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Autore: Sbasby    26/05/2014    4 recensioni
La vita di Claire è quasi perfetta.
Perfetta escludendo una famiglia che la odia, un passato doloroso e un'oscura entità che alberga dentro di lei e che è pronta a distruggerla.
La vita di Claire non è affatto perfetta.
La vita di Claire è un inferno.
-Sesta classificata al contest "Dentro l'anima fino a farsi male" indetto da S.Elric_ sul forum di EFP
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sentiero dei garofani rossi
 






Sbatté con forza la porta alle proprie spalle e, con ancora nelle orecchie i suoni stonati di quel dannato strumento, si avviò lungo il corridoio. La casa era deserta e tutto pareva immobile, imprigionato in uno statico silenzio. Cominciò a trascinare i piedi lungo il corridoio, senza sapere dove fermare lo sguardo. Negli ultimi giorni aveva cercato, disperatamente e con tutte le sue forze, di trovare in quella casa qualcosa che le portasse alla mente ricordi felici, qualcosa di cui avrebbe sentito la mancanza.
Non aveva avuto successo.
Tutto di quel posto la disgustava, ogni ricordo che la legava a quelle mura le istillava, sempre più prepotente, il desiderio di scappare. I ritratti dei suoi antenati, appesi alle pareti, le incutevano un grande timore e i loro occhi dalle tinte glaciali la inquietavano, al punto che ogni volta che vi passava davanti, si costringeva ad abbassare il capo. Le pareti bianche come la neve, d’altro canto, non erano uno spettacolo migliore. Tutto quel candore la faceva sentire fuori posto, troppo piccola e troppo sporca per vivere tra tutta quella meraviglia. Il peggio, però, erano senza dubbio l’oro e l’argento che spuntavano in ogni angolo della casa, piazzati a forza anche nei locali più umili.
Erano ormai lontani i giorni in cui lei e sua sorella Angelique giocavano beate nelle stanze di quell'enorme casa, fingendo di essere principesse nel loro personalissimo castello. I giorni in cui ancora la divertiva il suono che i tacchi delle scarpe producevano sul pavimento d’ebano; in cui lei e sua sorella erano un’unica entità, mai le avrebbe sfiorate l’idea di separarsi. I giorni in cui si sentiva amata e importante.
Rise di se stessa e della sua ingenuità, perché, di certo, importante lei non lo era per nulla, meno che meno in quella prigione d’avorio.
Un suono ovattato, come di caduta, le arrivò leggero all’orecchio.
Sorrise intimamente e voltò lo sguardo alle proprie spalle, per farlo cadere sulle chiazze vermiglie che interrompevano le rigide striature del legno, da lì suoi occhi seguirono la scia di petali rossi, fino a posarsi su quelli che, con grazia, stavano rotolando tra le pieghe della sua gonna, in una lenta caduta verso il suolo. Dal fondo della sua gola sorse una risata debole e meschina, che persino lei stentò a riconoscere. Con un sospiro stanco, si girò nuovamente verso la fine del corridoio e riprese a camminare.
Aprì piano la porta della sua stanza e il vestito rosso rubino, piegato malamente nel baule aperto ai piedi del letto, attirò subito il suo sguardo. Sfiorò la seta vermiglia in una carezza leggera e scandagliò con gli occhi il resto della stanza. Quello era l’unico luogo della casa che parlasse realmente di lei, dal pettine in argento posato sul comò al suo libro preferito nascosto sotto il cuscino. Accarezzò con lo sguardo la struttura in legno di noce del letto a baldacchino, da cui pendevano, pesanti, le tende damascate. Mosse qualche passo e si affacciò alla finestra, che dava direttamente sulle vie di Delft.
Sotto di lei, un gruppetto di cinque bambini giocava per strada, rincorrendosi tra il disappunto dei passanti. Tutto imbacuccato in un cappotto grigio fumo, un ometto occhialuto zoppicava appoggiato al suo bastone da passeggio.
Ai margini del suo campo visivo, notò un puntino di luce sul muro alla sua destra.
Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che, alle sue spalle, appesi a un leggio mai utilizzato, pendevano sette pezzi di vetro colorato che proiettavano i raggi del sole morente in giro per la stanza. Si girò, infine, verso lo specchio a figura intera appeso alla parete. Fissò con disgusto la cornice dorata, incastonata di rubini, ed emise un sonoro sbuffo.
Certamente, di tutto quel ciarpame, quello era l’oggetto di cui avrebbe sentito meno la mancanza. Faticava a ricordare l’ultima volta in cui aveva sorriso di fronte alla propria immagine riflessa.
Per un attimo, su quella fredda superficie, rivide la se stessa di qualche anno prima. La bambina dolce e ingenua che non aveva un problema al mondo, se non quello di decidere cosa far indossare alle proprie bambole.
Da ormai sei anni di quella bambina non vi era più traccia.
Era stata spazzata via, all’improvviso, come un castello di sabbia durante l’alta marea.
La vita le aveva scagliato contro un’onda anomala che l’aveva cambiata per sempre.




Dieci anni.
Aveva soltanto dieci anni quando i primi buchi neri cominciarono a insinuarsi nella sua mente.
Era il giorno del suo compleanno e tutto sarebbe stato perfetto se non avesse notato, a metà della cena, le lacrime che rigavano il volto di suo padre.
“Padre, perché piangete?” Chiese con tono sommesso.
Un silenzio tombale scese d’improvviso sulla tavolata, il respiro di sua sorella Stephanie s’interruppe in un verso strozzato e la serva Caroline, sempre sorridente, si ritirò in cucina con un’espressione desolata dipinta sul volto. L’uomo le lanciò uno sguardo gelido e, con movimenti meccanici, si alzò da tavola.
“Io vado nello studio, vi prego di non venire a disturbarmi.” Dichiarò con voce rotta.
Mentre i passi del padre rimbombavano attraverso il corridoio, le ragazze rimasero immobili al loro posto, le schiene fissate in erette e statiche posizioni imparate con anni di galateo.
Lei continuò per qualche minuto a dondolare inquieta i piedini oltre il bordo della sedia troppo alta, mentre le sorelle terminavano la cena nel più completo silenzio.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?” non poté trattenersi dal chiedere.
Stephanie posò stizzita la forchetta sul tavolo e Angelique le rivolse un’occhiata curiosa.
La maggiore alzò un grigio sguardo vacuo su di lei, stampandosi in viso una smorfia tirata che avrebbe dovuto essere la caricatura di un sorriso.
“O Claire, non essere sciocca. Non hai fatto nulla di male. Nostro padre è solo molto stanco.”
Il suo tono era teso e le mani, che stringevano convulsamente le pieghe del vestito, rendevano chiaro alle altre due che stesse mentendo. Nonostante fosse la maggiore e chiaramente la più informata riguardo tutto ciò che avveniva in casa, nessuna delle due sorelle si era aspettata che potesse esservi una qualsiasi sorta di segreto che lei e il padre serbassero per loro. Perché la dolce, premurosa e tranquilla Stephanie era arrivata a fare qualcosa di cui non era minimamente capace, come mentire? Claire e Angelique si lanciarono uno sguardo d’intesa e, in assoluta sincronia, si alzarono da tavola, porgendo un saluto sbrigativo alla sorella e lasciandola sola in sala da pranzo.
“Hai notato anche tu?” domandò la più piccola.
L’altra annuì convinta e affrettò il passo, deviando il percorso di entrambe verso la biblioteca.
Si chiusero alle spalle il portone di legno e si gettarono senza grazia sulle poltroncine di velluto rosso, nascoste in un angolino tra gli scaffali.
“Erano tutti talmente strani. Non capisco cosa gli sia preso.” Mormorò Angelique, portandosi una ciocca biondo cenere dietro l’orecchio.
Sulle sorelle cadde il silenzio, interrotto soltanto dal ticchettare della pendola che si trovava alle loro spalle. Claire non staccava gli occhi castani dalle alte vetrate, mentre la sorella dondolava i piedi oltre il bordo della poltrona, lanciandole ogni tanto qualche occhiata obliqua.
Dopo svariati minuti, la minore emise un lungo sospiro.
“Angie?”
“Sì?”
“Credi … credi che papà piangesse per colpa mia?” Chiese con un fil di voce.
L’altra si voltò di scatto, un’espressione sorpresa a scombinare i lineamenti dolci e infantili del suo viso.
“No! Assolutamente no! Perché mai pensi questo?” Domandò con un tono acuto che danzava su un sottile confine tra il preoccupato e lo sconvolto.
La bambina tentennò, torcendosi le dita delle mani e tenendo lo sguardo ostinatamente fisso sul pavimento, quasi le nervature del parquet avessero di colpo assunto le sembianze di un chiaro disegno divino.
“Oggi, in fondo, è il mio compleanno, magari se è triste in questo giorno, è colpa mia. E poi … si comportavano tutti in maniera così strana. Se la colpa non è mia, perché Stephanie ha dovuto mentirmi?”
A ogni parola, la sua voce scendeva di tono, portandola a pronunciare le ultime lettere in un sussurro colmo di tristezza. La sorella si alzò di scatto e corse da lei, cingendole le spalle esili con le proprie braccia, tentando in tutti i modi di fermare i tremiti che cominciavano a scuoterle sempre più violentemente. Claire si strinse nel suo abbraccio e nascose il viso nell’incavo del suo collo, cercando di nascondere le lacrime che si era lasciata sfuggire.
“Claire, basta adesso. Ti prego, smettila. Non è così, credimi! Anzi, se vuoi, vado a parlare con Stephanie, così ti dimostro che tu, con il malumore di nostro padre, non c’entri un bel niente” le sussurrò la bionda all’orecchio.
Detto questo, con un'ultima argentea occhiata, imboccò a grandi passi l’uscita e sparì oltre la porta della biblioteca. Claire si passò una mano sul volto, asciugando le scie salate che le percorrevano le guance, e fece un profondo respiro. Gettò qualche occhiata impaziente alla porta e cominciò a battere nervosamente un piede per terra. Le era davvero impossibile rimanere lì ferma ad aspettare, decise sul momento che nessuno avrebbe potuto pretendere questo da lei, non in quella situazione. Troppo ansiosa, o troppo curiosa, si alzò di scatto e seguì la sorella lungo il corridoio.
Passò davanti a varie stanze, ritratti di guerrieri armati e dame incipriate, armature perfettamente lucidate e busti di marmo dall’aria altera, prima di trovarsi davanti alla porta chiusa della camera di Stephanie. Accostò l’orecchio alla fredda superficie del legno e le voci delle sue sorelle che discutevano le giunsero smorzate all’orecchio.
“Angelique, ho detto basta. Non mettere il naso dove non devi, tutto questo non ti riguarda.” Sbottò Stephanie con voce alterata.
“Steph, insomma! Certo che mi riguarda, ci riguarda tutti, siamo una famiglia!” esclamò Angelique.
“NO!” urlò la maggiore da dietro la porta.
Il respiro di Claire si spezzò, infrangendosi contro la superficie lignea. La bambina fissò sconvolta il vuoto davanti a se, incapace di formulare un solo pensiero concreto.
“Che cosa stai dicendo?” chiese in un tremolio la secondogenita.
Ci fu un momento di pausa, come se Stephanie stesse raccogliendo dentro di sé la forza per rispondere.
“Sorellina, non chiedermi di spiegarti. Sarebbe troppo doloroso, per entrambe. È meglio per te non sapere, fidati di me.”
“Insomma, cosa? Cos é meglio che io non sappia?” fu lo strillo esasperato cui seguì un forte tonfo.
“ANGELIQUE! Abbassa la voce e non osare mai più utilizzare quel tono in questa casa! Sei una bambina intelligente, ma devi imparare a rispettare chi ti circonda, se non vuoi finire come nostra madre!”
Il cuore di Claire mancò un colpo e le sue mani si strinsero a pugno.
Mamma?
“Cosa c’entra la mamma adesso?”
Si sentì un forte sospiro, poi qualche attimo di silenzio. La tensione nell’aria era tale che Claire, ne era certa, avrebbe potuto tagliarla con un coltello.
“Siediti sorellina”
“Non voglio sedermi, voglio una spiegazione!”
“È MORTA DI PARTO, VA BENE?!” sbottò improvvisamente.
Le gambe di Claire tremarono e lei temette di non riuscire a rimanere in piedi. Respirare le sembrava sempre più difficile e grossi goccioloni salati premevano da dietro le palpebre per uscire. Tentò di inghiottire il groppo che le si era formato in gola e ricacciò indietro le lacrime.
“E se proprio vuoi sapere tutta la verità, sono fermamente convinta che Nostro Signore le abbia dato la punizione che meritava!”
Un verso strozzato, appena udibile da dietro quella porta che le stava celando la concitata discussione che la stava lacerando dentro.
“Come puoi dire questo?” un singhiozzo sommesso, il tono della voce impregnato di lacrime trattenute a stento, lo sdegno contenuto nelle parole.
Quella semplice domanda scosse Claire nel profondo e da un angolino oscuro del suo animo qualcosa si mosse, in punta di piedi, appena percettibile, tanto discreto da passare inosservato.
“Non guardarmi a quel modo, come se non sapessi più chi ti trovi davanti! Non sono io il mostro, lei lo era! Ha distrutto la nostra famiglia, ha spezzato il cuore di nostro padre, ha perfino osato portare il suo amante in casa nostra! ERA SOLTANTO UNA SGUALDRINA! Forse è meglio per te non averla mai conosciuta.”
Queste parole risolute furono l’ultima cosa che Claire udì, prima che una fitta nebbia, sorta dal profondo di lei, la avvolgesse completamente.
Buio.
Le ore seguenti rimasero per sempre immerse nella più totale oscurità.
In seguito Claire tentò più volte di ricordare cosa avesse fatto, visto o detto, ma aveva ottenuto soltanto una lunga lista di fallimenti. Dio solo sapeva quanto avrebbe desiderato sapere cos’era accaduto nella giornata che aveva distrutto la sua infanzia. Ma, in fin dei conti, forse non era nemmeno così importante capire.
No, probabilmente, era qualcosa di irrilevante.
Irrilevante davanti al fatto che Angelique non le aveva più rivolto la parola da quel momento. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a quel pomeriggio, nella biblioteca, e sentire nuovamente la sua vocina sottile che la avvolgeva con parole d’affetto.




I sei seguenti furono anni di assoluto inferno.
Imprigionata nella propria casa insieme ad una famiglia che, ormai lo sapeva, non la considerava altro che l’incarnazione di un tradimento bruciante, sentiva e sapeva di essere solo un peso in quel luogo che aveva visto tanto dolore e non riusciva a perdonare se stessa o la madre per il tragico risvolto che avevano preso la sua vita e quella dei suoi cari
Un mese prima era arrivata la stoccata finale, il colpo di grazia. Era un giorno come tanti altri, si era rinchiusa in biblioteca, stanza che non abbandonava quasi mai, quando suo padre entrò con incedere deciso e le si parò davanti.
“Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.” Aveva dichiarato con una voce talmente gelida che la ragazza quasi si era stupita di non scorgere uno spesso strato di brina imprigionato nella sua barba bionda. Claire aveva alzato appena il naso dal libro che stringeva tra le mani e aveva fissato la figura slanciata dell’uomo: i suoi occhi grigi splendevano di risolutezza e la bocca sottile era contratta in una smorfia scocciata.
Si aspettava una risposta da lei?
Una domanda?
Una qualsiasi forma di interesse?
Sarebbe rimasto deluso.
Aveva fatto un vago cenno di assenso e si era rigettata a capofitto tra le pagine ingiallite dal tempo. Il respiro dell’uomo si era fatto più pesante e rumoroso, in un’evidente pretesa d’attenzione. La figlia aveva trattenuto a stento un sorriso di pura soddisfazione per cui, lo sapeva, avrebbe pagato un caro prezzo.
“Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi. Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie.”
Un tonfo sordo aveva riempito l’aria e la ragazza aveva guardato inorridita il tomo, che pochi istanti prima stringeva fra le dita, giacere a terra aperto malamente. Aveva alzato lo sguardo attonito sull’uomo, ma si era trovata a fissare il vuoto, mentre nelle orecchie le rimbombavano i passi pesanti che lo stavano conducendo lontano da lei.
Ho concluso un accordo con il signor Lefevre.
Il respiro le si era fatto sempre più affannoso e una morsa bruciante le aveva stretto la gola.
Aveva raccolto timidamente il romanzo da terra e aveva mosso qualche passo malfermo, per riporlo con cura sullo scaffale lì accanto. Aveva allungaro una mano verso il bracciolo della poltrona, in cerca di un valido appoggio.
Suo figlio Vincent ha deciso di sistemarsi.
Le gambe le tremavano e non era più sicura di riuscire a reggersi in piedi.
In quale momento la stanza aveva cominciato a girare?
Ho già firmato i documenti per farti diventare sua moglie.
E poi il nulla.



Di quei giorni ricordava la rabbia.
Ricordava le lacrime e le urla soffocate nel cuscino che, come ogni notte da sei anni a quella parte, si facevano sempre più forti, più disperate, quanto più i suoi incubi si facevano crudeli.
Ricordava lo scricchiolio delle proprie nocche contro il muro e il dolore che le aveva preso la mano.
Ricordava più di tutto il silenzio, che regnava ogni giorno con più fermezza sulla casa, e l’oscurità, che la avvolgeva sempre più spesso.
Tuttavia erano tante, troppe, le cose che proprio non riusciva a ricordare.
Non ricordava il momento in cui aveva buttato a terra tutti i libri dallo scaffale, né quando avesse tirato giù le tende del proprio letto a baldacchino e neppure il momento in cui aveva assaltato la casa delle bambole di quando era bambina.
Sapeva soltanto che, tornata in sé stessa, aveva trovato il pavimento della propria camera cosparso di corpi di pezza con arti mancanti e manine di porcellana mezze distrutte. I piccoli visi, di un bianco innaturale, la osservavano, con le loro crepe sulle guance e i loro nasi spuntati.
Accidenti, guarda cos’hai combinato.
Un moto di terrore l’aveva invasa nel profondo. Si era portata le mani sulle orecchie, in un inutile tentativo di scacciare quella voce tagliente, che conosceva fin troppo bene, dalla propria testa.
Perché provi ancora a liberarti di me? Sai bene che non ci riuscirai.
Basta, ti prego!
Ma guardati! Sei patetica! Supplichi te stessa di lasciarti in pace. Per quanto ancora pensi di riuscire a scappare dalla verità? Loro ti detestano, tutti quanti, non hai visto com’era contento nostro padre mentre ti diceva che si sarebbe liberato di te?
“Smettila! Sono stanca di sentirtelo ripetere! Tu non sai niente, niente di niente!” aveva urlato con tutto il fiato che aveva in gola
Una furia cieca l’aveva invasa e, senza nemmeno avere il tempo di realizzare cosa stesse facendo, le sue mani avevano artigliato la struttura del letto.
Aveva graffiato, con forza, finché non aveva visto dei solchi interrompere le nervature del legno, finché non aveva sentito le proprie unghie spezzarsi, grosse schegge entrarle nella carne e il sangue che imbrattarle i polpastrelli.
Pensi davvero che questa sia la soluzione?
L’aveva schernita la voce.
Cosa speri di ottenere, dimmi? O, meglio ancora, ammettilo a te stessa. Cos’é che vuoi? Punirti?
Perché mai dovrei? Non è stata colpa mia, non sono io la responsabile!
Di cosa, Claire? Di cosa vuoi convincerti di non essere la causa? Dillo!
IO NON HO UCCISO NOSTRA MADRE!
Un altro graffio contro al letto.
Dolore, intenso e pulsante.
Le mani avevano cominciato a tremarle
No, magari no. Ma di sicuro hai distrutto una famiglia.
Il tono di voce si era fatto sempre più sibilante e Claire non desiderava altro che spegnere ognuno dei suoi sensi. Voleva che i lividi sulle nocche smettessero di dolerle, che le mani smettessero di tremare, gli occhi di piangere … Voleva pace, voleva l’amore della sua famiglia, voleva la felicità che le era stata strappata.
Ma insomma Claire, non lo sai? Non c’è gioia per chi procura l’infelicità altrui.
Le ginocchia avevano ceduto.
E poi, per l’ennesima volta, il Buio.


Aveva aperto gli occhi, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato.
Poteva essere rimasta nell’oblio solo per pochi minuti.
O per svariate ore.
Era in piedi al centro della propria stanza. Aveva abbassato lo sguardo, ma il pavimento era sgombro e delle bambole distrutte non v’era più traccia.
Aveva fissato la parete lucida dello specchio davanti a sé e ne aveva accarezzato delicatamente la cornice, decorata con intarsi dorati. Aveva fatto scorrere le dita sui piccoli rubini incastonati nel metallo, che riflettevano i raggi del sole, creando punti di luce rossastri in giro per la stanza. Aveva passato lentamente lo sguardo su tutta quella manifestazione di superbia e ricchezza, cercando di ritardare il più possibile lo scontro con la sua immagine riflessa.
Il suo cuore aveva avuto un leggero sussulto quando, nell’estremità più bassa dello specchio, aveva visto chiara l’immagine di un morbido panneggio di seta rossa. La sua mano era corsa automaticamente all’ampia gonna che le stringeva la vita e, sotto i polpastrelli, aveva percepito chiaramente la consistenza della stoffa pregiata.
Mentre passava le dita tra le pieghe della gonna, il panneggio rosso nello specchio si era mosso, quasi fosse animato di vita propria.
Aveva osato alzare timidamente lo sguardo verso l’immagine riflessa e quello che aveva visto l’aveva sconcertata al punto da farla indietreggiare di un passo.
La ragazza riflessa nello specchio indossava un ampio vestito di un rosso acceso. La seta le fasciava il corpo minuto, per poi cadere in un una cascata di morbide pieghe lunga fino al pavimento.
Quando aveva indossato quell’abito?
Non riusciva proprio a ricordare.
La consapevolezza dell’aver perso il controllo di sé per l’ennesima volta si era fatta spazio in lei, mentre un profondo senso di vergogna le aveva stretto lo stomaco.
Aveva fatto scorrere lo sguardo sulla propria figura riflessa, inorridendo alla vista delle mani. Il sangue incrostato bordava le unghie spezzate, le nocche livide si erano gonfiate e le dita avevano assunto, ormai, un’angolazione strana.
La sua linea di pensieri era stata interrotta da un deciso bussare sulla porta alle sue spalle.
“Claire, la carrozza è giù che ci aspetta. Non farmi fare tardi, mastro Vermeer è mio amico e non ho certo intenzione di fargli perdere tempo. Sbrigati.” L’aveva esortata la voce di suo padre.
Giusto, l’incontro col pittore.
Quando suo padre le aveva annunciato che il suo futuro marito desiderava avere un suo ritratto le era mancato il fiato.
Ogni giorno l’idea del matrimonio combinato la opprimeva di più e le sue gambe fremevano dalla voglia di correre via. Scappare lontano, dalla famiglia che la odiava, dalle mura di quella casa che le sembravano sempre più strette, da tutto. Sembrava un’opzione quanto mai desiderabile
Aveva costretto i propri piedi a seguire il padre lungo il corridoio, fuori dal portone di casa, fin sulla carrozza. Come era solita fare in presenza dell’uomo, o di qualsiasi altra persona, si era stampata in faccia una gelido sorriso d’educazione, nascondendo l’orrore che la lacerava da dentro. Qualcosa dentro di lei stava urlando e si era dovuta mordere forte la guancia per trattenerlo.
Era scesa con movimenti meccanici dalla carrozza, seguendo suo padre in casa del rinomato pittore. Si erano scambiati inutili convenevoli, come era giusto fare, e poi si erano diretti nello studio. Quando avevano varcato la porta dell’atelier, Claire si era trattenuta a stento dallo storcere il naso. Una spinetta, molto simile a quella che aveva a casa , occupava una buona parte della stanza.
Aveva rivolto uno sguardo interrogativo e di vago rimprovero all’artista che le sorrideva amichevolmente.
“Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.”
Aveva sorvolato tranquillamente sull’affermazione di suo padre e sul fatto che lei non sapesse suonare e si era posizionata dove il pittore le indicava. Era rimasta immobile al suo posto, il viso rivolto verso mastro Vermeer, ma gli occhi persi nel vuoto. Quelle ore le erano scivolate addosso come acqua, senza realmente toccarla.
Che grande errore avevano commesso i due uomini, permettendole di rimanere sola coi suoi pensieri!
Aveva riflettuto, valutato le ipotesi e finalmente si era decisa.
Quel ritratto sarebbe stato totalmente inutile.
Non si sarebbe celebrato nessun matrimonio.



Era stata decisamente fortunata quel giorno: suo padre sarebbe rimasto fuori tutta la giornata per lavoro e Angelique era andata al mercato.
Non avrebbe più avuto un’occasione del genere.
Si era alzata dal letto, lentamente, senza fretta e si era avvicinata a quel vecchio leggio abbandonato, da cui pendevano, indolenti, sette pezzi di vetro di colori diversi.
Due gialli, tre blu,uno rosso e uno solo trasparente.
Ricordava ancora quando, da bambine, lei e Angelique avevano creato quella piccola opera d’arte tutta per loro e la voce di Stephanie che le rimproverava.
Aveva allungato la mano tremante e staccato quello trasparente dal filo che lo teneva sospeso.
Se lo era rigirato fra le dita, valutandone la forma, tracciandone il contorno coi polpastrelli.
Aveva fatto un profondo respiro e, chiudendo a fatica la mano dolorante, aveva impugnato quel piccolo pentagono incolore.
Lo aveva portato al polso, chiuse gli occhi e premette forte.
Un forte bruciore aveva accompagnato il lacerarsi della pelle, mentre il sangue aveva cominciato ad affiorare.
Claire si era lasciata sfuggire un sospiro di sollievo: ogni millimetro di epidermide che recideva veniva liberato dalla tensione di cui, prima, non si rendeva nemmeno conto.
Spingi di più!
L’ordine era arrivato dal profondo della sua mente e, immediatamente, le sue dita avevano aumentato la pressione. Il dolore si era fatto più intenso e lei si era sentita solo più sicura.
Aveva ripetuto l’operazione sull’altro polso e riappeso il vetrino al leggio, come se niente fosse. Aveva visto il proprio sangue sporcare la punta e colare verso il basso.
Un’idea le era balenata improvvisa in mente e si era diretta spedita verso la sala da musica.
Aveva varcato la porta e l’aveva lasciata sbattere alle sue spalle, puntando lo sguardo sulla spinetta che troneggiava nel centro della stanza.
Si era avvicinata e aveva alzato le mani insanguinate.
Sentiva la sostanza calda che colava lentamente lungo le sue dita, imbrattando lei e la sua camicia da notte.
Aveva chiuso gli occhi e inspirato profondamente, mentre la rabbia aveva cominciato a riaffiorare.
Aveva premuto con forza le dita sui tasti e aveva sorriso nel vederli tingersi di rosso.
Ogni suono che quell’arnese emetteva accresceva in lei la rabbia e faceva aumentare la velocità delle sue mani.
Così com’era iniziata, la sua ira era cessata di colpo e lei aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi.
Vincent ama molto la musica, sarà lieto di vederti ritratta mentre suoni.
Addio Vincent.
Tu e la tua musica potete anche andare all’inferno.
Beh, dopo di me, ovviamente.
Gli angoli della sua bocca si erano tesi in un sorriso inquietante e dalla gola le era sorta una risata folle.
Si era avvicinata il polso destro al viso e aveva puntato gli occhi sul taglio orizzontale che lo attraversava. Il sangue che fuoriusciva lento si espandeva tutt’intorno, formando una corolla vermiglia che cresceva. Aveva riconosciuto i bordi frastagliati dei petali che si espandevano.
Un garofano era fiorito dalla ferita e, nel giro di pochi istanti, era rotolato giù, fino alla punta delle sue dita, dove era rimasto sospeso, prima di cadere a terra.
Si era voltata ed era uscita dalla stanza.



Sbatté le palpebre, riaprendo gli occhi sul presente.
La testa cominciava a farsi leggera e lei si sentiva sempre più stanca. Guardò il pavimento e vide il parquet impregnato del suo sangue.
Ci sei quasi Claire, un ultimo sforzo.
Si voltò e alle proprie spalle lo vide.
Un macabro sentiero rosso attraversava tutta la casa.
La luce che entrava dalla finestra si fece a un tratto accecante e lei dovette portare una mano a coprire gli occhi. Tutti i colori della stanza si fusero in un bianco abbagliante. Era già arrivata? Era questa la Morte?
Ai suoi piedi le macchie vermiglie fiorirono, una a una, trasformandosi in splendidi garofani.
All’improvviso non era più nella propria stanza, ma in piedi in mezzo ad un enorme prato e davanti a lei si stendeva una via di fiori rossi come il tramonto che toccava l’orizzonte.
In fondo a quella bizzarra via, vide comparire tre figure, avvolte da un’aura buia.
La sua famiglia.
Angelique, i suoi sorrisi di bambina, i suoi anni di silenzio, il suo odio per lei.
Suo padre, la sua voce gelida, le sue occhiate di fuoco, il suo odio per lei.
Stephanie, la sua apprensione per la famiglia, il suo disprezzo per la madre, il suo odio per lei.
Non gli mancherai, Claire. A nessuno di loro.
Un sospiro.
Un masso le si era depositato sul petto e le sue mani tremavano incontrollate.
Lascia andare, è il momento.
Si piegò sulle ginocchia e colse un fiore, lo portò al viso e un odore ferroso le invase le narici. Lo strinse forte nel pugno, mentre questo le si liquefaceva tra le dita.
Si stese sulla schiena e i suoi capelli rosso rame si mischiarono ai garofani vermigli.
Sorrise e, con un sospiro, si lasciò avvolgere per l’ultima volta dal Buio.
  
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