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Autore: njaalls    27/05/2014    7 recensioni
Say something, I’m giving up on you And I’m sorry that, I couldn’t get to you And anywhere, I would’ve followed you.

Il treno è appena passato, Tristan, e ti amo più di prima.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Tristan Evans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Pieces'
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Say something Say something, I’m giving up on you
And I’m sorry that I couldn’t get to you
And anywhere, I would’ve followed you.


«Ti sta bene» mi accarezzi le spalle, le tue mani lunghe e sfilate arrivano lente, delicate e leggere al mio fondoschiena, ma rimango impassibile e non provo nemmeno a capire a cosa tu ti riferisca, tanto, chi ti capisce? Forse accenni alla tua camicia di jeans vecchia e logora, un buco sopra il petto che «È proprio all'altezza del cuore» ripeti ogni volta, o forse alla collanina che mi hai regalato due settimane fa e che non avevo ancora indossato, o molto probabilmente al rossetto rosso che tengo a mezz'aria, mentre rimango piegata verso lo specchio del camerino. Ci sono le mie labbra che ora si sono accese di uno scarlatto scuro ed intenso, rubato al necessaire di Lauren, e ci sei tu che sembri piacevolmente sorpreso perché ho sempre odiato i rossetti rossi. Dico che sono volgari, troppo vistosi ed appariscenti per i miei gusti e tu mi rispondi che sarei comunque bellissima in qualsiasi modo e io ci credo, perché crederei a qualsiasi cosa uscisse da quelle labbra sottili e rassicuranti. I nostri occhi si incrociano sul riflesso freddo e imperturbabile e sento che io e te, insieme, potremmo fare la guerra e stipulare una pace, ma finire per odiarci sempre e comunque per quei difetti marchiati a fuoco e permanenti, le botte che subisci senza rispondere e le chiamate lunghe ed interminabili che non fanno altro che lacerarci, quando siamo lontani. Alle tue spalle la porta si apre, c'è Lauren e io non tento nemmeno di nascondere il rossetto, tu ridacchi e mi abbracci quando mi raddrizzo sulla difensiva, perché lei mi ha appena lanciato un rimprovero silenzioso, ma non ha osato nemmeno aprir bocca. La seguono a ruota i tuoi amici e so che li odio più di quanto odi te, perché sono terribilmente simpatici e tu stai più con loro che con me e sei contento quando sei in giro per il mondo, perché hai i tuoi fratelli, la tua batteria e una ragazza che ti aspetta a chilometri di distanza. Forse sono troppi, non credi? La lontananza mi sta uccidendo, provo a parlartene, ma non te ne rendi mai nemmeno conto.
«È dura, lo so» mi dici, ma sembra più un modo per rassicurarmi e mi addolora sapere che, per te, la distanza è sopportabile. O almeno così mi pare, perché sei più complicato di un cubo di Rubik e «Ma almeno io ho te e tu hai me, no?» e sorridi, so che lo fai, anche se non ti vedo, divisi da una cornetta e da voci metalliche, perché se fosse per te, lo faresti sempre, sorrideresti e basta. Sento le tue braccia gracili stringermi dalla vita, forti più di quel che sembrano e sicure, troppo sicure di tenere qualcosa che sia per sempre. Abbasso lo sguardo e mi scosto dal tuo corpo accaldato, sono le dieci di sera e non vedremo il letto fino all'una se tutto va bene, intanto che la schiena mi fa male e le gambe protestano, ma non le ascolto perché il dolore fisico non mi fermerà, sono più forte di una fitta ai piedi.
Sento il tuo sguardo perforarmi la nuca, ma non mi volto, mi incammino verso il necessaire di Lauren e vi lascio scivolare il rossetto, mentre lei evita di guardarmi e continua ad aggiustare il trucco di Brad, sabotato dal sudore dello show, non mi abbandoni un secondo e, posso giurarlo, mi stai guardando perplesso. Un passo, poi due e ho aperto la porta, mi fermo e dì qualcosa, Connor lancia una bottiglietta sul divanetto al mio fianco e tu non fiati, esco dal camerino. Sento gli occhi di tutti istantaneamente addosso, ma subito mi ignorano, perché questo non è il mio posto, ma non possono fermarsi per richiamarmi, quindi mi trascino silenziosamente avanti e c'è il rischio di cadere ed inciampare, nonostante i miei piedi siano ben fissi al suolo dell'arena, intanto che torturo il mio interno guancia, nervosa. Sento i capelli troppo morbidi dietro le orecchie e la coda di cavallo si è allentata, non la rifaccio, ma mi siedo stanca sulla valigia vuota della tua batteria, casualmente lasciata in corridoio. Incrocio le gambe e poggio la schiena contro il muro ricoperto da una carta da parati bordeaux, rovinata dal tempo e dagli spettacoli, l'usura rovina ogni cosa, anche i cuori.
C'è una tensione che mi si stringe intorno, come dei fantasmi vendicativi e io vorrei scoppiare in lacrime, se non fossi così orgogliosa e testarda in quello che voglio, e ho appena deciso che non verserò una sola lacrima. Perché mia madre mi ha detto troppe volte che mi avresti fatto male, ma non le ho mai dato ascolto, perché sentire quello che mi fai provare ogni qualvolta mi sfiori con lo sguardo, non è nemmeno paragonabile al paradiso, perché sei ciò che nessuno ha e che tutte sognano, perché sei leale e letale, perché sei l'unico che avrei seguito in capo al mondo.
E sei davvero il solo e lo sei sempre stato, ma non te ne accorgi o fai finta di non notarlo, perciò dì qualcosa, sto rinunciando a te. Sei l'unico che amo e lo posso giurare su tutto quello che di più caro ho, su questo, quello e quell'altro e anche sulla mia stessa vita, che ti amo ogni giorno di più, come se fosse l'ultimo. E, lo dovresti sapere, mantengo sempre la parola data e non mentirei nemmeno sotto tortura, perché non avrei mi accettato tutti quei difetti che ti porti dietro come un bagaglio troppo grande e ingombrante, il tuo scherzare su tutto o l'usare il bel faccino per raggiungere anche i peggiori degli scopi, quell'apparente aria da duro che ti ostini a marcare e quella fissa per l'arancione e il leopardato che tanto detesto, se non ti avessi mai amato. Perché non saremmo potuti essere più diversi, eppure sono qui.
Ricordo, quanto ti odiassi al liceo e quanto la cosa fosse reciproca, perché io sono sempre stata la meticolosa e melodrammatica Valerie, che entrava nel panico per un non nulla, mentre tu eri il compagno di banco chiacchierone e fastidioso ed iperattivo fino allo sfinimento ed io ti avrei volentieri scambiato con chiunque, ma la classe di matematica era piena e ognuno doveva tenersi il proprio compagno. Ho seriamente amato matematica quell'anno, Tris. Eri un disastro e io lo ero subito dopo di te, e forse ancora ora lo siamo, un disastro, intendo. Mi chiedo sempre cosa pensano gli altri vedendoci, se siamo una bella coppia o se proprio non abbiamo a che aggrapparci per stare insieme e infischiarcene del mondo intero, ma, mi ripeto che, non saremmo dove siamo oggi, dopo quattro anni, a litigare e ad abbracciarci come due che si amano fino al più remoto difetto. Siamo giovani e siamo liberi, e hai affrontato la mia famiglia e ho preso a cuore i tuoi fratelli e, forse, qualcosa la valiamo, alla fine. Non saremo chissà quale coppia della letteratura, non saremo un pozzo di scienza insieme, ma siamo noi e possiamo anche rispettarci nel nostro piccolo, vero? Poi sospiro e penso che sono sempre ad un passo dal rinunciare a te e questi castelli di carte, fatti di fedeltà e affetto, crollano come durante una bufera. E pezzi di noi, di me e di te, volano via come una regina separata dal suo re in due scale differenti.
Mi tiro le maniche della camicia fino ai palmi e le stringo con forza, perché c'è quella costante di noi che non funzioniamo insieme a togliermi il fiato e spezzarmi le ossa, l'anima e il cuore. C'è la porta in fondo al corridoio che si apre e ci sono James e Connor che corrono via, pronti per tornare sul palco, come se fosse la cosa più sensazionale del mondo, e forse lo è per davvero, ma non la capisco, c'è poi Brad che li segue a passo svelto e deciso, che rallenta solo quando mi vede, lontana e da sola, così sorride amorevolmente e incoraggiante, come se avesse capito e mi convinco sempre di più che quel ragazzo è più intelligente di quanto dia a vedere. Sei l'ultimo della fila, le falcate lunghe perché hai le gambe chilometriche e un sorriso un po' morticcio che mi sgretola il cuore all'altezza del petto, proprio sopra quel buco della camicia di jeans. Mi vedi e ti fermi, c'è quel sospiro e quello sguardo confuso, devi andare in scena, ma rimani immobile a guardarmi come se fossi l'esercizio di matematica più complicato, che avessimo mai fatto insieme ai tempi della scuola. Abbasso lo sguardo. dì qualcosa, ma quando lo rialzo ti vedo scomparire dietro le tende delle quinte e so che è arrivato il momento.
Il treno è appena passato, Tristan, e ti amo più di prima.
Scendo dalla custodia nera e rigida della batteria e c'è Lauren che mi fissa da lontano, indifferente e immobile, appoggiata allo stipite della porta da dove sui uscito solo pochi secondi prima, ci sono le mie gambe che si sgranchiscono e poi partono verso di lei, perché il cervello non aspetta mai il consenso di nessuno, tanto meno del proprio cuore. La musica riparte, le urla, le grida e sento la batteria dare il tempo alle chitarre e poi al basso, conosco questa canzone a memoria e non mi fermo, supero la vostra truccatrice e afferro la mia borsa accanto al tuo zaino sobrio con le stringhe leopardate, c'è odore di maschi, di ragazzi e di sudore, c'è odore di desideri, avventure e affetto e poi ci sono io che vorrei sentire il tuo profumo fresco che sa di estate, perché è l'unica cosa che mi permette di aggrapparmi al mio pensiero di te e me quando non ci sei, ma non lo sento e ti sto dicendo addio.
«Dove vai» dovrebbe essere una domanda, ma non sembra tale dal tono accusatorio. Lauren mi scruta perplessa, un sopracciglio alzato e una mano nella tasca dei jeans strappati. Non rispondo e non lo farò, raccatto le ultime cose, mi slego la catenina con il ciondolo a forma di T, lasciandola nella tasca del tuo zaino, e la supero per l'ennesima volta. «Valerie, dove vai» continua e io proseguo la mia fuga.
C'è l'uscita di sicurezza sul retro, ci deve essere, c'è sempre in ogni arena, la cerco e la trovo, la attraverso e mi abbandono all'umidità della notte, intanto che il mio cuore batte all'impazzata. C'è il freddo che si arrampica su per le caviglie e il senso di colpa che mi attanaglia lo stomaco, come in preda ad un attacco di panico, c'è che ingoio il mio orgoglio e scoppio in un pianto liberatorio senza precedenti. Perché ti sto lasciando, Tristan, e mi dispiace per non essere riuscita ad arrivare fino a te, di non aver lottato per rimanere con te, ma forse ho uno scarso limite di sopportazione e questa vita proprio non la riesco a vivere. Se solo dicessi qualcosa, dì qualcosa, sto rinunciando a te, se lo facessi, potrei anche rinunciare a questa fuga folle in una città sconosciuta e prometterti amore eterno, perché ti amo e ti sto abbandonando solo per questo. Perché c'è che la tua bella vita stona con la mia, i tuoi impegni non possono diventare anche i miei e le folle, lo sai, mi fanno andare nel panico e tu sei sempre attorniato da troppe persone, troppe ragazze.
Raggiungo il van parcheggiato sul retro dell'arena, non c'è nemmeno l'autista e tiro un sospiro di sollievo, ci sono le mie valigie nel portabagagli e la portiera è aperta, perché non importa mettere le sicure in questo parcheggio privato, c'è un borsone che mi carico in spalla e un trolley che mi trascino dietro, ci sono le lacrime copiose che scendono dagli occhi e gli anfibi che scappano, portandomi al sicuro. C'è che pochi minuti dopo ho già chiamato un taxi e «Aeroporto, per favore», sento la musica in lontananza e spero di riuscire a trovare un volo prima della fine del tuo spettacolo. Sento l'aeroporto freddo, spoglio, vuoto. I passeggeri che partono sono pochi e devo aspettare un'ora prima di potermi imbarcare, il cuore in gola perché potresti sempre arrivare e costringermi a non partire e lo farei, perché ti amo, cazzo.
L'hostess sta per staccare il biglietto, le mie mani sono nervose e tremano quando glielo porgo, i miei occhi hanno smesso di lacrimare, ma la vista è appannata e i sensi sono confusi, mi giro un'ultima volta, ma non ci sei.
Ci sono però poi le chiamate perse che iniziano non appena accendo il cellulare fuori dall'aeroporto di Exeter, all'arrivo, poi nei ventisei minuti successivi le chiamate ignorate si accavallano, una dopo l'altra, senza sosta, se non intervallate da messaggi colmi di preoccupazione, mista a rabbia. C'è l'aria di Devon che già mi da alla nausea, se penso a noi che siamo stati in Francia e abbiamo mangiato del vero italiano a Roma, siamo volati fino all'America e abbiamo visto le migliori coste californiane, ma niente di tutto ciò mi rassicura, perché stare con te due settimane ogni quattro mesi non mi interessa. C'è che sembro lagnosa, capricciosa e piagnucolona, c'è che ho un ragazzo con un lavoro da sballo e non mi piace, c'è che potrei avere tutto quello che desidero, ma l'unica cosa che vorrei è sapere che mi mandi il buongiorno da qualche casa più avanti, il viso ancora assonnato e non già pronto di tutto punto per prendere un aereo o fare una singing promozionale in qualche paese lontano. C'è che, se fosse per me, guiderei ore e ore in macchina, nel freddo della notte, per portarti di nuovo indietro e non lasciarti andare più, ma non posso e sarei egoista. C'è che la tua casa a Devon è già buia, Milly e persino James sono già a letto e da me è un po' lo stesso.
Faccio piano, ma non abbastanza, mia madre è già scesa dal primo piano, terrorizzata e il viso contratto in una smorfia piena di paura, ma «Sono io» ammetto e fa male, perché non avrei mai voluto darle ragione, non avrei mai voluto tornare da lei in questo modo e a questa ora e, tanto meno, avrei voluto mai darle un pretesto per odiarti ancora di più. Le sue braccia mi stringono e non ho bisogno di sentire nient'altro e lei non dice nient'altro, ma so che ha capito e, per mia fortuna, non infierisce, si limita ad ascoltare i miei singhiozzi repressi inutilmente, intanto che Veronique scende le scale a sua volta. Ora c'è un lumino acceso all'ingresso di casa mia, mi asciugo le lacrime con i palmi delle mani e mi allontano da mia madre, per abbracciare mia sorella, e ora la tua mancanza mi perfora il petto, proprio all'altezza di quel buco sulla camicia di jeans. E c'è che ti sto dicendo addio e avresti potuto dire qualcosa, perché stavo rinunciando a te e tu lo sapevi, ora ne sono certa, perché le parole che mi hai sussurrato l'altra notte vibrano ancora sul mio corpo.
E ti amo anche io, Tristan, e mi dispiace di non essere riuscita ad arrivare fino a te.





 
Arrivo ovunque, anche nel fandom dei The Vamps.
Ciao, Vampettes.
Il fatto che non abbia mai scritto prima in questa sezione, non significa che i ragazzi mi piacciano da poco, perché ormai li seguo da un annetto e non potrei essere più fiera di quello che stanno costruendo pian piano intorno al nome The Vamps. Detto ciò, soltanto per evitare che qualcuno pensi che sia una fan occasionale, solo perché sono venuti la scorsa settimana a Milano, passo alla os. Ah, ah.

Tristan Oliver Vance Evans sarà la mia morte, troppo alto e troppo biondo, avrà sempre un posto d'onore nel mio cuore e per questo che ho deciso di dedicargli la mia prima os sui ragazzi, usandolo come protagonista, sebbene la storia ruoti intono a lui, ma sia partecipe soltanto indirettamente. È più dedicata a lui, ecco, e mi dispiace che finisca in questo modo un brutto e un po' no.
Non escludo di scrivere un secondo capitolo, nonostante abbia segnato la storia come os, oppure di publicare un'altra one shot separata da questa, ma comunque come continuazione. Nel caso ne venisse fuori qualcosa di orrendo, questa povera storiella rimarrebbe sola e a voi toccherebbe scegliere un finale: Tris tornerà da Valerie, o la lascerà andare? O sarà lei a tornare da lui?
Ringrazio Mel per avermi fatto da beta: ciao, caccola.
E mi scuso per il banner qualitativamente indecente, ma ho problemi con il wifi e non riesco ad aprire tynipic o livejournal e mi sono dovuta accontantare di facebook che rovina la qualità delle immagini in una maniera unica. Appena posso, metto quello migliere.
Un bacio, bedjvergent.
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