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Autore: icor    31/07/2008    2 recensioni
“Ha importanza?” chiede lei a entrambi prima di baciarlo, con un’intimità circoscritta solo dal sapore pungente del sangue. Gli inonda la bocca ma non si ferma; è orribile, orribile ed è dura non tremare. Ma non si ferma; è veleno, mortale e freddo. E’ veleno, e ne vuole ancora. [dark Cloud/Aerith]
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Advent Children
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Note dell’autrice: secoli fa decisi di scrivere un, hm, tributo a tutte le migliaia di Aerith/Cloud sul ritorno in vita di lei che ci sono in giro. In realtà, e in un certo senso, questa fic si è trasformata in una storia sul post-resurrezione, ma il tema è tuttora presente. Ci ho messo un po’, ma sono abbastanza soddisfatta del risultato. Solo una cosa: non si tratta esattamente di una fanfiction allegra, sebbene abbia i suoi momenti di puro fluff. E’ lunghetta, ma mi farebbe molto piacere conoscere il vostro parere :)

Avvertenze: rating per sesso non grafico, consenso ambiguo, ossessione, sangue, disagio, inquietudine e fluff.

Nota della traduttrice (Youffie, doh): I have nothing to declare, but my beta-reader (Frannie, che tra l’altro di recente mi ha meravigliosamente riaperto il cuore alle Clorith <3). Anzi, no, qualcos’altro c’è: la fanfiction in origine è stata catalogata dall’autrice nei generi: “Tragedia/Romantico”, più che “Drammatico/Romantico”. Ma qui non c’era. Uomo avvisato… Ah, tradotta/mandata in ritardo per il compleanno di Etna *luv* E la posto anche qui perché ho visto che è un po’ il momento delle Clorith, e anche io volevo fare un piccolo ‘tributo’ alla coppia XD

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The Beloved

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La guarda danzare sui suoi piedi spezzati alla luce della luna che s’intrufola dalla finestra, mentre la lampada fioca sul bordo del tavolo proietta ombre senza grazia sulle pareti. E si avvicina a lui nella sua strana eleganza, incespicando fluidamente su due gambe che semplicemente non vogliono più reggerla. Con un sorriso mite allunga una mano e gli sfiora la spalla con le dita, attraverso l’intrico disordinato e scompigliato dei suoi capelli. La sensazione improvvisa lo riporta bruscamente alla realtà, ed è come se i suoi occhi velati si riaprissero giusto in tempo per vederla inciampare e cadere.

Il sorriso che le adorna i lineamenti si accentua e lei si raggomitola sulle sue ginocchia, avvolgendo le braccia fragili attorno alla sua vita prima di chiudere gli occhi.

“Vuoi andare a letto?” le chiede, accarezzandole con molta delicatezza una guancia fredda.

Lei scuote il capo e alza lo sguardo per incontrare il suo; i suoi occhi sono opachi e iniettati di sangue fino all’inverosimile. E’ difficile credere che una volta siano stati di un verde vibrante, dato che adesso sono apatici e logori come il resto del suo debole corpo.

“Aerith,” comincia lentamente, “Penso che dovresti andare a letto.”

Le sorride quando lei si rifiuta nuovamente, accompagnando con uno sbadiglio le lamentele circa il fatto che ha appena fatto un riposino. Cinque ore fa, è costretto a ricordarle; e sebbene cinque ore possano non sembrare poi tanto, è il massimo che Aerith riesca a raggiungere – è quasi come se la sua vita sia diventata un peso troppo gravoso per le sue esili spalle.

Beh, cinque anni di morte tendono a produrre questo genere di effetti sulle persone.

Cloud tamburella le dita contro il legno del tavolo, un po’ per l’irritazione un po’ per tenersi sveglio mentre Aerith si contorce e si volta, seppellendo la testa nel suo petto con un altro sbadiglio; e lui fissa lo sguardo oltre i suoi capelli sulle pile di antiche scritture, disperatamente aperte ma incapaci di dargli le risposte che cerca. Risposte a domande che non sa bene come formulare. Risposte a domande sul perché Aerith sia così, e perché sia andato tutto per il verso tremendamente sbagliato.

Se è andata male, in realtà. Magari è così che dev’essere; dopotutto, Cloud non sa nulla di necromanzia, e forse Aerith è più viva di quanto potrà mai essere. Ad ogni modo, questo non significa che lui smetterà di tentare, e le notti insonni, gli infiniti miscugli di pozioni da tempo dimenticate e la ricerca interminabile ne sono la prova. Ti farò stare meglio, le ripete ogni mattina, e ogni giorno lei aspetta pazientemente che così accada.

Alla fine Aerith gli mormora all’orecchio che vuole andare a dormire, perché sì, è molto stanca. Cloud spegne la luce prima di portarla nella camera da letto. La loro stanza non è illuminata da una lampadina languida coperta da un paralume polveroso, e quando preme l’interruttore è costretto a sbattere un po’ le palpebre per riabituare la vista. Dopo aver adagiato Aerith sul letto finalmente può vederla chiaramente, può vedere quello che è rimasto di lei.

E quello che è rimasto non è molto.

Sarebbe arduo per chiunque negare che Aerith sia bella – perché è ancora Aerith, in fin dei conti – ma ora il suo corpo ha assunto tutto un altro aspetto: sembra malato, morto. Anche quand’era smarrita nei Campi Elisi appariva meno spettrale, mentre ora la sua pelle è ricoperta di graffi, lividi, scottature… E’ come se l’avesse completamente sradicata dal Lifestream. Sradicata dalla sua volontà, dalla sua voglia di vivere, di guarire –

(“Dovresti stare più attenta,” dice Cloud con un sorriso, “Non voglio che tu ti faccia male.”)

– e che razza di guardia del corpo è se non è nemmeno capace di proteggerla o di ricucire le sue ferite a dovere? L’ago gli fa sanguinare le dita di tanto in tanto, e i punti di sutura non fanno altro che profanarla ulteriormente.

“Cloud, qualcosa non va?” domanda Aerith, sentendosi persa di fronte al suo sguardo vuoto.

“Assolutamente no,” replica con un sorriso fin troppo luminoso per essere genuino.

Per quando si trascina sul materasso Aerith si è già addormentata, ma si china comunque verso di lei per bisbigliarle che la ama.

Sono quattro mesi ormai che questo è diventato il suo letto e queste le sue ruvide lenzuola, in questo vecchio cottage in rovina circondato dai fiori. Più che una casa, finora è stato un banale riparo circondato da quattro mura, con Cloud ossessionato dalla sua ricerca e Aerith troppo intorpidita per potersi veramente adattare alla consapevolezza inferiore del vivere, troppo invischiata con la morte per poter veramente tornare ad essere parte del mondo fisico e palpitante.

A lui non importa più niente dei fiori, non ora che ha riavuto Aerith, almeno. Probabilmente al Seventh Heaven mazzi di fiori strappati continuano invece ad invadergli la scrivania, oppure tappezzano ancora la parete: due bellissime, premature testimonianze dei meccanismi ossessivi della sua mente.

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(“Allora stavolta te ne vai davvero,” dice Tifa, combattuta tra un sorriso e le lacrime. E’ un’affermazione, non una domanda; ma tanto lui non le ha mai dato una risposta sincera. “Anche se te ne andavi sempre, Cloud, non ho mai pensato che… che saresti arrivato a tanto. Non ho mai pensato che avresti potuto piantarci in asso per sempre.”)

Ma loro non avevano mai sentito la perfezione di un cielo bianco che perfora gli occhi, non avevano mai provato un terrore così grande (“Voltati e svanirò per sempre.”) o la semplicità del perdono mentre le sue dita accarezzavano ferite incandescenti. Non avevano mai vissuto niente del genere, erano stati privati delle sue benedizioni – davvero, no; Cloud non riusciva ad arrabbiarsi perché non potevano capirlo, non riusciva a sentirsi ferito e lacerato dentro perché gli davano dello stupido – perché gli davano del pazzo – per aver inseguito i morti che riposano.

La speranza gli è sempre stata estranea, e tuttavia l’ha accolta a braccia aperte, comprando un piccolo cottage in un campo di fiori di cui a lui non poteva fregare di meno ma che per lei avrebbe significato tutto.

Lei (perché quei quieti sussurri su di ‘lei’ non erano ancora diventati Aerith, e non lo sarebbero stati fin quando non sarebbe stata davvero con lui, fin quando non avrebbe ricominciato a vivere e respirare) era molto più energica all’inizio, subito dopo che Cloud l’aveva sottratta a Gaia e l’aveva portata al loro piccolo cottage tra i fiori, che per un periodo gli era sembrato incredibilmente più bello del solito. Il suo corpo non si era adeguato immediatamente al rinnovo della vita – ossigeno infilato violentemente in gola, che si mischiava a sangue e grida silenziose – ma lui l’aveva costretta a vivere; e dopo una manciata di ore aveva lentamente riacquistato le sue facoltà mentali, perdendo un po’ di sanità in cambio. E entrambi erano scoppiati a piangere, abbracciandosi così forte da procurarsi dolore non solo fisico – e, ovviamente, si erano scioccamente assicurati a vicenda di non essere mai stati più felici in vita loro.

Si erano bagnati del sole d’autunno, e anche se il cielo in questo mondo non è perfetto, per un po’ non importò. Per un po’, a Cloud era bastato stare lì a baciarla senza badare al sapore freddo e amaro delle sue labbra. Non c’era stato alcun bisogno di dirle che era ancora molto debole, e che erano incatenati a quella vita solitaria – per un po’, almeno. E per un po’, tutto era andato bene.

“Mi piace qui,” disse, guadandosi attorno come a dare la propria approvazione al luogo. “Con i fiori, l’aria aperta…” E si fermò per un istante prima di voltarsi verso di lui, toccandogli il naso con un dito. “E con te. Specialmente con te, Cloud.”

E lui non poté far altro che sorridere, accarezzarle i fianchi in risposta e replicare, “Bene, Aerith. Sono contento. Contento che tu non sia – ”

S’interruppe, ma Aerith lo guardò come in attesa di qualcosa, impaziente che terminasse la frase, nonostante sapesse perfettamente quale fosse la parola mancante. Era da quando era ‘tornata’ che lui moriva dalla voglia di dirglielo.

“Sono contento che tu non sia… arrabbiata con me.”

“Arrabbiata?” chiese lei, con una punta di delusione. “Perché dovrei essere arrabbiata con te? E’ come ti ho sempre detto – ‘Tornerò quando sarà tutto finito.’ Lo sai che volevo tornare da te.”

Lo aggiunse lentamente, la voce colorata della più vaga sfumatura di tristezza che Cloud riuscisse ad immaginare (rimpianto?), quasi che lei sentisse di averlo abbandonato. Poggiando la testa sulla sua spalla, Aerith continuò a bisbigliare.

“E’ stata la decisione più dura che abbia mai preso in vita mia. Se non fossi stata una Cetra – se non fossi stata l’ultima – non ti avrei mai lasciato; non ti avrei mai ferito. Sarei rimasta al tuo fianco per sempre, se avessi potuto. Ma poi quando… sono morta e ho visto l’effetto che questo ha avuto su di te, i-io…”

Le posò un dito sulle labbra e frenò il flusso delle sue parole. Non c’era ragione che entrambi ricordassero quello che era stato – non c’era più motivo di essere infelici. Rimasero in un confortevole silenzio mentre il cielo chiaro si tingeva di rosso, e sollevando lo sguardo al sole abbacinante, Cloud sussurrò –

“Ti amo, Aerith.”

– e trattenne il fiato per un momento, sentendosi addosso una paura ridicola della sua risposta. Un minuto dopo, ancora niente.

“Aerith?”

Quando abbassò gli occhi e si accorse che dormiva, sorrise tra sé; forse era meglio così, il silenzio poteva parlare per loro.

Poi quella notte fecero l’amore.

Si buttarono goffamente sull’unico letto della casa, lui su di lei; Cloud non si rese nemmeno conto che la stava bloccando. Fu un’esperienza imbarazzante per tutti e due, ma non nuova – dopotutto, lui aveva trascorso gli anni della prima adolescenza nella compagnia dei SOLDIER della Shinra, e quel tanto che aveva vissuto lei l’aveva passato tra gli stretti bassifondi della grande Midgar. Fu Cloud a cominciare, ovviamente (e come sempre), e Aerith era come prigioniera di una tempesta troppo impetuosa d’amore, stoltezza e vita per poter obiettare, anche se fece male come non mai.

Il corpo di lui la ferì quando si spinse con forza dentro di lei, e dopo qualche minuto era già esausta. Ma si sentiva come annebbiata da uno strano senso di devozione, e allora gli permise di finire. Al mattino nessuno dei due menzionò i lividi che si era ritrovata lei dappertutto, e rimasero seduti alle piazze opposte del letto finché l’imbarazzo (vergogna?) non svanì.

E poi, per un po’, poterono continuare a fingere che tutto andasse bene.


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Ogni tanto, Vincent viene a trovarli. In realtà lo fa più per il bene di Cloud che per quello di Aerith (apparentemente sembra che spesso sia ancora lui ad avere più problemi della fioraia) ma gli fa comunque piacere vederla e parlarle per ore, solo per tenerle compagnia. Non è il genere di cose che gli capita di fare di frequente – anche i suoi amici più cari riescono raramente a scucirgli più di due parole – ma sente una quantità tremenda di sensi di colpa gravargli sulla testa, sussurrargli che forse avrebbe dovuto conoscerla meglio, la prima volta.

E nonostante non l’abbia conosciuta poi così bene allora, è convinto che ci sia qualcosa di diverso in lei. Non sa cosa sia, ma tiene i propri sospetti per sé. Dell’AVALANCHE, Vincent è l’unico ad essere al corrente del piccolo segreto di Cloud, e considera suo compito rimanere in buoni rapporti con lui – stavolta, per il bene di Aerith.

Stamattina è una di quelle rare occasioni.

“Allora,” inizia Cloud, schiarendosi la gola e rompendo il silenzio che si protrae da un po’. “Come stanno tutti?”

Vincent tace per un momento, distoglie lo sguardo dal proprio riflesso distorto nella tazza di caffè e risponde alla domanda come se stesse recitando la battuta di un copione provato per mesi.

“Tifa sente la tua mancanza. Ma finge che non sia così, e si arrabbia ogni volta che si parla di te. In quel caso pretende che si cambi argomento e piange se non le si dà ascolto. Per quanto riguarda Barret, è genuinamente furioso – non sei più un uomo popolare o rispettato, Cloud. Denzel sembra sentirsi abbandonato e ferito, e oserei dire che lo stesso valga per Marlene.

“Nanaki è stato molto più comprensivo, comunque. Credo che abbia vagamente intuito quanto stia avvenendo qui, mentre Reeve è troppo disorientato per poter esprimere la sua opinione in merito. Cid e Yuffie, al contrario, sono piuttosto schietti, e continuano a inveire contro di me ad ogni occasione e ad esigere che io dica loro dove ti trovi, in modo da poterti ‘far sputare tutti i denti necessari a far tornare quel cazzo di cervello dalla vacanza’. Almeno, mi pare fossero queste le loro esatte parole.”

Il suo discorso non sembra scalfire Cloud come dovrebbe, e il suo viso rimane neutrale, eccetto una minuscola ruga che gli si forma sulla fronte.

“Io… capisco. Di’ a Tifa che anche lei mi manca.”

“Io credo,” taglia corto Vincent, “Che dovresti essere tu a dirglielo. Hai anche solo una minima idea di quello che hai fatto a queste persone?”

Lui si limita ad annuire, portando la tazza di porcellana bianchissima e colma di tè alle labbra come se fosse uno scudo in grado di difenderlo dalla crudezza della realtà.

“Ne è valsa la pena?” chiede Vincent; nella voce c’è solo una semplice e spontanea curiosità, nessuna accusa.

La domanda coglie Cloud alla sprovvista, perché non si è mai soffermato più di tanto a rimuginarci su. Lancia una rapida occhiata al divano dove lei sta dormendo, e guarda superficialmente la sua figura: Aerith, la bellissima, meravigliosa Aerith è proprio qui; ed è viva, e lo ama. Ma se guarda più in profondità scova l’Aerith che a ragione non dovrebbe essere viva, l’Aerith che si sveglia ogni notte da incubi orribili, tossendo sangue e piangendo. L’Aerith che lo condanna a vivere qui fin quando non avrà trovato una risposta.

Qualunque cosa dica, si tratterebbe di una bugia.

Alla fine opta per un forzato: “Sì.”

Vincent sembra dubbioso, e lo guarda dritto negli occhi. “Hmm. Sarà.”

“Devi ammettere,” ribatte Cloud lentamente, cercando di controllare la collera, “Che se ne avessi avuto la possibilità, anche tu avresti riportato indietro Lucrecia senza metterti a pensare più di tanto alle conseguenze. Te ne saresti fregato.”

“Mi piace pensare di essere troppo corretto per poter fare una cosa simile, Cloud.”

L’atmosfera si irrigidisce sotto il peso dell’insulto, e entrambi rimangono in silenzio, entrambi sperano che l’altro trovi qualcosa da dire, entrambi pregano che Aerith si svegli e plachi la tensione che si è venuta a creare. Sotto il tavolo, Cloud serra la mano libera in un pugno.

(“Queste sono le scritture che hai chiesto, ragazzo,” gli dice l’anziano di Cosmo Canyon, e sembra contemporaneamente interessato e turbato. “Anche se posso solo supporre quello che hai intenzione di farci, devo metterti in guardia… Non dovresti usarle con leggerezza, ma solo se hai deciso di sacrificare ogni cosa, pezzo per pezzo.”)

“Come ci sei riuscito?” Il tono di Vincent si è smussato.

E Cloud sa che questa è la vera domanda: è questo che Vincent ha sempre voluto sapere, ha sempre avuto bisogno di sapere. Com’è riuscito a resuscitare una persona morta, a fare l’impossibile? Forse è indicibile come lo è il modo in cui lui è stato riportato in vita, l’anima rubata allo Stige e poi obbligata a condividere il suo corpo rianimato con le risate dei demoni.

Cloud all’inizio ride, e il rumore disturba Vincent per una ragione che non riesce bene a definire.

“Incantesimi che hanno scritto gli Ancient,” spiega dopo un po’, scuotendo la testa mentre parla. “Scritti nel loro linguaggio per un motivo – perché venissero dimenticati. Era una specie di… evocazione, presumo, ma senza la materia…”

“Cloud?” Valentine lo chiama, preoccupato ora dal modo in cui ha preso a tremare.

“Non ho semplicemente riportato Aerith tra noi, Vincent. Io ho visto – ho visto molte cose… il futuro, principalmente.” La sua voce si fa sempre più malferma. “E anche dopo aver visto quello che avrei fatto, ho comunque compiuto il sacrificio.”

E con suo sommo stupore, Cloud comincia a piangere. Incerto sul da farsi, dato che lui non è mai stato bravo in queste situazioni, avvicina la propria sedia a quella dell’altro uomo, e con palese imbarazzo gli passa un braccio attorno alle spalle.

“Penso di aver fatto qualcosa di molto sbagliato,” mormora Cloud prima di arrendersi nel suo abbraccio, senza riuscire più a controllarsi.

“Esattamente che cos’è che hai… sacrificato?”

Cloud esplode in un’altra risata strozzata dalle lacrime.

“Non supererò i trentacinque anni.”

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Quando Aerith si sveglia Vincent se n’è andato da tempo, e Cloud è riuscito a ricomporsi un po’. Si è seduto su una poltrona accanto al sofà, e la osserva – al momento sente di poter riempire la testa solo di domande mentre riflette su quello che gli ha detto Vincent. Sono state parole sagge, forse.

“Vincent è già qui?” chiede lei con uno sbadiglio e un sorriso che le scappa dalle labbra.

Lui scivola da lei aggirando il bracciolo della poltrona, e le dà un bacio leggero sulla guancia.

“Mi dispiace,” replica, senza sembrare dispiaciuto nemmeno un po’. “Vincent com’è venuto se n’è andato, e lo sai quant’è difficile svegliarti.”

“Oh.” Lei non si disturba a mascherare il suo disappunto. “Speravo di vederlo.”

E’ passato troppo tempo, pensa lei. Troppo tempo da che sono soli, qui in questo piccolo cottage angusto, e sta diventando troppo per lei – anche con Cloud al suo fianco, continua a sentire il bisogno di qualcos’altro. Lui si avvicina sempre di più, e lei sente il suo corpo premersi delicatamente contro la propria schiena.

“Cloud…” inizia, assicurandosi di rivestire le sue parole di ottimismo. “Potrò rivedere presto gli altri, vero?”

Non c’è risposta ad attenderla, e perciò continua nervosamente. “Sarà… sarà fantastico poter parlare di nuovo con Tifa. E Yuffie! Scommetto che è cresciuta tantissimo, ormai dev’essere diventata una donna bellissima! E Cid – Cid mi deve un giro sulla sua aeronave, e–”

“–Aerith.” E non può non odiare la monotonia della sua voce. Non ne può più di sentirsi dire lo sai che sei troppo malata per allontanarti da qui, ti prego, lascia che io sistemi le cose e accettarlo. Anche se Cloud non può sopportare quello che le ha fatto, vuole almeno vedere gli altri. I suoi amici.

Poi, quand’è ormai troppo tardi per frenare la lingua, si sente uscire di bocca: “Ti vergogni di me?”

Cloud la guarda e tace, preso in contropiede. “Certo che no,” risponde poi, in un tono tutto fuorché rassicurante. “Come posso vergognarmi di una cosa che ho creato?”

Creato? Gli occhi di Aerith catturano i suoi mentre le labbra di lei tremolano e si permettono un sorriso. In quell’istante, lui realizza di aver detto una cosa molto, molto sbagliata.

“Creato,” gli fa eco aspramente, e per un momento il suo sguardo vitreo sembra accendersi.

“Non è quello che intendevo,” dice lui con un sospiro pesante. “E’ solo che–”

“E’ solo che sei tu che mi hai riportata su questo mondo. E quindi io dovrei passare il resto di questa mia mezza-vita in debito con te?” C’è qualcosa nelle sue parole che gli fa fisicamente male.

E se c’è qualcosa di peggio della monotonia della sua voce è il modo in cui grida quando si sente ferito. Le sue parole non si fanno cariche di rabbia o odio, ma di una sofferenza insidiosa.

“Credi che ti abbia riportato in vita perché voglio qualcosa da te? Pensi che ti voglia come mia schiava, un giocattolo?” urla, sfiorandola impercettibilmente, ma stando sempre attento a non toccarla davvero – non sa cosa potrebbe accadere al suo debole corpo in momenti come questi. “No, Aerith! L’unica cosa che voglio – l’unica cosa che ho sempre voluto – sei tu. Solo tu. E scusa, va bene? Scusami! Ho sbagliato tutto, ho fatto cose a cui non avrei mai neanche dovuto pensare. E’ solo che… non ce la faccio ad affrontare gli altri, non in queste condizioni.”

Le fa sempre venire una montagna di sensi di colpa.

“… Mi dispiace,” mormora lei, ritraendosi un po’ da lui e impigliando la faccia nel nastro che lui si è legato al polso. Un liquido caldo e ramato le sommerge la bocca.

“E’ esattamente questo che voglio dire,” dice Cloud aggrottando le sopracciglia, facendo scorrere le dita sul labbro sanguinante di Aerith; lei rabbrividisce, ma il dolore la stordisce troppo per poter reagire. “Ecco quello che ti ho fatto. Sei distrutta.”

Le rivolge quello sguardo, lo sguardo che riesce sempre a ricordarle a quanto ha rinunciato per lei. Quanto la ama. Quanto è ossessionato.

“Hmm.” Aerith stringe la mano insanguinata di Cloud tra le sue, spingendo il viso freddo sul suo; la loro pelle entra in contatto, e respira a fatica su di lui. “Ha importanza?” chiede lei a entrambi prima di baciarlo, con un’intimità circoscritta solo dal sapore pungente del sangue. Gli inonda la bocca ma non si ferma; è orribile, orribile ed è dura non tremare. Ma non si ferma; è veleno, mortale e freddo. E’ veleno, e ne vuole ancora.

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A luglio, Aerith rimane incinta.

Il suo ventre si è curvato appena (e la cosa si traduce rapidamente nel terrore che le percorre la gola, più letteralmente nel vomito di prima mattina), ma per molto tempo non ne fa cenno a Cloud. Da parte sua non ci sono sospetti, e quando lei vomita si sente meramente obbligato ad accarezzarle la schiena quando si prosciuga china sul loro piccolo gabinetto (e anche se lei non vuole ammetterlo, svuotare il proprio vecchio corpo che sta marcendo le dà una certa soddisfazione) e addebita il tutto alla sua malattia.

Una vera malattia; passa un mese, lei piange sempre di più – “Che hai, Aerith? Stai di nuovo male?” – e le lenzuola si bagnano di sudore e panico, e tutto perché ha paura di quello che succederà quando lui lo scoprirà; perché ovviamente, nella sua mente angosciata e nervosa, l’uomo che ha squarciato la sua stessa vita per lei la lascerebbe per una cosa del genere.

Quando è buio, abbassa lo sguardo ai lividi che le deturpano il corpo, lividi che le lascia Cloud quando la stringe di notte (e lei resiste, perché è Cloud, e oh, il dolore si placherà) e si accarezza lievemente la pancia leggermente rigonfia. E per la prima volta da mesi, sorride – avere in grembo una cosa così fragile e viva può solo provare che anche lei, proprio lei, è viva.

“Cloud,” comincia lentamente ma in tono fermo un lunedì mattina, rivolta al bancone dove lui sta preparando la colazione. “Penso che– che…”

Un silenzio lungo e significativo cala sugli angoli della stanza, e Cloud si gira per guardarla, il volto di pietra.

“… presto dovrai sfamare un’altra persona oltre a noi due.”

Qualcosa cade dal tavolo su cui sta cucinando, ma lui insiste nel sembrare confuso, e quasi non credendo alle sue orecchie mormora: “Che–che vuoi dire?”

Lento come sempre, Cloud, pensa lei con un sorriso. Allora gli si avvicina, raccoglie la sua mano, e gli sfiora il polso con le sue dita fredde mentre la spinge dolcemente sul proprio ventre, scoprendoselo. E non c’è nemmeno il tempo per un mi dispiace, Cloud (anche perché non sarebbe vero), che lui crolla in ginocchio, le avvolge la vita con le braccia e nasconde la faccia contro la sua pelle nuda. Trattiene il respiro quando sente le lacrime scivolarle sullo stomaco.

Eppure, ancora non sa se siano di gioia o meno.

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Cloud lavora più sodo che mai per lei, spalancando tutti i suoi libri (e stavolta ne vale la pena più di prima, visto che ora sa che qualche speranza di riuscire ce l’ha) non appena torna in sé ed elabora lo shock. Quel ‘non appena’ durerà pure più di una settimana, ma piano piano la routine di rimettere nelle prime ore del giorno demorde, e Aerith non può non sentirsi più che grata quando Cloud ricomincia a mischiare pozioni.

Trascorre la giornata seduta in silenzio a guardarlo mentre sfoglia volumi, aggiunge gocce di elixir e ether ai suoi intrugli, e squarcia fiori con le dita un po’ sporche. Sa il nome di ogni sostanza, ovviamente (c’è poco altro da fare in un laboratorio sterile a parte sondare ogni singolo pensiero che ti passa per la testa). C’è qualcosa di delicato quanto molesto nel modo in cui prende un morbido narciso e ne strappa i petali bianchi uno per uno.

Ultimamente è così passivo che lo riconosce a stento; ma la stanchezza nei suoi occhi le dice che vorrebbe ancora giostrare una spada tra le dita sapienti e addormentarsi sul sangue di un giaciglio di fortuna.

Certi pensieri non sono salutari, ma proprio quando sta per esternarli la sua voce la raggiunge.

“Il bambino,” inizia, con lo sguardo fisso sul suo lavoro e l’accenno di un sorriso sulle labbra. “Dovremmo trovargli un nome.”

Questo suggerimento la stupisce. Cloud è stato meraviglioso in questo periodo, ma non si sarebbe mai aspettata che avrebbe accettato l’idea di un bambino così facilmente. Ci sono giorni in cui non parla d’altro – l’ha reso veramente felice. E anche lei è felice, e i vecchi problemi si stanno lentamente annullando uno per uno.

Lei è più forte ora, molto più forte, e un po’ di colore è risalito fino alle guance. Il piccolissimo battito del bambino, molto più potente del suo, sembra ripararle la vita che non le è mai stata restituita pienamente. A poco a poco, Aerith Gainsborough sta ricominciando a sentirsi come una persona completa.

“Ifalna,” dice allora allegramente, senza pensarci due volte. Mentirebbe se dicesse che non ci ha fantasticato per ore.

“Anche io l’avevo pensato,” replica Cloud, con il sorriso che gli si allarga. “Mi piace molto come nome. Beh, se è una femmina allora è fatta.”

Ha come la sensazione che Cloud voglia scegliere personalmente il nome di un presunto maschietto. Sorridendo, gli chiede se ha già qualche idea.

“Veramente no,” finge. “Beh, forse uno–hm, stavo pensando… Zack?”

In tutta la sua vita, Aerith non ha mai visto niente di più adorabile di Cloud che incespica sulle parole per decidere il nome adatto a loro figlio.

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Le cose migliorano, e di molto. Hanno la lieta distrazione di una nuova vita a distoglierli dai problemi reali, e possono riempirsi la testa di pensieri che non riguardano il livello infimo cui si sono ridotti a vicenda. Persino Vincent viene più spesso, e ad ogni giorno che passa Cloud è sempre più tentato di telefonare agli altri.

Le facce che faranno quando scopriranno che Aerith è viva non avrà prezzo, pensa. Le facce che faranno quando scopriranno che stanno per diventare genitori sarà… beh, sarà stupefacente.

La gravidanza di Aerith allenta la morsa aggressiva, la notte non vomita più, ma riprende a tossire sangue. Inoltre, sta anche cominciando a perderne più frequentemente di quanto non dovrebbe, ma il dottore abita molto lontano e Cloud l’ha già chiamato diverse volte – così non gli dice niente. Non vuole disturbare la sua felicità.

I mesi non si trascinano più, e ottobre arriva in fretta.

Si sveglia in una mattina perfettamente normale – non ci sono nuvole di pioggia che minacciano tuoni e fulmini, e nessuna goccia batte alle loro finestre, come nei suoi sogni. E’ solo un giorno come tanti. Vagamente, ode gli uccellini cantare sugli alberi, mentre le foglie rosso-oro si lasciano trasportare senza remore davanti alla finestra del bagno. Fa leva sul lavandino per allungarsi sino a quella stretta finestrella sopra lo specchio e la apre spingendola con la punta delle dita. L’aria fresca e frizzante d’autunno si diffonde nella stanza viziata.

Quando Aerith inspira, il tanfo del sangue l’attanaglia, e il sapore delle sue stesse lacrime le graffia la gola. Si appoggia di nuovo al lavandino e vomita ancora una volta.

“Aerith?” lo sente chiamare il suo nome e afferra la maniglia della porta. La serratura non cede di un millimetro.

“Aerith, stai bene?” Il panico della sua voce si fa sempre più evidente.

Lei non risponde, ma il suo pianto si fa sempre più rumoroso. Si accascia al pavimento mentre Cloud si scaraventa contro la porta, che si rompe facilmente, spalancandosi contro il muro.

“Che è suc–” sta per chiedere stagliandosi sull’uscio, ma si dimentica come funzionano le corde vocali quando abbassa gli occhi e la vede.

Eccola lì, la donna che ama, sprofondata nel suo stesso sangue, avvinghiata disperatamente alla cosa che dovrebbe essere il loro bambino.

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Nulla va più bene dopo di allora. Non può.

Cloud fa molta fatica a trovare le parole giuste da rivolgerle, e tutto quello che dice sembra teso, sfumato di un’onnipresente tristezza. E allora passano gran parte del tempo seduti sul divano, abbracciati, fino a crollare dal sonno. Vincent non si è più fatto vedere, e Cloud ha fracassato il telefono. Ha rotto anche il tavolo della cucina, e le credenze, scagliandosi su ogni oggetto che gli capitava a tiro mentre Aerith gli implorava di fermarsi.

Le sue giornate consistono nei piccoli diversivi che gli sono rimasti: si è riseppellito nel lavoro che aveva abbandonato tempo fa; continua a sfogliare pagine su pagine delle scritture degli Ancient con occhi pesanti, ma non cerca davvero qualcosa, non più, né assimila niente.

Aerith è molto più calma riguardo l’intera faccenda, e quando è sveglia si sdraia spesso tra i fiori. Ogni tanto Cloud la osserva dalla finestra, e si chiede mestamente se lei non voglia tornare nel Lifestream, circondata unicamente dai fiori che germogliano nella sua mente. La maggior parte delle volte decide che sì, è così, e sarebbe senz’altro la cosa migliore per lei.

Nemmeno Aerith ha molto da dire, e diventa più debole ogni giorno che passa. Si sta facendo diventare più debole, pensa amaramente Cloud. Si sveglia dai suoi incubi almeno una volta a notte, gridando contro il sangue che le macchia le mani come se la rendesse niente di meno di un’assassina. Ma non è solo questo che sogna. A volte sogna di Sephiroth, e del nitidissimo ricordo del dolore che la perforò insieme alla sua lama perfetta.

Ma da questi sogni non si sveglia urlando.

(“Non ho nient’altro da dirti,” dice Vincent, senza odio o disgusto a percuotergli la voce, ma solamente sofferenza. “Tutti abbiamo i nostri peccati da espiare, e tu ne hai semplicemente aggiunto di nuovi.”)

Hanno seppellito il bambino poco dopo l’accaduto nel campo qui accanto, e il funerale è stato irrilevante quanto quello di Aerith; molte lacrime, ma nessuna parola. La tomba è minuscola, e passerà inosservata a chiunque tranne che a loro due. Hanno messo solo una pietra liscia e vuota sulla sommità della fossa: non hanno fatto in tempo a dargli un nome.

“Mi chiedo se non ci abbiamo sperato troppo,” insinua la voce di Cloud una notte. “Avremmo dovuto essere preparati a una cosa del genere.”

Aerith gli volta le spalle nel letto, ma chiede: “Allora sarebbe colpa nostra?”

“Forse.”

“Nessuno si aspetta la morte, Cloud,” rassicura entrambi. Non può essere stata colpa loro – tutti e due hanno desiderato quel bambino più d’ogni altra cosa. Quel bambino è stato amato più di moltissimi altri prima ancora di nascere.

Cade il silenzio, e lei scivola di nuovo nel sonno. Ma Cloud non ci riesce, e rimane alzato a pensare per lunghe ore – ormai è diventata un’abitudine, e ogni mattina i segni scuri che gli cerchiano gli occhi si fanno sempre più marcati. Non riesce più a sopportare i sensi di colpa, non riesce a superarli; sono il promemoria costante delle due vite che ha distrutto.

Aerith.

Pregarla per il suo perdono non gli servirà a molto stavolta. E anche se glielo chiedesse, sa già che lei mentirebbe. E’ una consapevolezza che lo corrode, e ripensa sempre a quello che gli è stato detto quel giorno, il giorno in cui ha venduto la sua vita per quella di lei. Forse non può cambiare il futuro, dopotutto – e forse è anche meglio così.

Le si avvicina, e la scuote fino a che lei si sveglia con un intontito: “Che c’è?”

“Ti amo,” le sussurra con un sorriso tanto radioso e vero che lei riesce a scorgerlo anche al buio.

La sua voce si raddolcisce. “Ti amo anch’io, Cloud.”

“E dico sul serio. Ti amo più di ogni altra persona o cosa al mondo, Aerith. E voglio solo che tu sappia che – non ho mai rimpianto e non rimpiango di averti riportata qui. Nemmeno per un secondo; poter condividere questo tempo con te è valso ogni dolore.” confessa, rispondendo alla domanda di Vincent.

Lei non sa quali siano le cause di questo sfogo, ma è felice per l’onestà delle sue parole, e si accoccola tra le sue braccia prima di addormentarsi. Per la prima volta dopo tanto tempo, Aerith dorme con lui, e non solo al suo fianco.

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Al suo risveglio tutto ha un sapore migliore; Cloud si è rilassato un po’, e quello sguardo orribile nei suoi occhi, quello che non era mai direttamente mirato a lei, è svanito. Parla e le sue parole non suonano più forzate né manifestano disagio di alcun tipo, e ha persino fatto colazione con lei. Sono di nuovo insieme, e Aerith può solo sperare che le cose prendano una nuova piega.

“Cloud,” inizia allegramente, le braccia immerse nell’acqua insaponata del lavello della cucina. “Ultimamente sta cominciando a far freddo. Credi che presto nevicherà?”

Il suo tono trasuda speranza, e ondeggia in punta di piedi mentre ripone le tazze appena lavate lì accanto.

“Probabile. Di solito qui a nord cade molta neve,” risponde Cloud alle sue spalle.

E va avanti così per un po’, con Aerith che chiacchiera vivacemente del più e del meno, di tutto e niente, guardando contemporaneamente fuori dalla finestra mentre Cloud le porge delle risposte da dietro al tavolo. Tuttavia, le sue repliche si fanno sempre più concise, nota lei, e c’è un vago affanno nella sua voce; se ne preoccuperebbe pure se solo lui non fosse Cloud.

Poi sente lo sbattere di una porta dietro di lei, rumore seguito qualche istante più tardi dai passi delicati degli stivali di Cloud.

“Hai bisogno di qualc–” dice, ma viene interrotta da un dolce “Shhh,” di lui.

E allora tace per lui e rimane lì, immobile, senza voltarsi a guardarlo. Sospira profondamente quando le dita ruvide e calde di Cloud le sfiorano la nuca, rimpiazzate poi dalle sue labbra. Le cinge la vita con un braccio.

“Aerith,” la chiama teneramente. “Ricordi quello che ti ho detto ieri notte?”

“Certo che sì, Cloud. E ti amo anch’io più di ogni altra cosa.”

Cloud non dice niente per quello che sembra una vita intera per entrambi, intrappolati in gabbie di attesa in vista di cose molto diverse, prima di darle un bacio leggerissimo sul collo.

“Bene,” mormora, usando il braccio attorno a lei per girarla.

Aerith sorride, sente che Cloud l’accoglierà tra le sue braccia dove sarà sicura per sempre, l’abbraccerà forte e la farà volteggiare nell’infinito campo di fiori fuori casa loro, proprio come ha sempre sognato quand’era piccola. Mentre lui la volta, sente che non smetterà mai di amarlo.

Mentre lui la volta, il suo sorriso si sbiadisce. Il suo viso viene attraversato da un’espressione strana quando sente un qualcosa di freddo e appuntito premersi sotto il suo seno, e con uno sguardo confuso e interrogativo gli avvolge il polso con la mano mentre entrambi guardano il pugnale che stringe Cloud.

Il sangue – il suo sangue – gli cola dal braccio e lei si accorge delle lacrime che gli lasciano gli occhi. Mi dispiace, gridano, ma nessuno di loro riesce a emettere un solo suono. Ed è inutile che Cloud chiuda gli occhi per non vedere: è questo che ha visto in tutte queste notti che è stata con lui.

“Il tempo…” si costringe lei a bisbigliare, la voce incrinata. “Il tempo che abbiamo passato insieme… ne è valsa la pena, Cloud… ma… doveva… finire… così?”

Lei non merita di sentire niente di quello che deve dirle, e lui non può fare altro che estrarre la lama.

Quando Sephiroth l’aveva uccisa, aveva sorriso perché non sapeva cosa stesse accadendo. Quando Cloud la uccide, sorride perché sa esattamente cosa sta succedendo.

La sta salvando, nel suo modo contorto e fuorviante. La salva dalla vita che le ha creato.

Mentre il suo corpo gli ricade addosso, le uniche parole spezzate che riesce a dirle sono: “Mi dispiace tantissimo per tutto, Aerith. Ti seppellirò con il nostro bambino.”

E la lascia cadere a terra dalle sue braccia sporche di sangue, dove può finalmente riposare per sempre. La sua morte sembra quasi serena e pittoresca; serena, se non fosse per il rivolo di sangue che le sgorga dal petto.

Cloud la guarda, e può solo ricordare la ragazza sorridente che voleva vendergli un fiore, la ragazza sorridente che lui ha sempre voluto salvare più di ogni altra cosa.

Attraverso le lacrime la guarda e la ricorda, per sempre: La sua Adorata.
   
 
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