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Autore: ilovebooks3    23/05/2014    2 recensioni
La storia ripercorre l'episodio 6x22, raccontato dal punto di vista dei due protagonisti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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" Go away" ( T. Lisbon)

Ci sono cascata. Di nuovo. Come un’idiota.
Altro che scaltra agente dell’FBI tutta d’un pezzo. Quando si tratta di lui, mi trasformo in un burattino.
E’ sempre stato così.
Come in quel giorno lontanissimo, quando mi aveva portato davanti a un tramonto mozzafiato e mi aveva detto tutte quelle cose carine, solo per rubarmi il cellulare e liberarsi di me. Sembrava sincero, dopotutto sapevo che, a suo modo, teneva a me.
E invece mi aveva abbandonato lì, per la strada, come una cosa vecchia. Aveva rivelato di avere una sorpresa per me. E io chissà cosa mi ero immaginata. Mi aveva ingannato, si era preso gioco dei miei sentimenti. Quali sentimenti, non avrei saputo dirlo neanche io.
Quella volta lo avevo perdonato. Voleva correre a smascherare John il Rosso e sapeva che io, nonostante gli avessi dichiarato il contrario solo per essere coinvolta, non glielo avrei mai lasciato uccidere. Perché poi, a punirlo, ci avrebbe pensato la legge. E io non avrei mai permesso a Patrick Jane di rovinarsi la vita. O di rimanere ucciso, ipotesi altamente probabile, considerata la sua dimestichezza con le armi. Che poi, alla fine, io gli abbia addirittura ceduto la mia pistola d'ordinanza è un'altra storia su cui è meglio soprassedere. Ovviamente l'avevo fatto solo per proteggerlo. Come sempre, del resto. Nonostante i suoi sotterfugi, le sue bugie, i suoi trucchetti. Insomma, quella volta, al tramonto, era in gioco la sua missione, non lo potevo certo biasimare, e, infatti, non l'ho fatto. Sono sempre stata un libro aperto per lui, me l’aveva ripetuto un milione di volte. Quindi sapeva che avrei cercato di fermarlo. In cuor suo, forse, voleva anche tentare di salvarmi. Eppure non mi ero mai sentita così stupida. Fino ad oggi.
Oggi l'ha fatto di nuovo. Ma, questa volta, la situazione è molto diversa.
Ha scritto una lettera anonima per riaprire un vecchio caso solo per impedirmi di partire per Washington.
Ha riportato in superficie il dolore altrui solo perché temeva gli mancasse la terra sotto i piedi.
Io sono il suo punto fermo, lo so. Per andare avanti, lui ha bisogno di stabilità e routine.
Lavorare con me è la sua routine. Nient’altro.
Immaginavo che avrebbe preso male la mia partenza. Per questo era stato l’ultimo a saperlo. Non era facile, visto che lavoriamo insieme da molto tempo. Lavoro. Magari fosse tutto qui.
In realtà avevo già provato a diglielo: un giorno mi ero seduta sul divano vicino a lui, ma, in quel momento, mi sentivo così confusa che, forse, avrei potuto rivelargli cose di cui mi sarei subito pentita; cose a cui non ero, e non sono, capace di dare un nome; cose che non saprò mai, perché, per fortuna, lo squillo del telefono ci aveva interrotti.
Avevo cercato di avvisarlo della mia decisione anche la sera in cui Pike mi aveva chiesto di sposarlo: ero tornata in ufficio apposta, ma non ci ero riuscita. Mi aveva fregato la sua espressione malinconica, ma dovevo indovinare che era tutta scena. Quei maledetti occhi blu!
Alla fine, l’aveva saputo da altri. Mi ero perfino sentita in colpa. Ma in colpa per cosa? Perché mi stavo costruendo una vita? Mi aveva detto di essersi un po’ offeso perché era stato l’ultimo a saperlo. Gli avevo risposto, appunto, che era difficile per me dirgli una cosa del genere, dopo tutti questi anni in cui abbiamo lavorato insieme. Volevo convincere lui e me stessa che era solo quello il motivo.
E allora Jane mi aveva chiesto di restare, di non rompere la squadra. Dove, per squadra, intendeva me e lui. E la nostra amicizia. Ero rimasta interdetta. Forse non mi aspettavo una frase così diretta. Forse ci avevo perfino sperato. Ma lui, da buon mentalista, se l’era subito rimangiata, scherzandoci su. Per un attimo, non so perché, ero rimasta delusa. Poi avevo tirato un sospiro di sollievo. Tutto a posto, in fin dei conti.
Lo immaginavo che la mia assenza lo avrebbe destabilizzato. Era come un bambino a cui stavano sottraendo il suo giocattolo preferito. Ma, come tutti i bambini, dopo qualche minuto avrebbe trovato un giocattolo nuovo ancora più divertente. Questa eventualità non mi faceva piacere, ma gliel’auguravo con tutto il cuore.
Avevo previsto che si sarebbe dato da fare per convincermi a rimanere, a suon di battutine sarcastiche riguardanti matrimonio e trasferimenti.
Avevo previsto che sarebbe stato più gentile del solito. Manipolare la mente, soprattutto la mia, è la sua specialità.
Quello che non avevo previsto era che il suo egoismo si spingesse così in là.
Non gli importava di sfruttare una tragedia altrui.
Non gli importava la pace di una povera donna assassinata.
Non gli importava nemmeno la mia felicità. Nonostante avesse ripetuto in lungo e in largo il contrario. Come quella sera, quando aveva suonato alla mia porta e mi aveva assicurato che lui sarebbe stato felice per me, qualunque decisione avessi preso. Aveva la voce rotta e gli occhi rossi. Mi aveva fatto male vederlo così. Ero sorpresa, non mi aspettavo una reazione simile da lui. Non l'avevo visto in questo stato, neanche nei momenti peggiori del decennio di caccia a John il Rosso. Quando se n’era andato, non ero riuscita a trattenere le lacrime. Non mi aspettavo nemmeno una reazione simile da me. Le avevo asciugate in fretta ed ero tornata in casa. Dal mio fidanzato. Dall’uomo con cui stavo per iniziare una nuova vita. Non ne capivo il motivo, ma, per tutta la sera non ero riuscita a smettere di pensare agli occhi tristi di Jane. Avrei desiderato che mi dicesse qualcos’altro, ma neanch’io avrei saputo dire cosa. Parlava di felicità. Ma io ero davvero felice con Marcus? Sarei stata felice a Washington con lui?
Probabilmente era proprio questo che quel bastardo di mentalista voleva: instillare il dubbio nella mia mente. Eppure, quella sera, sembrava sincero e disperato. Di solito riesce sempre a nascondersi, indossando la sua maschera preferita. Di indifferenza. Di sarcasmo. Di leggerezza. Ma io avevo imparato da molti anni a intravedere la profondità di quello che cercava di non mostrare, nemmeno a se stesso. Ormai conosco la sua anima tormentata e i suoi tentativi di camuffarla dietro a un sorriso. Mi rendo anche perfettamente conto di quando un suo sorriso è falso. Mi chiedo come facciano gli altri a non accorgersene. Riesce sempre a ingannare tutti. Ma io capisco quando finge di sorridere solo perché non vuole piangere. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, e, forse, un po' mentalista lo sono diventata anche io.
Riconosco anche i suoi sorrisi veri, così belli e così rari. Gli partono dagli occhi, che diventano più blu del solito e circondati da mille piccole rughette.
Come quando ci siamo ritrovati dopo i suoi due anni di esilio. Era felice. Anch’io lo ero. Anche se, probabilmente, sarebbe stato meglio che fosse rimasto sulla sua isoletta paradisiaca e che non ci fossimo rivisti mai più.
O come oggi, quando avevo creduto di aver decifrato il codice della lettera prima di lui. Illusa. Ero così fiera di me. Complice il sole, il mare, la spiaggia e i riflessi d'oro dei suoi capelli. Ma anche quello era stato un inganno. Il codice l'aveva inventato. Ma il suo sorriso sembrava sincero. Probabilmente lo era: chissà come si era divertito a organizzare tutta questa messinscena.
L’ultimo suo sorriso che ricordo è quello di pochi minuti fa, quando sono scesa indossando quel fantastico vestito rosa.  Mi sentivo allegra, sexy e sicura di me. E’ in quel momento che, sul viso di Jane che mi aspettava seduto al tavolo, ho intravisto un'espressione che, per un attimo, mi ha scaldato il cuore, anche se me ne vergogno. Era uno dei suoi sorrisi sinceri, ne ero sicura. Ma era strano, diverso da tutti quelli che gli avevo visto. Lo illuminava tutto, sembrava sorpreso e felice, ma i suoi occhi sembravano dire qualcos’altro che non ero riuscita a decifrare.
Basta, non voglio pensare ai sorrisi di Jane. Probabilmente non rivedrò più né lui né i suoi sorrisi. E non me ne importa nulla. Anzi, sarà molto meglio così.
Ora sono nella mia camera, ho appena raccolto le mie cose. Voglio andarmene al più presto da questo posto così bello e finto, e prendere quell’aereo che avrei già dovuto prendere.
Ovviamente lascio qui i tre vestiti che mi sono trovata in camera. Non li voglio con me, non sarebbe giusto e mi ricorderebbero una menzogna.
Eppure devo ammettere che sono stupendi. Uno di pizzo verde, il più adatto a me. Uno corto e bianchissimo. Uno rosa acceso, lungo fino ai piedi. Avevo scelto proprio l’ultimo, il meno adatto alla Teresa Lisbon che tutti conoscono. Per un attimo mi ero sentita una persona diversa. Avevo sognato l’impossibile. Prima la passeggiata sulla spiaggia, io che mi dimostro più intelligente della persona più intelligente che conosco, poi un albergo lussuoso, quasi da luna di miele, i regali e la voce di Jane che per telefono, quando lo avevo ringraziato, sembrava così dolce. Un uomo affascinante che mi viziava e mi faceva sentire bella e desiderabile. Sembrava una favola. Ma mi sono svegliata ed è finita. Tutto qui. Ma è davvero tutto qui? Non lo so e non lo voglio sapere. Non importa più, ormai. La favola è durata poco. Ma, in effetti, Jane non è certo il principe azzurro, e io non sono una principessa ingenua e delicata. Al massimo, una principessa arrabbiata, come mi aveva detto proprio lui secoli fa. D’altronde, non ho mai creduto alle favole.
Per fortuna la signorina alla reception dell’albergo mi ha aperto gli occhi. Le avevo chiesto un accappatoio per Jane, definendolo il mio fidanzato, non so nemmeno io perché: forse per semplificare la spiegazione, forse perché, nella menzogna in cui ero stata catapultata mio malgrado, io non ero più io e lui non era più lui.
Ma quella ragazza mi aveva rivelato che “il mio fidanzato” aveva prenotato le stanze una settimana fa. Ben due giorni prima che arrivasse la lettera; molto prima che potessimo prevedere di trovarci in questo posto.
Incredibile. L’aveva fatta davvero grossa, stavolta. Che stupida a non averlo capito prima. Era proprio uno dei suoi tipici giochetti. E io non me ne ero accorta, ubriacata da doni e gentilezze che non avevo mai ricevuto. Proprio io che mi davo arie da neo-mentalista.
Dopo aver ricevuto la lieta novella, mi ero precipitata al tavolo dove era seduto Jane, pronta ad azzannarlo alla gola.
Immagino che non ci volesse un sensitivo per intuire dalla mia espressione che era successo qualcosa. Capendo che il suo piano era fallito, il farabutto aveva confessato subito. Con leggerezza e un po’ di sfacciato imbarazzo. Come un bambino che dichiara di aver rubato la marmellata. Ma lui non è un bambino e io sono stufa di doverlo considerare tale.
Non sono mai stata così arrabbiata. Avrei voluto ucciderlo con le mie mani ma, essendo arrivati anche Cho e Abbot, mi sono limitata a insultarlo e a lanciargli addosso un bicchiere d'acqua. E’ stata una reazione istintiva, non sono riuscita a controllarmi.
Poi sono fuggita, con gli occhi che mi bruciavano di rabbia e, forse, di delusione; mi sono rintanata nella mia stanza, così diversa da me e dalla mia vita. Ho chiamato immediatamente un taxi. Devo scappare da qui il più presto possibile.
Qualcuno bussa alla porta. E’ lui. Lo so, ancora prima di sentire la sua voce rotta che mi chiede scusa. Ma non bastano le scuse. Non stavolta.
Dice che l’ha fatto perché non voleva che me ne andassi. Forse, un tempo ci avrei riso su e mi avrebbe fatto quasi piacere che avesse fatto tutto questo casino per me. Ma non ora; sono fuori di me, gli sbrodolo addosso tutta la mia rabbia e la mia frustrazione.
Gli intimo di andarsene. Lo accuso di aver disseppellito una donna per i suoi comodi. Gli rinfaccio che io per lui rappresento solo una comodità.
Lui non nega. Lo so che è così. Dopo i due anni trascorsi su un’isola lontana dalla civiltà, gli era venuta voglia di tornare alla sua vecchia vita. E la sua vecchia vita presupponeva la mia presenza. Mi aveva voluta per lavorare al suo fianco. Mi aveva posto come condizione assoluta per la sua collaborazione con l’FBI. Insieme al suo divano.
E pensare che, per un attimo, mi ero sentita lusingata. Anch’io ero felice di rivederlo e di tornare a lavorare con lui, anche se non l’avrei ammesso neanche sotto tortura. E invece, per il signor Patrick Jane, non ero che un’abitudine. Proprio come il suo divano.
In effetti, passato il primo momento di euforia e di apprezzamento per la sua nuova barba che non era niente male, lo avevo accusato di non aver mai pensato ai miei desideri. Era sparito, poi ritornava e pretendeva che tornasse tutto come prima. Anzi, pretendeva che non fosse cambiato niente. E, in effetti, non era cambiato proprio niente. E’ vero, io avevo cambiato lavoro e lui aveva compiuto la sua vendetta, ma le cose erano sempre le stesse: lui continuava a manipolarmi, e io continuavo a fare tutto quello che mi chiedeva. Come in un cliché ormai trito e ritrito. Perfino Jane, quella volta che glielo avevo rinfacciato, aveva ammesso di non aver mai pensato a quello che volevo davvero io. Mi aveva semplicemente dato per scontata. Non mi aveva fatto piacere sentirglielo dire. Ma era stato sincero, così non ci avevo pensato più.
Una sera, a cena insieme per un recente caso, mi aveva detto di essere prevedibile. Bel complimento, avevo pensato. Proprio quello che una donna vuole sentirsi dire, gli avevo fatto notare. E lui, con un’espressione indecifrabile sul viso, mi aveva chiesto cosa vuole sentirsi dire una donna. Io non avevo saputo rispondere. "Vorrei saperlo anch'io", avevo risposto, vaga. C’era un’atmosfera strana tra noi, quella sera: per un attimo avevo pensato che intendesse davvero farmi un complimento. Probabilmente, invece, era stata l’ennesima conferma: per lui non sono altro che una specie di coperta di Linus. Buona, rassicurante e monotona. Ma io non voglio essere solo questo. Non più.
Ora è qui, appoggiato alla mia porta, che non ho intenzione di aprire. Ha la voce rotta. Sembra un bambino che non capisce la gravità della sua ultima marachella; un bambino abituato a essere sempre perdonato. Ma adesso basta.
Gli urlo ancora di andarsene. Lui non lo fa. Non parla più, ma so che è ancora qui dietro. Sento il suo respiro pesante. So che è triste sul serio. Anch’io lo sono. Ma, più che altro, sono arrabbiata. Troppo, per poterlo perdonare ancora.
Per fortuna, però, non lo posso vedere in faccia, perché, probabilmente, non avrei il coraggio di mandarlo via. Quando sfodera lo sguardo da cucciolo, è dura negargli qualcosa, l'ho imparato fin troppo bene e a mie spese. "Vattene, Jane!", riesco a ordinargli, essendoci una porta tra di noi.
E, stavolta, ubbidisce. Forse ha capito di averla combinata grossa.
Sento i suoi passi. Lenti. Sempre più lontani.
Sento la porta della sua stanza sbattere. Un suono sordo e irrevocabile.
Poi più nulla. Finalmente. Era quello che volevo. O no?
E allora perché queste maledette lacrime traditrici mi stanno offuscando la vista? E’ sicuramente la rabbia.
Ma perché sono così arrabbiata? Jane ne ha fatte di peggio nella decina d’anni in cui abbiamo lavorato fianco a fianco. Molto peggio. Tipo seppellire un uomo vivo.
Ricordo di aver provato una rabbia simile a quella che ora mi sta divorando l'anima quella volta in cui, tanto tempo fa, Jane era sparito senza lasciare una traccia, rispondere alle telefonate o mandare un messaggio per comunicarci che non era morto. Era tutta una messinscena per agganciare John il Rosso, ma io non potevo immaginarlo. Mi aveva tenuto all’oscuro del suo piano. Come sempre. E io mi ero preoccupata per lui come un’idiota. Come sempre.
Poi era tornato, io l’avevo perdonato e seguito in un folle piano. Mi aveva ripetuto fino allo sfinimento che mi dovevo fidare di lui. E io lo avevo fatto. Ciecamente. Mi ero fatta sparare per finta, mai temendo per un solo secondo che potesse fregarmi e farlo davvero. Probabilmente nemmeno Patrick Jane si fidava di Patrick Jane quanto io mi fidavo di lui. Nonostante tutti i casini che combinava ogni giorno. Nonostante avessi rischiato più volte la mia carriera. Nonostante una volta mi avesse rivelato, in un moto di rabbia, che mi diceva solo il 30% delle cose, e io l’avevo perdonato ancora. Di solito lo faceva perché tenermi fuori dai suoi piani al limite dell’illecito era più comodo, a volte devo ammettere che lo faceva per il mio bene. Poche volte, in realtà. Anche perchè non ho certo bisogno di essere protetta.
Da tutti i guai in cui mi aveva cacciato, ne siamo sempre usciti più uniti di prima. Io ho sempre cercato di comprendere la sua sete di vendetta e, pur non potendo approvarla, l’accettavo, e aiutavo il mio consulente a incanalarla in qualcosa di costruttivo; nel rispetto del mio ruolo di poliziotto, ma non sempre.
Troppe volte ho mentito per lui e, probabilmente, se non avessi deciso di trasferirmi, continuerei a farlo all'infinito.
Spesso ho buttato all’aria i miei principi morali e quell’ onestà di cui ero così orgogliosa, mettendo in pericolo la mia vita e la mia carriera. Come quando ero arrivata a ricattare il buon vecchio Bosco per farlo liberare quando era finito in prigione per averne combinato una delle sue. Mi ero giustificata dicendo che Jane chiudeva i casi e che era importante per noi averlo in squadra. So che Bosco non mi aveva creduto; ma io non mi ero posta altre scomode domande.
Devo ammettere che Jane, dal canto suo, non si è mai tirato indietro quando si trattava di aiutarmi.
Non aveva esitato a sparare a un uomo che voleva uccidermi, pur essendo, quest’ultimo, l’unica persona in grado di dargli qualche indizio utile su John il Rosso.
Era al mio fianco nella mia personale battaglia contro Volker; per una volta, ci eravamo scambiati i ruoli, e io ero avevo capito come ci si sente nella parte della vendicatrice.
O come quella volta in cui si era rintanato nel bullpen a meditare, ma era accorso immediatamente al mio fianco quando gli avevo detto che avevo bisogno di lui. "Qualunque cosa per te, Lisbon". Ripensarci mi fa male.
Ma era proprio quello il bello di Jane. Ha quasi sempre governato con freddezza i fili che mi muovevano, e il più delle volte l'avrei strangolato con le mie mani, ma, sotto sotto, mi andava bene così. Avevo trovato un equilibrio. In attesa di qualcosa di indefinito che non sarebbe mai venuto.
Cosa c’è stavolta di diverso?
C’è che ho incontrato un uomo che sa quello che vuole e che non inganna il prossimo per ottenerlo.
C’è che ho capito di dover voltare pagina: ne va della mia dignità.
C’è che non volevo più essere condizionata da Jane; da uno che ha dimenticato come si comporta un normale essere umano.
Gli ho detto una cosa simile, poco fa. Forse sono stata dura. Ma se lo merita.
Dalla stanza adiacente alla mia il silenzio rimbomba. Origlio per un attimo. Lo immagino seduto sul suo letto, con la schiena dritta e lo sguardo triste perso nel vuoto.
Non devo impietosirmi, d'altronde sono troppo arrabbiata per farlo. Non devo correre da lui e dirgli che la nostra squadra non si romperà mai. La squadra si è già rotta. Forse non è mai esistita.
In realtà una microscopica parte di me vorrebbe bussare alla sua porta e dirgli che va tutto bene. Come ho sempre fatto. Ci guarderemmo negli occhi e non riusciremmo a fare a meno di sorridere.
Ma non stavolta.
Il telefono della mia camera squilla, per un attimo temo, o spero, che sia lui.
Invece è la reception che mi avvisa che il taxi è arrivato.
  
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