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Autore: oursilentscream    20/05/2014    0 recensioni
''Jaaved, sorrideva. E in fondo, il suo nome, significava “vivere la vita”,e come puoi vivere, e non semplicemente sopravvivere, un’intera vita, su un marciapiede, senza un sorriso?''
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quei  cinquantanove centimetri di abete rosso riuscivano a racchiudere un mare immenso, quattro corde di maestosità, una cassa armonica così piccola e aggraziata, e allo stesso tempo così potente. Ogni singolo particolare, in quello strumento così infinitamente piccolo, nelle sue mani, diventava qualcosa di straordinariamente affascinante. E probabilmente, la magia non stava nello strumento, ma proprio in quelle sue mani meravigliose. Qualsiasi posizione esse assumessero, anche stessero appena sfiorando con l’arco in pernambuco le sottili corde del suo violino, non producevano le note che tutti conoscevano. No, non erano affatto semplici note musicali, quelle. Così come non erano terreni neanche i suoi componimenti, fermati su un pentagramma che quasi non era all’altezza di tanta emozione, di tanta fastosità, di tanta grandezza. Un palcoscenico, unicamente per lui. Migliaia e migliaia di persone sedute sugli spalti. File lunghe chilometri per l’acquisto dei biglietti, mesi e mesi prima di un concerto. E uno stadio, il più grande di ogni città, riservato unicamente per lui. E il silenzio, il silenzio più incondizionato, di fronte alle sue esibizioni ultraterrene. Esser riconosciuto, camminando lungo una strada di periferia, esser fermato. Autografi, fotografie. Donne innamorate delle sue mani in grado di creare musica mai sentita, suoni mai ascoltati. Che poi, anche a chiamarli suoni, era un peccato, rimbombava quasi come un’offesa, tali erano l’eleganza, il fascino, la sontuosità dei suoi spartiti. Questo, era quello che aveva sempre sognato. Quello che aveva sempre sognato e mai aveva ottenuto. Sembravano tutti ammirare la sua singolare maestria. Ma il suo palcoscenico non era che un misero marciapiede. I suoi spettatori erano migliaia, si, come aveva sempre desiderato, ma, di quelle migliaia, forse, giusto la metà aveva tempo da dedicare a lui. E nessuno comprava biglietti per ascoltarlo esplodere nelle note più incredibili a cui mai nessuno avesse avuto il privilegio di assistere. Tutto quello che riuscivano a fare, dopo interi minuti colmi di emozione, di passione, di eccitazione, armonia, commozione, equilibrio perfetto, stupore, successione eccezionale di  note soprannaturali, era lasciar scivolare, da quelle loro mani di media borghesia, qualche inutile moneta nella custodia di quello strumento magico. Di fronte a quell’uomo che magico era dir poco, forse, più semplicemente, veniva da chissà quale pianeta sconosciuto, lasciato a riposare in chissà quale angolo oscuro dell’universo. E ad ogni terribile stridulo emesso dalle monete, che finivano per vibrare una contro l’altra, Jaaved, sorrideva. E in fondo, il suo nome, significava “vivere la vita”,e come puoi vivere, e non semplicemente sopravvivere, un’intera vita, su un marciapiede, senza un sorriso? Sorrideva e nelle guance scavate dagli anni si intravedevano fossette più profonde di quelle di un bambino. Sorrideva tanto che gli zigomi si alzavano e sottolineavano notevolmente le rughe scure intorno a quei due meravigliosi occhi, indefinibilmente piccoli. E quei suoi capelli grigi, ma probabilmente neri, un tempo, come il petrolio, perfettamente in sintonia con il colore leggermente più chiaro della sua pelle, legati indietro. Le gambe incrociate. Quelle incantevoli mani, così grandi, intagliate dalla vecchiaia, o da un lavoro a cui un tempo era stato obbligato a dedicare del tempo. Un espressione, la sua, felice. Nonostante il vento. Nonostante le monete sufficienti a malapena per un caffè in un bar del centro. Nonostante la vecchiaia. Nonostante non fosse sul palcoscenico che avrebbe tanto desiderato. Nonostante nessuno chiedesse foto con lui. Nonostante nessuno avesse mai desiderato un autografo. Nonostante non ricevesse una parola che non fosse un insulto, da quando era arrivato. Nonostante tutto, quelle monete, tintinnanti nella custodia del suo violino, lo rendevano felice, gli davano una sicurezza e una voglia indefinita di continuare a fare ciò per cui sentiva di esser nato, fino all’esaurimento di ogni energia. Nonostante tutto, dunque, si, sorrideva. Sorridere, era un’altra cosa che sapeva fare davvero bene.  Quel sorriso immenso, vero, di cui erano indefiniti tanto il principio quanto la fine.  Quel sorriso invaso da un velo leggero, ma allo stesso tempo enormemente influente, di malinconia, tristezza, delusione. Ma non sorrideva per questo. Sorrideva perché quel rumore terrificante, che interrompeva le sue incredibili composizioni, gli garantiva che qualcuno fosse effettivamente stato li, ad ascoltare proprio lui. Gli garantiva che qualcuno, tra quelle migliaia di volti sconosciuti, aveva dedicato parte del proprio tempo alla sua musica. E ne era felice, ne era infinitamente felice. Che la felicità, in fondo, cos’è? Cos’è la felicità quando sei ormai un uomo, con più di sessant’anni sulle spalle, che ha passato tutta la vita lontano dal suo paese, seduto li, su quel marciapiede sporco, con il sole cocente, la pioggia straziante, la neve insopportabile sulla pelle. Ogni estate, ogni inverno, ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno, da più di sessant’anni? Cos’è la felicità, per un uomo che non ha mai visto il mare, che non ha mai visto la montagna, che non ha mai visto un prato, una collina, un fiore, il tramonto, un ballerino, una bella donna, una nuvola, un sorriso, un viso amico, un’ombra, o semplicemente il proprio violino. Cos’è la felicità per un uomo in cui la bellezza dei suoi infiniti occhi grigi, non ha mai potuto vedere altro, se non il buio? Cos’è la felicità, per un uomo che bambino, in fondo, nell’anima, non c’era mai stato, o forse, più semplicemente, non aveva mai smesso di esserlo? Cos’è la felicità per un uomo che non ha niente al di fuori di cinquantanove centimetri di legno di abete rosso e due mani spaventosamente incredibili, con cui crea e distrugge intere melodie, se non la consapevolezza che al mondo esista qualcuno che apprezzi quello che fa? Cos’è la felicità, se non un sorriso, per un uomo come lui?
 
  
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