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Autore: Some kind of sociopath    26/05/2014    1 recensioni
Fort George, 16 settembre 1781. La notte è la stessa, eppure le cose vanno diversamente.
Le salve di cannone cadono su New York, gettano la città nel panico e devastano le merlature del forte. Connor Kenway ha già ucciso tre Templari, è perfettamente cosciente di ciò che ha fatto, convinto di quanto sta per fare. Sta per ottenere la sua vendetta e portare a termine il compito per cui è stato istruito. Lui dovrebbe averlo imparato, non sempre le azioni portano dove ci si aspettava. A volte sono complicate, si avviluppano sui loro artefici, crescono.
E intrappolano.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Lee, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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“Non v'è peggior lite che tra sangue e sangue.”
 
I
Mi abbandono su una sedia, scoppiando sommessamente in lacrime. Non è rimasto nessuno a piangermi o a ringraziarmi per quanto sto facendo, nessuno ad abbracciarmi prima che la morte sopraggiunga in una qualsiasi delle sue forme. Holden non c'è più, Charles è andato via per mio ordine, scappato per finire ciò che ho iniziato. E io sono rimasto a Fort George, sapendo che se avessi messo piede fuori da questa tomba di pietra non avrei mai trovato il coraggio di affrontare la morte. Sarei scappato come un vigliacco per l'ennesima volta.
Di nuovo, lo sto facendo per me. Non voglio ammetterlo, ma è così.
Per me.
Sento lo scalpiccio dei passi dell'Assassino su per le scale ripide del forte. Mio figlio sta arrivando.
Mi alzo in piedi e getto la spada a terra.
 
II
Quando sbuco in superficie l'onda d'urto di una granata da mortaio rischia di spezzarmi a metà. Non ha importanza: sono vivo e integro e prego che i Figli della Libertà, dall'Aquila, stiano facendo attenzione a dove sparano – e a come sparano. Ho ordinato loro di colpire le zone d'attacco, ovvero le tre torrette, e il parapetto superiore, costellato di cannoni come bambini curiosi all'arrivo di un forestiero. Non mi fermo a pensarci, continuo a percorrere i corridoi – nel rischio continuo che mi crollino in testa – con i sensi all'erta. Charles Lee è qui da qualche parte, lo so.
Devo concentrarmi ardentemente su Lee – su ciò che è giusto – per impedire alla gelida consapevolezza di star bombardando e mandando nel panico la mia stessa città di prendere il sopravvento e farmi buttare a terra carponi chiedendomi perché stia facendo una cosa tanto stupida.
Una cannonata squarcia la parete del forte alla mia sinistra: mi butto di lato, ma sento i frammenti di pietra e calce conficcarsi nella mia schiena come lame. Dio, se fa male. Ma non sono qui per questo. Mi rialzo velocemente, puntellandomi sui gomiti e fingendo di non essere ferito. A cosa diavolo pensava Sam Adams quando gli ho detto di non sparare agli alloggi?
Salto in piedi e continuo ad avanzare. Il silenzio è pesante, troppo fitto per essere vero, e un silenzio di questo genere può essere indice solo di due cose. La prima è un agguato.
Spalanco la porta degli alloggi di Charles Lee – Generale, dice la targa lucida come uno specchio nonostante la polvere delle esplosioni – con un calcio, facendo scattare i polsi in modo che le lame celate scintillino nella penombra. È notte, il momento perfetto per una resa dei conti. Una parte di me ha male al cuore solo a pensarci. Perché devo farlo, perché mi tocca ucciderlo? Lui non mi risparmierebbe, allora qual è la differenza tra noi due, tra l'essere un Templare e l'essere un Assassino?
Gli alloggi di Lee sono vuoti, bui e straordinariamente ordinati, le mappe raccolte in cilindri sulle mensole, i libri senza un po' di polvere, le armi trionfalmente appese alle pareti.
Non c'è nessuno, e in cuor mio ne sono grato. Devo tornare a casa, parlare con Achille e decidere cosa fare a questo proposito. Non sono più poi così sicuro di volerli...
Sbam! Il rumore di un oggetto di legno caduto sulla pietra. Il mio cuore salta un battito, sguaino la spada lunga e m'avventuro in quella direzione.
Apro la porta della toeletta, anche quella così ordinata da far sembrare che lì viva una donna, non un soldato. Vuota e di classe nonostante sia un po' spartana. Tump. Rumori sommessi provenienti dalla parete alla mia destra, come di un disperato che batte alla porta in cerca di un minimo aiuto. Quale porta, però? Ovunque mi giri ci sono solo pareti di legno, libri – una piccola mensola occupa lo spazio sopra il lavandino – e ordine così metodico da farmi girare la testa. Il rumore continua, lo segue un gemito, e faccio l'unica cosa che mi sia istintiva: fendo l'aria con la lama, creando uno squarcio nel pannello di legno. Oltre, riesco appena a intravedere uno spazio buio e qualcosa che si muove, come un'ombra, ma lo squarcio è troppo sottile per passarci. Sento un altro gemito, stavolta di dolore, una specie di risucchio, e meno un altro fendente. Il pannello si apre in quattro e le schegge volano in tutte le direzioni, ma non smetto di fremere. Afferro il legno a mani nude e lo strappo via con i palmi che cominciano a sanguinare. Qualcosa non va, ed è ben più di un presentimento. È una certezza.
Getto una gamba al di là del varco di legno, i gemiti che si fanno sempre più sottili e svaniscono. Sento la testa girare, e per un istante non c’è più nulla: non ci sono più i colpi di cannone e mortaio delle navi e questo posto vuoto è completamente avvolto nel silenzio. Come un cimitero. Come se fossimo già tutti morti e stessimo solo ingannando il tempo e noi stessi.
Faccio per sussurrare: – Lee? – muovendo un passo a sinistra, ma inciampo e finisco carponi sul pavimento. Allungo le mani alla ricerca delle pareti a pannello, dell’uscita o di un appiglio, e mi capita tra le mani uno sgabello. In legno, nemmeno troppo alto, rovesciato con noncuranza nel mezzo di quella stupida intercapedine adibita a stanzino. Mi alzo lentamente, i palmi sudati, e lo sento.
Ho ucciso alcune persone e diversi soldati. Utilizzare l’aggettivo molti mi fa venire i brividi, quindi rimarrò sul vago. Probabilmente ero io – nella furia dei combattimenti – a non farci caso, ma non ho mai sentito le persone che ho ucciso lamentarsi in quel modo o fare rumore. Sono morte silenziosamente. Tutte quante.
Per questo il rumore che sento lì, immerso nel buio più profondo e gelido, mi devasta dall’interno, come consumandomi il petto e da lì raggiunge ogni altra parte del corpo per irraggiamento.
Crack. Il rumore delle ossa spezzate, delle case buttate giù, del legno che cade. Il rumore della vita che finisce.
Istintivamente salto fuori dallo stanzino e, con le mani tremanti, mi guardo attorno, afferrando una lucerna appesa a un arrugginito anello metallico. Ho paura. Lancio un’occhiata all’intercapedine, e non vedo più movimenti. L’ombra ha smesso di agitarsi, io ho appena dato il via alle danze.
Di nuovo, oltrepasso i pezzi di legno appuntiti e alzo la fiammella per osservare meglio il piccolo ambiente.
Freddo, ma probabilmente non aveva spifferi finché non ho spaccato una delle pareti. Il pavimento è in pietra, come quello della stanza accanto, sembra appena spazzato. E in alto…
– No.
Non riesco a pronunciare altre sillabe, ho quel maledetto no incastrato in gola e non riesco a liberarmene. Continuo a ripeterlo come una cantilena mentre lascio cadere la lucerna e m’accascio sulle mie stesse ginocchia, le mani paralizzate. Non controllo i miei muscoli, non posso coprirmici gli occhi e smettere di guardarlo.
L’ombra non aveva smesso di agitarsi. È qui. Davanti ai miei occhi. I suoi piedi scattano a una spanna dal mio volto, rigidi, contorcendosi per arrivare in un luogo impossibile da raggiungere, ormai. Le mani. Sono impressionanti. Grosse vene bluastre sporgono sui dorsi, si stanno spingendo fino alla corda che stringe il collo, cercando di porre fine a quel supplizio. Sono sporche di sangue. Anche la camicia bianca lo è, e scommetto che se la redingote non fosse blu vedrei anch’essa trapuntata di quelle stelle rosse.
Continuo ad alzare lo sguardo, è più forte di me. Vorrei fermarmi, lo vorrei davvero. Non ci riesco. Non voglio vedere, eppure non posso farne a meno. Le labbra sono coperte di sangue, s’è morso la lingua. È normale che succeda, in questi casi. Così ho sentito dire. Parlarne, parlare di questo come se fosse una cosa che si vede tutti i giorni… provo un senso di repulsione al solo pensiero di trattare l’argomento con tanta leggerezza. Ha i denti scoperti.
Poi incrocio i suoi occhi e scoppio a piangere. Non riesco più a trattenermi. Con le mani sulla bocca e le palpebre che si rifiutano di battere, non ce la posso fare. Ha le pupille puntate nelle mie, le iridi grigie nella penombra che sembrano implorare pietà e disprezzarmi nello stesso istante. Quei dannati bulbi oculari stanno per schizzare fuori dall’orbita, non manca molto, è questione di secondi prima che scivolino via, ciondolando come frutti maturi dai rami, e il sangue inzuppi il suo cappotto e il mio viso, s’insinui nei miei occhi e riempia le mie vene più di quanto vi sia già dentro.
E così com’è andato avanti per tutto quel tempo, scalciando, dilaniandosi la lingua e fulminandomi con lo sguardo, improvvisamente cede. S’è arreso.
Mi lascio andare ad un pianto disperato. Urlo, gemo, strillo, grido finché i polmoni non sembrano prendere fuoco, allora riprendo a piangere. Sembra che quelle dannate lacrime non finiscano mai, una cascata infinita e rovente, lava che plasma i paesaggi. Non riesco a fermarle. È come arrestare un fiume di disperazione, panico e dispiacere.
Non doveva succedere.
Il mio sguardo corre ancora una volta su per la corda, fino al punto in cui è legata con un nodo perfetto – un nodo da marinaio – ad una delle travi a vista del soffitto. Poi scendo di nuovo, e lo guardo tra le dita coperte di sangue e il velo delle lacrime. Con le braccia lungo i fianchi e gli occhi aperti sul mondo, come se la sua curiosità non si fosse esaurita nel corso di oltre cinquant’anni e avesse bisogno di saziarla ancora e ancora, di continuare a nutrire lo stesso mostro che l’ha trascinato negli abissi.
– Andiamo via, Connor. – La voce di Samuel Adams non mi riscuote. È un fastidioso sottofondo. – Fatelo scendere da lì. Gli daremo una degna sepoltura.
Prima che potessi ucciderlo o soccombere in combattimento, prima che potessi decretare la supremazia – seppur momentanea – degli Assassini sui Templari o viceversa, prima che avessimo la possibilità di mollare le armi a terra e parlare solo per un attimo, di confrontarci, lui mi ha battuto sul tempo. Ha battuto sul tempo tutti noi, stando mille passi più avanti.
Come il diavolo.
E come davanti al diavolo, non posso davvero credere che sia lui.
Non posso credere che l’uomo che ho visto agitare i piedi e strabuzzare gli occhi un’ultima volta, con la lingua morsicata e la faccia sporca di sangue mentre s’impiccava e dava una bella lezione a noialtri poveri idioti, facendoci capire quanto la nostra stessa battaglia, alla fine, sia un ciclo infinito che non porterà a niente, Dio, non posso davvero credere che quest’uomo sia mio padre.
Lo tirano giù mentre continuo a piangere come un bambino, e i miei occhi strizzati incontrano i suoi un’ultima volta. È stato un modo per impartirmi una lezione? È stata l’ennesima dimostrazione di quanto sperare sia sbagliato?
O l’ha fatto per sé?
Non ho mai saputo niente di lui. Ho sempre pensato che quelle due cose – aver quasi ucciso mia madre e l’essere un Templare – fossero abbastanza per odiarlo e non comprendere mai le sue ragioni.
Mi sbagliavo, e lo vedo ora, mentre, come se non fossi parte del mio corpo, m’accorgo di star trattenendo il corpo non ancora rigido di mio padre, stringendolo a me come una bambola di pezza.
– Ragazzo, è andato. Non c’è più nulla da fare.
Non c’è più nulla da fare perché siamo stati – sono stato – così stupido da non agire finché ne ho avuta la possibilità.
E ora, questo è quanto.
 
Accarezzo la lapide con le dita. Se ne sono andati tutti, anche Sam.
Non penso credesse in Dio. A chiunque altro non importerebbe – non ora che è sotto terra – ma io trovo dannatamente ipocrita la croce sulla sommità di quel pezzo di pietra, ad onorarlo con qualcosa in cui lui non riponeva alcuna fiducia.
Così, in ginocchio davanti alla lastra con il suo nome e cognome, data di nascita e morte incise in un carattere austero che scommetto gli sarebbe piaciuto, ripenso a tutto ciò che sapevo di lui. È come fossi io stesso a girare il coltello in una ferita aperta, ma lo faccio perché me lo merito. Perché in parte è colpa mia.
Si chiamava Haytham E. Kenway. Per cosa stesse la E non l’ho mai saputo, ma ho sempre pensato fosse Edward, come mio nonno. Ed era inglese, nato a Londra. Mi pare che questa cosa del dare al figlio il nome del padre sia molto europea.
Non mi aveva mai confermato di essere figlio unico, ma so che aveva cinque fratelli qui, alle colonie. Fratelli che mi sono imposto di uccidere ed eliminare dalla superficie della terra. William Johnson, Thomas Hickey, Charles Lee, John Pitcairn e Benjamin Church, la sua unica famiglia. I Templari. I miei nemici giurati. E io, il suo stesso figlio, li ho uccisi.
Gli piaceva il tè, o così ricordo. Era molto sarcastico, con la battuta – o insulto – sempre pronta. Sapeva essere crudele e lo mandava in bestia il fatto che non possedessi il suo stesso senso dell’umorismo. Come se cercasse qualcosa di se stesso in me, qualcosa che lo avrebbe spinto a risparmiarmi.
Senza trovarlo.
Perché mi avrebbe ucciso, ne sono sicuro. Mi avrebbe fatto a pezzi se non ci fosse stato qualcos’altro, qualcosa di cui non voleva parlarmi. Quindi resto a brancolare nel buio, con gli occhi lucidi ma così secchi. Non riesco a staccare le dita da quelle parole.
Teneva molto alle sue armi, specie alla spada e alla lama celata. Ci scherzava su, di tanto in tanto, ma la guardava con sacralità per la maggior parte del tempo, così mi sono fatto l’idea che fosse una reliquia o un trofeo di battaglia. Non era come gli altri Templari, ma allo stesso tempo mi rendo conto di quanto questa frase sia sbagliata. Nel corso della mia vita ho ucciso cinque Templari, cinque uomini votati ad una stessa causa, e non ce n’è stato uno con lo stesso modo di affrontarla dell’altro. Erano tutti diversi, com’è consuetudine tra gli uomini. Un altro dei miei errori.
Era persuasivo, carismatico come io non sarò mai. Mascherava con la strafottenza ciò che pensava in realtà, ciò che l’aveva spinto a impiccarsi al soffitto di Fort George. Non mi ero mai preoccupato di scoprirlo.
Ecco ciò che sapevo di lui. Me lo facevo bastare, pensando che avesse torto su tutta la linea e non avrei mai smesso di odiarlo, che ucciderlo sarebbe stato facile come esalare un respiro.
Haytham E. Kenway, 12-4-1725 – 9-16-1781.
Nessun epitaffio. Non ho avuto il coraggio di scriverlo.
– Mi dispiace, ragazzo.
Non trasalisco nemmeno. Riconosco la sua voce, è rimasta impressa nella mia mente da quando l’ho sentita per la prima volta ed ero poco più di un bambino. Ho immaginato questo momento tantissime volte, pensando che gli sarei saltato al collo e avrei affondato la lama del tomahawk nella sua faccia, ripetutamente, senza fermarmi finché fosse rimasto ancorato alla vita.
Ora non ci penso nemmeno, invece. La sua mano bianca scava nella tasca, ne tira fuori un fiammifero e si accende qualcosa che tiene stretto tra le labbra. Sorride tristemente, i favoriti coperti di pelo scuro e gli occhi azzurri – di solito gelidi e crudeli, oggi sorprendentemente dolci e colmi di lacrime che continua a mantenere imbrigliate con tutta la propria forza – cercano i miei. Anche il suo corpo si protende verso il mio, compiendo un gesto sereno e spontaneo, del tutto inaspettato da parte di entrambi.
Mi passa il sigaro, e non posso dire di no. Non voglio. Sento il bisogno di stringere quell’involto di tabacco tra le dita e in bocca. – Ti manca? – chiede, tornando a guardare dritto davanti a sé. A guardare il suo nome.
– Come non è mai successo prima che morisse – ammetto mentre una lacrima rotola giù per la mia guancia. – A te?
Charles Lee mi fa cenno con le dita di restituirgli il sigaro acceso. Aspiro il fumo, lo mando giù, ma non è come m’aspettavo. Non fodera il corpo dal dolore e non aiuta a rinchiudere quella maledetta sensazione in qualche posto oscuro della nostra testa. – Era come un padre – dice, e non si preoccupa del fatto che fosse prima di tutto mio padre. – Gli ho voluto bene, davvero. – Fa un lungo tiro e manda giù. – Ne sapevi qualcosa?
Scrollo le spalle. – No. L’ho visto morire con questi occhi. – E mi tornano in mente i suoi, di occhi, sgranati e colpevolizzanti nei miei, quando non ho fatto nulla per tagliare la corda.
– Capisco – prosegue Lee. Si tiene stretto il sigaro, a quanto vedo. – Ha avuto un vita difficile. Mi ucciderai? – Lo dice così istintivamente, come tutto l'interesse per mio padre fosse sfumato di colpo. Ha qualcosa di più importante di cui preoccuparsi, la sua stessa sopravvivenza.
So cosa dovrei rispondere. Dovrei affondare la lama nel suo collo e lasciarlo a versare sangue sulla fossa di mio padre. – No – rispondo in un sospiro. – Mi passi...? – Lee mi porge il sigaro con un gesto scocciato. – Grazie. Non credo valga più la pena di battersi.
Le sue labbra si aprono in un sorriso sornione. – Dunque mi lascerai agire come voglio? Lascerai che provi a mettere questo Paese nelle mani dell'Ordine? Tu? Dopo quello che credi ti abbia fatto? – Ridacchiò, scrollando il capo con energia.
Sentii il fumo invadermi i polmoni con il gusto piacevole del tabacco e delle spezie. – Nessun Ordine è formato da un solo uomo, Lee – feci. – E sei ancora sotto George Washington. È circondato da guardie del corpo, e dopo ciò che ha tentato di fare al mio villaggio posso anche dire in tutta franchezza che se lo meriti. – Non ha nessuna possibilità di spodestare Washington da solo. Se accidentalmente morisse, il primo sospettato d'omicidio sarebbe lui. – Buona fortuna – bofonchio, alzandomi e schiacciando il mozzicone sotto il tacco degli stivali.
Charles mi saluta con la mano, guardandomi andare via. – Anche a te, Kenway.
Giro sui tacchi ed esco dal cimitero, con un brivido lungo la schiena per essermi sentito chiamare in quel modo. Charles Lee ha ragione. Io sono un Kenway. È nel mio sangue.
Sospiro con le mani nelle tasche, lo sguardo al tramonto. È morto con il sole. È morto. Non riesco a concepirlo.

– Ti voglio bene – sussurro voltandomi di nuovo a guardare il cimitero. – Addio, papà.
Riprendo a camminare nella direzione opposta, monto su un cavallo e raggiungo la tenuta in un secondo, come se fossi avvolto da una nebbia incantata.
Una tenuta vuota. Una vita vuota. Per chi o cosa ho fatto tutto questo? Qual è quell'ideale, così grande all'epoca e ora così bieco? Non riesco a focalizzarlo.
Mi siedo sulla vecchia poltrona di Achille e tiro fuori un oggetto dalla tasca. All'interno posso leggervi l'incisione con il nome di mio padre, il primo che l'abbia posseduto e calzato.
Sam non se n'è nemmeno accorto.
Apro la mano destra davanti al viso, il dorso rivolto verso di me, e con solennità infilo l'anello d'argento con la croce templare rossa all'anulare.
Dovrebbe essere freddo, ma non lo è. Come se avesse conservato il calore della sua pelle. – Che il Padre della Comprensione ci guidi – sussurro. Parole che non mi appartengono, identificano un ideale che non è il mio e pensavo non lo sarebbe stato mai. Ma esiste una fazione giusta e una sbagliata? Possiamo davvero riconoscere i buoni e i cattivi? C’è una risposta a questa domanda?
Respiro piano per non scoppiare a piangere di nuovo, quindi mi alzo, entro in cucina e scavo nei cassetti fino a trovare ciò che voglio. Appoggio la sinistra sul piano del tavolo, mordendomi il labbro. – Laddove altri seguono ciecamente la verità, tu ricorda: nulla è reale. Laddove altri si piegano alla morale e alle leggi, tu ricorda: tutto è lecito. – Stringo le dita della mano destra attorno all'impugnatura, la luce del sole sbatte sulla lama e m'abbaglia. Come essere illuminati direttamente dal paradiso. – Agiamo nell'ombra per servire la luce. Siamo Assassini. Nulla è reale, tutto è lecito.
Calo il coltellaccio con violenza e uno schizzo rosso inonda il tavolo. Il legno pare ancora più lucido. Le prime due falangi del mio anulare sinistro rotolano a terra col sangue.
Avvolgo il dito mozzato in un panno, guardandolo tingersi di rosso in pochi secondi.
Mi accascio di nuovo sulla poltrona, scoppiando in una risata folle.
Eccomi. Che cosa sono? Che cos'è giusto, cos'è sbagliato? Assassino? O Templare? Che cosa sono? Qual è la verità? Esiste una verità? O l'unico salvo è Charles Lee?
Continuo a ridere come un pazzo, con questi dubbi che mutano in consapevolezze. Ora capisco. Capisco tutto.
Entrambi o nessuno. Ecco chi può salvarci. Entrambe le fazioni o nessuna delle due. Assassini e Templari. Altrimenti dovremmo cavarcela da soli, vivendo isolati da ambedue le idee e contando solo sul pensiero, il potere della nostra mente.
Impossibile. Lo so. Non si può vivere senza un codice di valori, non possiamo andare avanti senza un'idea da perseguire.
Entrambe o nessuna.
Che cosa ho scelto?
Rido ancora.
Che cosa diavolo ho scelto?
Non morirò come mio padre. Non voglio morire.
Se devo combattere, lo farò. Così sia.
Ringrazio l'ideologia degli Assassini per il taglio dell'anulare sinistro anziché destro, quindi prendo penna, carta e calamaio, indirizzando una lettera a Charles Lee.
Me ne pentirò?
Non m'importa. Se sono fortunato morirò prima che le mie azioni abbiano delle conseguenze.
Se non lo sono... ma che importa, dannazione?
Scrollo le spalle e infilo la lettera in una busta, chiudendola e poggiandola sul tavolo.
Tutto sta per cambiare.
Oppure moriremo, vittime di queste stesse azioni. Chi lo sa. 
  
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