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Autore: Black Iris    23/05/2014    2 recensioni
Mi avvicinai al letto dell’ospedale. Triste. Era molto triste. Non mi guardava negli occhi, non parlava, sembrava stanco. Mi sedetti sulla sedia. Era freddo tutta l’atmosfera della stanza lo era, pure con il termo acceso. Era lui che emanava quella tristezza e quel grigiore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un patto rosso cremisi
Era rosso cremisi. Aveva le braccia rosse e una spalla irriconoscibile “perché l’hai fatto?”
Mi avvicinai al letto dell’ospedale. Triste. Era molto triste. Non mi guardava negli occhi, non parlava, sembrava stanco. Mi sedetti sulla sedia. Era freddo tutta l’atmosfera della stanza lo era, pure con il termo acceso. Era lui che emanava quella tristezza e quel grigiore.
-che freddo!-
Ma non mi rispose rimase per molto chiuso nei suoi pensieri senza azzardare una parola.
-sai, niente ti impedisce di esprimerti…-
Cercai più volte di spronarlo a rispondermi, ma senza successo.
-imbecille- gli dissi ad un tratto -sei andato al cinema senza di me-. gli feci scappare una risata che lui cercò di bloccare sulla punta delle labbra secche.
-vuoi bere qualcosa?- gli chiesi io nella speranza che mi rispondesse, ma fece solo di no con la testa.
-quando ti dimetteranno?-
-non lo so- rispose lui velocemente come se volesse che non mi accorgessi che avesse parlato.
  -Forse quando starò meglio mi porteranno in un centro specializzato- disse come con vergogna. Prese fiato e si sforzò di farmi quella domanda:
-e i miei genitori?- lo guardai con un espressione persa. Io la conoscevo la loro decisione, riferirgliela era tutta un'altra storia, tanto più nello stato in cui era. Non era molto lontano dalla depressione, dal volto sembrava ancora incosciente. Aveva gli occhi spenti e scuri. No, quello non era lui. Quello era il lato più oscuro di lui, quello che conoscevo solo io e che nessun’altro aveva mai visto.
-amico…- cercavo di rassicurarlo, di fargli credere che sarebbe andato tutto bene, ma sapevo benissimo la verità. Io sapevo tutto e dover tacere su ogni minimo particolare era per me una tragedia.
-mi hanno cacciato, vero?- mi chiese con gli occhi lucidi. Aveva ancora quell’espressione che negava qualunque ancora di salvezza. Quell’espressione aggravata ancora di più dal volto scavato e quel cerotto vicino all’occhi destro che copriva qualcosa che io conoscevo bene. La cicatrice si sarebbe rimarginata, ma il ricordo non sarebbe mai scomparso. I suoi errori, uno dopo l’altro, lo avrebbero perseguitato negli incubi e avrebbero aggravato ancora di più la situazione. Lui non era consapevole, ma io si, io sapevo cosa si provava a essere niente, a essere meno di nulla, a cercare una mano in ciò che può solo farti più male sperando che stia aiutando, ma avere in cuore la consapevolezza che non era così, che stavi sbagliando e che dovevi smettere, mentre ogni fibra del tuo corpo implorava il contrario. Per lui sarebbe stato lo stesso se non peggio.
-ti prego, sei mio amico, devi dirmelo- bisbigliò piano guardandomi con uno sguardo gelido da cui sembrava aver preso ispirazione la stanza.  Voltò la testa verso la finestra. Aveva cominciato a nevicare. Sembrava star scavando nei ricordi. Lui non sapeva cosa era successo.
Il dottore si era raccomandato di non parlarne, di lasciare che il tempo alleviasse le ferite e di andare spesso a fargli visita. Era una parola.
Era sempre stato più bravo di me a farsi dire la verità e ad imporsi sul prossimo. Per il suo sguardo era già di per se una minaccia. Quel che ci legava era solo un patto fatto tanti anni fa. Dio solo sa per quale motivi gli promisi di essere suo amico. Che amicizia era poi, quella promessa. Io non so perché ma non riuscivo a non guardarlo negli occhi e più lo guardavo più senti vo le parole salire su dallo stomaco e più le parole salivano più su di lui si disegnava un espressione soddisfatta. Era riuscito un'altra volta ad intimorirmi e ora sembravo compiaciuto del fatto che fossi turbato. Aveva un ghigno stano in volto che sembrava innaturale.
-so che sai tutto, Ilaj, non menti neanche con gli occhi- mi disse felice e accennando una risata. Io non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Non cedetti, questo era più importante di ciò che voleva sapere. Ad un tratto sembrava tornato quello di prima, gli era scomparsa la tristezza e la stanchezza, ora era di nuovo malizioso e arrabbiato con il mondo.
-saprai tutto a suo tempo- risposi con la voce tremante.
Comunque aveva ragione: i suoi genitori lo avevano cacciato di casa. Non tolleravano oltre il suo comportamento. Possibile che solo io lo comprendessi e cercassi di aiutarlo? I suoi non potevano capire ne lui che tutti gli altri che avevano cercato di spiegargli la situazione. Non avevano voluto saperne. “è maggiorenne, può benissimo vivere da solo, noi qui in casa, non lo tolleriamo più” testuali parole.
Perché poi non voler capire? Era loro figlio. I miei erano stati comprensivi con me, perché i suoi no? Certo è vero anche che una cosa ero io con i miei non problemi o difetti e un'altra era lui con le sue complicazioni, le sue bugie, le sue pericolose dipendenze e la sua malata voglia di vivere come fosse l’ultimo giorno. E quella volta aveva rischiato davvero che fosse l’ultimo.
Adesso era calmo, magari per la morfina. Se non fosse stata per quella se ne sarebbe già andato.
-ascolta biondo- dissi – quando ti dimetteranno andremo tutti insieme a mangiare kabab-
Non mi rispose sembrava ancora lo stesso di prima, ma con una nota di dolore negli occhi. Non era colpa sua. Non quella volta al meno. Tante altre volte aveva sbagliato, ma quella volta voleva solo farla finita. Non voleva più ne le serate in discoteca, ne la vita intera davanti. Mi accorsi solo con quel fatto di quanto fosse debole dentro. Capii solo allora dove trovava la sua forza. Ero io, era la nostra eterna preomessa che lo faceva vivere. Forse ero il suo unico vero amico, forse l’unico che avesse mai avuto e su cui avesse contato. Dove erano tutti gli altri che lo circondavano quella serata? Semplice, non volevano vederlo. Non volevano più essere visti con lui. Dannazione perché tutto questa falsità?
Il nostro silenzio fu interrotto dall’infermiera, una donna alta e riccia che entrò in stanza
-scusate, sono venuta a portare il pranzo- disse e mise sulla tavola vicino alla parete un piatto di risotto e un altro di verdure. Poi mise al centro della tavola una scatoletta di omogeneizzati.
-grazie- disse Kaleb. Non ringraziava molte persone e quello sembrava un grazie sincero. L’infermiera uscì salutando e sorridendo come se andasse tutto bene.
-grazie?- feci io quando lei era già fuori.
-si, grazie- rispose lui sorridendomi. Ma non uno dei soliti sorrisi. Questo era più profondo e sincero. Non c’era malizia e soprattutto lo disse con una semplicità tale che non sembrava lui. Pensai che fossero gli effetti della morfina, ma mi sbagliavo, era lui, Kaleb che era cambiato.
-sai- disse – volevo vivere sul filo della vita non oltre- poi mi guardò cercando i miei occhi he non cercavano di incontrare i suoi per evitare domande scomode a cui non avrei saputo mentire.  Non risposi alla domanda. Era davvero bravo a rigirare i ruoli.
-te lo ricordi il nostro patto?-
Si, me lo ricordavo il nostro patto. Non era facile dimenticare.
Conobbi Kaleb in ospedale quando avevo avuto l’influenza. Non sapevo cosa ci facesse lì senza aperente motivo un bambino pelato. Lo trovavo antipatico perché faceva il presuntuoso con tutti.
-si, ricordo-
Quando scoprii la sua malattia, il cancro, non compresi. Avevo solo dieci anni, lui undici. Cominciai a provare compassione. Lo conobbi meglio e nessuno mi disse mai che sarebbe potuto morire. Fu salvato dalla chemioterapia. Facemmo un patto per restate sempre amici nella buona sorte e fratelli nella cattiva. Facemmo un patto di sangue, un patto rosso cremisi.
Quel patto mi portò a stargli sempre accanto e fui trascinato in una vita che non mi apparteneva. Non ero tipo da sentirsi dire delinquente o da farsi prendere il nome dalla polizia. Il grave venne quando crescemmo. Non conoscevamo bene quel mondo di cui avevamo solo sentito parlare. Sapevamo che non era bello, ma non eravamo coscienti. All’inizio avevamo detto solo qualche tiro. Da qualche tiro diventò frequente e da frequente diventò una dipendenza per entrambi.  Passammo in rassegna quasi tutti i modi che c’erano per sballarsi. Finché non arrivammo a qualcosa di troppo pericoloso. Non era un tiro innocente per allontanarsi dal modo reale, era un tentativo di suicidio, e neanche tanto tempo fa, era recente.
Solo una parola: coccodrillo.
Io per primo ce la feci anche se non so come e adesso lui era in ospedale per lo stesso motivo. Per lo stesso motivo quel cerotto in fronte, per lo stesso motivo, gamba e spalla fasciate.
-allora vediamo un po’ se sai cos’è rosso cremisi- mi chiese ridendo
-il nostro patto- risposi io sicuro.
-no- disse lui – la mia gamba e il mio braccio-.
Io lo guardai. Aveva un espressione da stupido.
Stava davvero cercando di cambiare, si vedeva. Da una parte era lo stesso di prima, dall’altra emergeva una parte nuova di lui, più matura. Forse era per la morfina, ma era molto più rilassato di me.
-facciamone un altro- disse
-un altro cosa?- chiesi io sospettoso
-un altro patto rosso cremisi. D’ora in poi solo fratelli-
-ci sto- dissi e ci tagliammo un palmo, ci stringemmo la mano e sancimmo il nostro patto rosso cremisi, cremisi come le sue bracci e la sua spalla
 
Angolo dell’autrice:
ciao a tutti, questa fan fiction non so da dove sia uscita, ma mi sembrava bella e l’ho scritta. Se l’avete trovata bella recensite e se no fatelo lo stesso, per favore. Lo so che la trama è lenta, ma è tutta colpa del mio cervello, giuro, non sono io. Un grande abbraccio da black iris.     
 
  
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