fossi un ladro, o peggio?!
Geoffrey era paralizzato. L’uomo era sicuramente ubriaco, a giudicare dai vestiti messi al contrario e dal mantello da viaggio strappato e coperto di strane piume.
- Sono debole... - riprese suo padre - E tu non mi capisci mai!
Le rivolse anche parecchi pesanti insulti.
- Vattene! VATTENE! - urlò la sua compagna, cercando di mettersi in piedi. Riferita a suo marito, o forse a suo figlio...
- Ah, io non me ne vado! - gli sputò lui addosso, riportandola a terra calpestandola col suo stivale sporco di fango - Sai solo stare dietro quel moccioso tutto il giorno! E tutti i giorni! NON PENSI PIU’ A ME!
Non era chiaramente in sé.
- Sono debole - riprese ancora più infuriato, portandosi la mano sinistra sull'avambraccio destro - HO bisogno di ENERGIE! Di potere. E ti sistemerò io. Oh sì! E poi penserò a quell'odioso... ragazzino...
Le assestò un forte calcio al petto, facendole perdere i sensi: ora era completamente alla sua mercé. Geoffrey vide suo padre, ridere come un pazzo e tendere il braccio destro verso il corpo privo di sensi della moglie. Strane scintille, rosse come il sangue, illuminarono la sua mano... scintille che arrivavano dritte dal cuore di sua madre, e che scomparivano con strani sibili nel palmo della mano dell'uomo, che sospirò, rilassato, continuando l’operazione, mentre il corpo della donna cominciò a contorcersi in preda ad una forza orribile.
Il bambino aveva paura. Temeva quello che stava per succedere. Perché sapeva perfettamente quello che suo padre stava compiendo: un "Sacrificio", l’unico modo per uno stregone di assorbire energia vitale e magia dal suo nemico. Era una pratica orribile, che mutava il braccio destro del mago, incenerendolo e striandolo di sangue. Il sacrificio di un'anima nemica era diffusissimo ad Avalon e Geoffrey ne aveva sempre sentito parlare. Ma là, in quel momento, dimenticò tutto e tutti. Vedeva solamente sua madre soffrire... sul punto di morire.
Ascoltò suo padre ridere un’ultima volta, prima di saltargli addosso e coprirgli gli occhi. Lo distrasse abbastanza da salvare l’anima di sua madre; una volta sulle spalle dell’uomo, che si dimenava come un pazzo, urlando a destra e manca maledizioni e parole incomprensibili, Geoffrey spinse forte i palmi delle sue mani sulle sue orbite, sentendo il gelo scorrergli nelle vene del braccio e poi... colpirlo.
L’uomo strillò di dolore e il piccolo si lasciò finalmente cadere, ammirando disgustato i due pezzi di ghiaccio che suo padre ora aveva al posto degli occhi.
Cieco e con lacrime di sangue sulle guance, suo padre cercava il figlio a tastoni, pronto ad afferrarlo e ucciderlo. Ma era inoffensivo e il bambino si sarebbe saputo difendere contro di lui.
Non ne provò pietà, nemmeno quando invocò a gran voce il suo nome:
- Geoffrey! Geoffrey!? Vieni qua! Geoffrey, avvicinati! Ora! GEOFFREY!
Ma il figlio, ignorandolo, si avvicinò al corpo della madre e le stette accanto, con le mani nelle sue, pregando gli dei che si risvegliasse. Invece, suo padre, non più capace di mettere a fuoco il bambino e la moglie, continuò a gemere e piagnucolare, trascinandosi verso l’uscita, verso la notte e il buio, urlando ancora il nome del suo piccolo aggressore: suo figlio, di quasi sei anni d’età, riuscito ad atterrare uno stregone molto più grande di lui.
 
Fu la prima volta, in vita mia, che usai la mia magia per ferire una delle persone a me più vicina, in balia di un lampo di pazzia. E’uno dei ricordi più dolorosi che conservo riguardo la mia infanzia. Potevo sapere cosa il destino e il futuro avevano in serbo per me, quella notte, accanto al gracile corpo di mia madre? Potevo solo immaginare quello che sarei diventato, anni dopo quell’evento?
Il futuro non posso predirlo.
E’ del passato che voglio raccontare.
E, cosa più importante, non voglio che tutto venga perso. Non voglio che la mia storia venga dimenticata; neanche io voglio... dimenticare tutto quello che ho passato sarebbe disastroso.
Ecco perché ho deciso di scrivere, su questo diario, la mia vita e continuerò a farlo, fino a quando la forza non mi abbandonerà e cadrò nella polvere come polvere, ritornando alla Dea, come tutti noi dovremo, un giorno o l'altro.
 
Lo dedico al me  del futuro... la bestia... ”           
 
 
Il diario si chiuse di scatto, proiettando un flebile bagliore di luce rossa in quell’opprimente oscurità. Le mani dell’uomo, prese da uno strano fremito, lasciarono cadere l’oggetto sulla sporca superficie dove lui aveva passato l’ultima settimana.
Era stato fatto prigioniero.
Ma non sapeva da chi.
O da cosa.
La gabbia di ossa umane e di carne putrida volteggiava nell’aria al peso del detenuto, agganciata ad un alto soffitto in pietra da una spessa catena di ferro arrugginito, accanto ad un sottile camminatoio in roccia, che collegava tutte le celle fra loro e che conduceva verso un’enorme grotta... attorno a lui, altri mille uomini, donne e persino bambini erano nelle sue stesse misere condizioni. E alcuni da più tempo di lui. Strani insetti grandi quanto una mano e topi dal muso insanguinato avevano preso quelle gabbie in simpatia e, restando in silenzio, li si poteva sentire muoversi a cibarsi di una carcassa o a stuzzicare qualche uomo malato.
Nessuno sapeva che razza di posto era quello. Nemmeno come avessero fatto a finire rinchiusi in una cella fatta di ossa umane.
Si lamentavano, urlavano, piangevano... e se cercavano di evadere venivano fermati e poi condotti, da strane figure massicce, incappucciate in nero, verso le sporgenze delle rocce e fatti cadere nell’oblio, oppure fatti sparire chissà dove. Le loro grida di terrore potevano essere capaci di portare chiunque all’orlo della sanità mentale.

 
Poco prima, uno di loro era stato prelevato dalla sua cella da due strane figure alte e scheletriche e condotto lontano, oltre strane lingue di fuoco. Implorare perdono per crimini mai commessi fu inutile e presto la figura tremante sparì nel buio, condotto nelle tenebre.
Sembrava di essere entrati all’inferno. O l’inferno aveva completamente inghiottito la terra?
- Hai visto che fine ha fatto quell’uomo? Posso assicurarti che adesso è lontano... lontanissimo, eh eh eh!
Il prigioniero balzò per la sorpresa: quella strana vocina, stridula e ambigua, sembrava essere molto vicina a lui, troppo, e per un momento pensò che si trattasse di quelle strane creature demoniache, simili a scheletri. Ma attorno a lui c’erano solo strani scarafaggi e teschi umani. Poteva essere... ?
E quando il suo sguardo cadde sul diario accanto alle sbarre della sua cella, rivestito in pelle e sporco di sangue e con un occhio sulla copertina, pensò di aver completamente perso il senno: i diari non parlano!
- Dico a te! Smettila di fissarmi in quel modo! Sono un libro, ma ho i miei standard!
Due grandi occhi deformi, simili a quelli dei serpenti, e una bocca piegata in un divertente ma strano sorriso, affiorarono sulla copertina del diario, squarciando la pelle logora, vecchia di tantissimi anni. L’uomo perse il controllo ed indietreggiò impaurito, fino a sbattere contro le sbarre della minuscola gabbia. Aveva trovato quell’oggetto proprio accanto alla sua cella e l’aveva raccolto, nella speranza che fosse cibo; e quando aveva scoperto che quello era tutt’altro che qualcosa di commestibile, ma un libro, aveva dato un’occhiata alle prime pagine.
- Piacere - si presentò il diario, contorcendosi in una strana smorfia, sfrontato e altezzoso nel tono di voce, chinandosi come per salutarlo - Probabilmente non mi conosci... ma io conosco te... e da un pezzo! Chiamami... Librom. E sono un libro. Il tuo nome invece non mi interessa. Ahahah!
La sua voce riecheggiò in quella desolazione, ma sembrava che nessun altro riuscisse ad udirlo.
Librom oscillò, quasi come se si stesse stiracchiando e poi riprese, al giovane allibito:
- Quell’uomo che hai visto scomparire nel buio... è stato l’ultimo che mi ha letto. Ma non fino in fondo. E guarda che fine ha fatto! Io sono il diario di quel giovane, di quel bambino di cui leggevi: il diario di un certo stregone. Sembra che io ti abbia scelto, visto che sembri abbastanza sveglio e in gamba... e non farmi pentire di ciò; sento che leggermi è il tuo destino. Sarai capace di farlo fino alla fine? Sappi che nessuno ci è mai riuscito. Sappi che io ho la risposta per uscire da questo inferno; ripongo in te la mia esistenza... perché se qualcuno di non molto amichevole sapesse cosa sto per dirti... sarebbero guai! Per te, naturalmente: nessuno sentirebbe la mancanza di un libro come me, ma penso sia meglio non rischiare. Dicevo: ero insieme a quell’uomo, nell’altra cella. Ma ha peccato di presunzione e non mi ha letto fino alla fine. E ha cercato di evadere. Che idiota: glielo avevo detto di non mettersi troppo in mostra, dato che le guardie non sembrano per niente amichevoli. Comunque, vedo che ti sei già dato da fare: hai letto parecchie prime pagine... e la dedica. Sei dotato di poteri magici, ragazzo?
Rimase zitto. Non aveva la benché minima idea di cosa stava succedendo. Né poteva fidarsi di uno strano libro parlante dalla voce acuta.
- Ragazzo, ti ho appena fatto una domanda, e gradirei una risposta: sei un mago o no? - insistette l’oggetto, riducendo gli occhi a due fessure e squadrandolo perplesso e parecchio annoiato - O il mio aspetto di turba così tanto da lasciarti senza parole? O vorresti saltare i convenevoli? Non stai sognando. E'. La. Realtà. Sono un libro che parla!
Ancora silenzio.
- Lo prendo per un “No, non sono un mago” - concluse Librom ridacchiando - Allora sarà meglio continuare. E ricorda bene: devi studiarmi fino alla fine, se ci tieni alla pelle.
E dopo un fruscio, il diario ritornò alla pagina che il prigioniero aveva letto per ultima.
Rilesse velocemente la dedica e voltò il foglio di pergamena...

 

 
 
   
 
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