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Autore: Soe Mame    27/05/2014    1 recensioni
Sì, ci sarebbe riuscito.
Avrebbe svolto il suo ruolo in modo impeccabile, avrebbe onorato la parola data da Gakupo ai signori e non avrebbe mai più fatto alcun pensiero sulla signorina Len.
Sì, ci sarebbe riuscito, per tutti e sei i mesi.
Era spacciato.
Genere: Angst, Demenziale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Gli sembrava di vivere all'interno di un sogno, uno di quei sogni stereotipati dove c'è sempre una luce quasi accecante ed è impossibile sentirsi tristi.
Era tutto così bello da sembrare irreale, ma ogni sua emozione era tanto violenta da essere più concreta che mai.
Non ricordava di aver mai assaporato ogni minuto, che fosse l'ora del the o il provare un nuovo abito - sempre in sua compagnia, sempre, ovunque.
Ricordava di averlo desiderato, a volte, anche durante il giorno, ma i suoi continui rifiuti l'avevano spinto ad aspettare, serafico, il calare del sole; ora quelle attese si erano fatte più frementi, sentiva il bisogno di toccarlo - anche solo tenergli la mano - in ogni momento, come se temesse che potesse scappare.
Se non altro, lui aveva iniziato a cedere un po'. Un paio di mattine prima, ad esempio, avevano impiegato il tempo teoricamente destinato alla lezione in maniera molto più proficua.
C'erano sempre dei segni, sul suo corpo.
Per quanto svanissero, da qualche altra parte o in quello stesso punto, ne apparivano di nuovi.
Erano una prova concreta dei suoi ricordi più felici. Non soltanto nella loro parte fisica: per quanto le notti fossero belle, vedere quei segni spiccare sulla sua pelle gli facevano tornare alla mente chi glieli avesse procurati, fino a far vagare i pensieri anche alle cose più innocenti.
- Cosa vi siete fatta, signorina? -
Len accarezzò il segno sulla curva del collo, le labbra appena piegate in un sorriso: - Ho sbattuto. -
- E' difficile sbattere sul collo. - osservò la signora Tod: - Se poi vi è uscito un livido del genere, dev'essere stata una botta molto violenta! In un posto tanto delicato come il collo... -
- Già. - guardò il riflesso della donna, tranquillo. Lo sguardo dell'altra era sospettoso: - Sapete, signorina? -
- Cosa? -
- Io non credo che quello sia un livido. -
- E cosa credete che sia, allora? - il suo sorriso si accentuò.
- Qualcosa... - la signora Tod esitò: - ... che non va bene. -
Len non riuscì a trattenere una risata leggera: - Accusatemi. -
La donna non rispose.
Era sempre riuscito a nascondere quei segni alla signora Tod, in un modo o nell'altro - grazie alla sottoveste o al collarino - ma, ultimamente, la cosa non gli importava più di tanto.
Non aveva motivo di preoccuparsi, in fondo.
"In che modo accusereste Gakupo?" si era chiesto, guardando i suoi genitori, chissà quanto ignari della cosa: "Direste che mi ha corrotta? Ma ciò comporterebbe una verifica fisica da parte di un medico esterno. Ma non ci sarebbe nessuna prova fisica. E voi non volete che qualcun altro scopra più del dovuto, vero?" gli era sfuggito un sorriso: "Oppure lo accusereste di sodomia? Ci sarebbe un problema, però...".
Era piuttosto sicuro che almeno i suoi genitori sospettassero che avesse una relazione con un uomo.
Altrimenti si sarebbero allertati per eventuali gravidanze di troppo.
Non sapeva se i loro possibili sospetti si concentrassero davvero su Gakupo - semmai, si sarebbe stupito del contrario - ma, in ogni caso, nessuno aveva mai detto nulla.
La loro unica figlia era felice e al sicuro, non avrebbe avuto né dato problemi.
Non aveva alcun senso far scoppiare uno scandalo in cui, per la maggior parte, sarebbero stati loro - e l'intero casato Dewsen - a rimetterci.
Era felice.
Sì.
Non avrebbe avuto motivo di non esserlo.
C'era qualcuno che avrebbe guardato solo lui.
Che sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa per lui.
- Ho mal di stomaco... -
- Ve l'avevo detto di non esagerare, oujo-sama. -
- Posso vomitarvi sulle scarpe? -
- No, oujo-sama. -
Che sarebbe stato disposto a fare quasi qualsiasi cosa per lui.
E, in ogni caso, non c'era niente che riuscisse ad intaccare quella realtà tanto perfetta.
Se solo fosse durata per sempre...
Se avesse avuto la conferma che lui sarebbe rimasto lì per sempre, solo per lui, soltanto per lui, insieme a lui, allora...
Quando riaprì gli occhi, il sole non era ancora sorto.
Il tavolo della camera di Gakupo era vuoto.
C'era una cosa che doveva assolutamente sapere.

Probabilmente, stava mettendo più impegno nel sistemarsi al calare del sole che non la mattina.
Si assicurava sempre che i suoi capelli fossero in perfetto stato, morbidi e pettinati, e che la sua camicia da notte fosse appena tirata fuori dall'armadio e senza una piega.
Poi usciva dalla propria camera, per andare in quella di Gakupo.
Sapeva che, di lì a poco, vestiti e capelli sarebbero state le ultime delle sue preoccupazioni; eppure, ogni volta, passava quasi mezz'ora a rimirarsi davanti allo specchio, per essere sicuro di essere perfetto.
Ogni cosa era perfetta.
E voleva essere perfetto anche lui.
Se poi fosse riuscito a sapere ciò che desiderava-
Sentì il cuore sussultare quando guardò il tavolo della camera di Gakupo.
I quadernini.
Gettò una rapida occhiata al suo fianco: l'altro dormiva, come sempre quando lui si svegliava.
Piano, scese dal letto, lo sguardo fisso sul tavolo, come per capacitarsi del fatto che quelli fossero effettivamente lì, a portata di mano.
Si sarebbe voluto rivestire in fretta, ma le mani tremavano troppo, il cuore sembrava sul punto di scoppiare; quando riuscì a rimettersi addosso quel paio di cose che aveva indossato andando lì, raggiunse il tavolo, afferrando il quadernino più vicino.
Gli sfuggì dalle dita, lo recuperò prima che potesse ricadere dove l'aveva preso.
Inspirò e lo aprì, il battito che colpiva contro il petto e assordava le orecchie.
Come sospettava. Erano cifre. Per quanto avesse ripassato i numeri giapponesi proprio per poter decifrare quelle pagine, però, non riuscì a capire esattamente quali somme ci fossero scritte.
Tuttavia, aveva capito che erano somme alte.
Molto alte.
Ed era l'unica cosa che gli importava.
Mise giù il quadernino, ne aprì un altro: i numeri rimanevano sempre altissimi.
Lesse anche il terzo quadernino, un'altra serie di cifre che avrebbero fatto impallidire anche i borghesi più arricchiti.
Quando tutti i quadernini furono di nuovo al loro posto, Len sentì qualcosa di piccolo cadergli dagli occhi.
Si toccò le guance.
Erano bagnate.
Il cuore era diventato rovente, eppure non faceva male. Era un calore piacevole, anche se gli premeva contro la gola secca.
Tirò su col naso e si asciugò gli occhi, prima di scoppiare a piangere. Non era affatto sicuro di riuscire a trattenersi oltre.
"Farei meglio a tornare in camera..."
Le gambe non rispondevano. Erano inchiodate al pavimento, sembrava quasi che, spostandole, sarebbe crollato tutto.
Inspirò di nuovo.
Qualcos'altro rotolò lungo il viso.
Faticò a rendersene conto.
Era assurdo.
Era assurdo.
Era perfetto.
Era lì, nelle sue mani, nel suo mondo, nella sua esistenza.
Quel frammento mancante, quel frammento che gli avevano sempre tolto e che lui aveva sempre desiderato, l'unico frammento che avrebbe voluto avere, anche a costo di sbarazzarsi di tutti gli altri.
Era lì.
Era così meravigliosamente perfetto da paralizzarlo.
Era come se fosse incapace di realizzarlo appieno. Come se la sua stessa mente fosse un contenitore troppo piccolo o troppo fragile.
Deglutì.
"Se..." strinse le mani ai gomiti: "Se..."
- Ren? -
Un sussulto. Si voltò.
"E' sveglio...?" mise le braccia conserte, quello sguardo, impassibile, nel suo: "Da quanto...?".
- C'è qualcosa che non va? -
Len tacque.
Forse avrebbe dovuto scuotere la testa e congedarsi.
Per un istante, pensò che sarebbe stata la cosa migliore da farsi.
Poi pensò che sarebbe stata la più stupida.
- Ero curiosa. - sorrise, il cuore troppo leggero, eppure prossimo allo spaccargli le ossa del torace: - Mi chiedevo con cosa armeggiaste ogni volta. -
Era sicuro che Gakupo avesse aggrottato la fronte: - In che senso? -
- I vostri affari vanno molto bene. - si riavvicinò al letto, per poi sedersi accanto a lui.
- Sì. Non ho mai affermato il contrario. - parlava piano. Probabilmente, era confuso.
- Intendevo che vanno davvero molto bene. - ripetè, calcando sul "davvero": - Immagino siate uno dei mercanti più ricchi d'Inghilterra. Anzi... - abbassò la voce: - ... del Giappone. -
Un brivido lungo la schiena, le braccia. Per un istante, inspirare gli fu difficile.
- Possibile. - ammise Gakupo, dopo qualche secondo. Lo vide sedersi, lo sguardo sempre impassibile.
Ma c'era qualcosa, ora che lo vedeva più da vicino.
Quella strana luce.
Quella che gli aveva visto mesi prima.
"... perché quello sguardo sospettoso?" esitò: "Dovrebbe essere... felice... no...?".
Gli accarezzò una guancia, guardandolo negli occhi: "Forse anch'io ho questo sguardo, ora?".
- C'è qualcosa che non va? - ripetè Gakupo, la voce bassa ma ferma.
"Perché questo tono?"
Sorrise: - Pensavo a tutti quei signori che cercano di darvi in sposa la loro figlia. - ridacchiò: - Siete davvero un ottimo partito. Di quelli rari. - gli si avvicinò: - Di quelli che meritano solo certi tipi di donna. Donne molto ricche. E potenti. -.
La mano tremava.
La sentiva, la vedeva.
Voleva ridere. Ridere fino a non avere più fiato, con le lacrime agli occhi e le spalle tremanti.
S'impose di rimanere fermo.
- E che sappiano far fruttare il vostro impegno sia qui che nella vostra terra. Il Giappone. - un bacio leggero: - Non sono molte le donne con tutti questi requisiti, sapete? Soprattutto, non molte famiglie sono interessate al Giappone. - un altro bacio, stavolta più profondo.
Voleva divorarlo. Voleva farsi divorare. Di nuovo.
E di nuovo ancora.
Senza più nascondere niente.
Per sempre.
Sempre.
Sempre.
Lo sentì scostarsi.
Len si bloccò.
Lui era rimasto immobile.
Non l'aveva sentito rispondere.
Tornò a guardarlo negli occhi, piano.
Ogni cosa sembrava essere rallentata.
C'era qualcosa di pesante, nel petto.
- Gakupo...? -
Una mano sulla sua.
La voce dell'altro era bassa, un sussurro: - Mio padre sarebbe davvero felice se mi sposassi. -
Len annuì: - Nessun padre potrebbe non esserlo, se il partito è perfetto. -
- Così avrei degli eredi. -
Ogni cosa si bloccò.
E divenne spaventosamente fredda.
Gli sfuggì una risata: - Alcune donne non possono fare figli. - un'altra risata: - Non si può sapere prima del matrimonio, no? -
- No. - il tono era privo di qualsiasi emozione: - Per questo, se non ci sono figli entro un certo periodo, si fanno dei controlli. E mio padre vorrebbe assicurarsi delle condizioni della mia sposa. Se necessario, anche presenziando alla visita. -
"..."
Len scosse la testa.
Faceva davvero troppo freddo.
Troppo.
Troppo.
- Non credo si farebbe scrupoli ad accusare la famiglia della mia sposa, se si presentassero stranezze. - mormorò: - Direbbe di essere stato ingannato. E farebbe qualsiasi cosa per vendicarsi. E, in alcuni casi, l'occasione di distruggere una famiglia potente gli verrebbe regalata. -.
Il sangue si era congelato; scorreva nelle vene ghiacciando ogni muscolo, ogni osso.
Il cuore si era congelato.
Il cuore si era fermato.
Faceva troppo, troppo, troppo freddo.
Scosse la testa, di nuovo.
Qualcosa di caldo su una guancia.
Prese la mano di Gakupo.
Non sapeva se strapparla dal suo viso o baciarla.
Non riuscì a decidere in tempo.
Abbassò lo sguardo, lasciando andare le lacrime.
Voleva ridere.
Ora non voleva più ridere.
Scacciò la mano di Gakupo, si coprì gli occhi.
Era troppo perfetto.
Tanto da essere irreale.
Infatti non era vero.
Non era vero.
Non era vero.
Si sentì abbracciare, sentì le labbra dell'altro sulla fronte, le dita tra i capelli, sulla nuca.
- Dimenticatevene. -
Un sussurro, quasi impercettibile.
- Dimenticatevi di tutto questo. -
"Dimenticarmene."
- Va bene così. -
"Va bene così."
- Va tutto bene. -
"Va tutto bene."
Abbassò le mani, alzò lo sguardo, fino ad incontrare i suoi occhi.
Sembravano dispiaciuti.
Sembravano davvero dispiaciuti.
Quando vide quegli occhi lucidi, quel velo di tristezza sul viso, quando si sentì baciare, piano, sentì qualcosa nel petto, nel cuore che aveva ripreso a battere.
Non aveva più freddo.
Il petto era caldo.
Le mani erano calde.
Avrebbe voluto mordergli la lingua, sentire il sapore del suo sangue.
Avrebbe voluto colpire quel viso, anche a costo di ferirsi le nocche.
"Questo non è il momento in cui il cavaliere giura alla dama di rinunciare ad ogni cosa e fuggire con lei?"
- Va tutto bene... - mormorò, scostandosi dal bacio, le labbra contro quelle dell'altro: - E' divertente anche così. -.

Non passava più mezz'ora davanti allo specchio, prima di andare da Gakupo.
Però ci teneva lo stesso a presentarsi perfetto.
- Anche se non sarà scritto... - sussurrò: - Anche se non avremo una cerimonia... - strinse il pupazzo al petto: - Anche se gli altri non ci vedranno come vorrei... - si passò una manica sulle guance bagnate.
Voleva che tutti si voltassero a guardarlo.
Voleva che i suoi vestiti e il suo aspetto attirassero gli sguardi degli altri, incatenandoli anche solo per pochi istanti.
Voleva che gli altri lo considerassero perfetto.
- Anche se lui si sposerà... - strinse i pugni: - Anche se lui avrà figli... - chiuse gli occhi: - Lui guarderà solo me, vero? -
Voleva essere invidiato, per poi ridere di loro.
Voleva essere desiderato, per poi negarsi.
- Una moglie stupida di cui non importa niente a nessuno. - riaprì le palpebre: - Che se ne sta in Giappone, lontana, come una socia in affari con cui dividere il letto un paio di volte. - inspirò: - Solo un vantaggio economico, solo una facciata per la società. Estranei che hanno un obiettivo comune. - guardò il pupazzo nell'occhio visibile: - Lui rimarrà qui. In Inghilterra. Con me. - affondò la testa nel cuscino: - Perché lui guarda solo me. E guarderà solo me. Non gli importa niente di una moglie lontana. La sposerebbe solo perché ha un gran rispetto di suo padre e non vuole contraddirlo. Ma non gli interesserebbe affatto.
Ci sono io, qui. Quindi rimarrà qui. Con me. E non se ne andrà mai. Perché io sono qui. E, per lui, esisto solo io. -.

Era capitato - poche volte, in realtà - che si accennasse a quella cosa.
Ma erano poche parole buttate a caso, battute che non facevano ridere, sussurri taglienti.
Dette da altre persone, ignare di tutto, che con le loro frasi riuscivano a riportare alla mente quel momento.
- Va tutto bene. - Len sentiva la voce di Gakupo vicino all'orecchio, la bocca tra il collo e la spalla, il petto che gli premeva contro la schiena, le braccia attorno al corsetto.
Era tutto distante.
In quei momenti, si lasciava semplicemente andare. Lasciava che ogni parola gli scivolasse addosso, come un fastidioso rumore di sottofondo, abbandonando la mente alle carezze dell'altro, lasciando che fosse lui a togliergli di dosso tutte quelle frasi odiose.
Doveva solo accettare la realtà.
Piano piano.
Era lì con lui.
Non da un'altra parte, non con un'altra persona, era con lui, accarezzava, toccava, baciava e voleva solo lui. Nessun altro.
Nessuno.
Solo lui.
Soltanto lui.

- C'è una cosa che devo annunciarvi, Ren. -
Len alzò le sopracciglia: - Annunciarmi...? - non gli era piaciuta quella parola.
Gakupo annuì, per poi sedersi sul proprio letto, senza distogliere lo sguardo dal suo: - Circa un mese fa, mi è arrivata una lettera da parte di mia cugina Megumi. -
Trasalì: - E' successo qualcosa? -
- Direi di sì. - vide le labbra curvarsi appena in un sorriso soddisfatto: - Finalmente è riuscita a trovare marito. -
"..."
- Si sposerà tra tre mesi. -
- Auguri. -
"Mh, non volevo che il tono uscisse così freddo. Pazienza.".
Gakupo tacque per un istante. Il suo sguardo si era fatto serio, subito dopo le sue parole.
- E io sarò presente. -
- Oh. - alzò le spalle: - D'accordo. Quanto intendete star via? Una sera? Una giornata intera? Due? Volete una settimana libera? - sentì qualcosa alla base dello stomaco, come unghie affilate che graffiavano.
Silenzio.
- Temo non abbiate compreso. - Gakupo parlò piano, scandendo le parole, lo sguardo freddo: - Presenzierò al matrimonio di mia cugina Megumi. -
- Hai, sensei. - fece Len, iniziando a trovare quel discorso fin troppo irritante: - E io vi ho chiesto per quanto vorreste la licenza. -
- Presenzierò al matrimonio di mia cugina Megumi. -
- Sì. - ora si stava arrabbiando: - Ho capito. -
- A Kyoto. -
Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso.
Inspirò, piano.
Quando espirò, sentì gli occhi troppo umidi.
"Kyoto..."
- Quanto... - non gli piaceva quella voce spezzata che era appena uscita: - ... quanto è lontano, il Giappone...? -
- Molto. -
- Quanto "molto"? -
- Se prenderò la nave che partirà tra dieci giorni, sarò a Kyoto tra circa tre mesi. In tempo per il matrimonio. Rimarrò lì almeno una settimana. Per il ritorno, ci vorranno altri tre mesi. -
Una voce ferma, senza alcuna intonazione.
Neppure il suo sguardo sembrava avere la benché minima emozione.
Len si guardò le mani chiuse a pugno.
Alzò le dita della mano destra.
Uno. Due. Tre.
Alzò le dita della mano sinistra.
Uno. Due. Tre.
Osservò le due mani.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei.
Gli sfuggì una risata bassa. Ma non era divertito.
- Sei mesi...? -
Tornò a guardare Gakupo: - Pensate davvero che vi concederò una licenza di sei mesi? - la voce tremava troppo. Non era neppure sicuro di essere riuscito a pronunciare tutte le lettere.
Non sentiva il cuore battere troppo forte.
Non sentiva più l'irritazione.
Non sentiva niente.
Non sentiva più niente.
- Per questo motivo ho aspettato, nel dirvelo. - Gakupo sospirò: - Ne ho parlato con vostro padre e vostra madre. E' stato deciso che mi avrebbero concesso una licenza di sei mesi solo qualora fossi riuscito a trovare una soluzione alla mia assenza. -
- La soluzione alla vostra assenza è la vostra presenza. -
- Un sostituto. -
Len sbattè le palpebre. Era sicuro di avere gli occhi fin troppo sgranati, li sentiva far male.
- Prego? -
- Un sostituto. - ripetè l'altro. Per la prima volta, il suo tono vibrò appena, in modo indefinito: - Qualcuno di serio e competente che potesse farvi da precettore di giapponese. -
"Precettore..." si era quasi dimenticato che, in primo luogo, Gakupo Kamui era il suo precettore di giapponese.
- L'Inghilterra è piena di precettori di giapponese seri e competenti. - gli sfuggì un sorriso di trionfo: - Qualcuno in grado di sostituire un giapponese di nascita. Un altro giapponese, forse? Ed è così serio e competente come voi? -
"Ha perso in partenza." si aggrappò a quella consapevolezza con tutte le sue forze: "Se già è stato tanto complicato trovare lui, trovare qualcuno al suo livello è impossibile.".
- Non è giapponese di nascita. - quella frase lo bloccò: - Ma posso assicurarvi che è serio e competente. E che è perfettamente in grado di sostituirmi a dovere. -.
Silenzio.
- ... parlate come se aveste trovato un sostituto. - la voce non tremava più. Ma si era abbassata.
- Perché è così. -
- Ah. -.
Silenzio.
- Questo vuol dire che andrete via per sei mesi? -
- Sì. -
- Ah. -.
Silenzio.
Len deglutì. La gola era terribilmente secca. Un sussurro: - Questo vuol dire che andrete via da me per sei mesi? -
- Sì. -
- ... -.
Giunse le mani in grembo: - Avete deciso tutto senza dirmi niente. - mormorò, atono: - Avete deciso anche per me. -
- Non ho deciso nulla per voi, Ren. - lo sguardo di Gakupo si era fatto un po' più vivo. Ma non riuscì a capire che emozione ci fosse, né se fosse positiva o negativa: - Ho scelto unicamente per me. -
- Avete scelto di lasciarmi sola per sei mesi. -
- Credo possiate stare sei mesi senza di me. -.
Una coltellata al petto.
Schiuse le labbra, espirando di colpo.
- Sei mesi...? - sibilò, i pugni serrati: - Vorreste lasciarmi da sola per metà anno e la prendete con tutta questa leggerezza? -
- Sono sei mesi, Ren. - ripetè Gakupo, freddo: - Non sei anni. Neppure un anno. Tornerò tra sei mesi. Potete stare senza di me per sei mesi. -.
Gli parve che il coltello ancora piantato nel suo petto venisse girato, lentamente, apposta per fargli più male.
- Avete deciso anche per me. - disse, di nuovo.
Prima che l'altro potesse ribattere, sussurrò: - Avete deciso che io posso stare da sola per sei mesi. Qui, da sola, perché voi dovete andare al matrimonio di vostra cugina. -
L'espressione impassibile di Gakupo s'infranse. Lo vide sgranare gli occhi, quella nei suoi occhi, nella sua voce, era decisamente irritazione: - State vaneggiando. -
- Io starei vaneggiando? -
- Non vi rendete conto di ciò che state dicendo. -
- Oh, sì che me ne rendo conto. - si alzò dalla sedia, raggiungendo la porta: - Forse dovreste essere voi a pensare a ciò che state facendo. -
- Io sto facendo una cosa che chiunque farebbe. - la voce si era abbassata, quasi in un ringhio.
- Abbandonare la persona a cui si sono dette tante cose carine per correre ad una fanfara di una persona che non si vede da anni! - ribattè: - Siete davvero ammirevole, signor Kamui. -
- Andate a riposarvi, oujo-sama. - un sibilo: - Siete stanca. -
- Voi non avete di questi problemi, vero? - serrò la presa sulla maniglia: - In sei mesi su una nave ne avrete di tempo per dormire! - aprì la porta, uscì e se la richiuse alle spalle, facendola riecheggiare per tutto il corridoio.

- Megumi. -
Gli occhi azzurri nello specchio erano sgranati.
- Puoi sposarti. -
Strinse i pugni.
- Puoi avere figli. -
Toccò la pancia scoperta.
- Puoi continuare a sbattermi in faccia la tua felicità. -
Serrò i denti.
- Ma non ti permetterò di portarmi via anche l'unica cosa che posso avere. -
Afferrò la vestaglia.

Non era andato da lui, la notte precedente.
Durante la giornata, gli aveva rivolto solo le frasi necessarie, il tono freddo.
Gakupo aveva fatto altrettanto.
Len sapeva che sarebbe salito sulla nave nove giorni dopo, ma sarebbe partito dalla magione di lì a due giorni, per andare non aveva capito dove.
Quando entrò nella sua camera, dopo cena, lo trovò a fare i bagagli.
Esattamente come aveva previsto.
- Oujo-sama. - fece lui, impassibile, tornando a sistemare le sue scartoffie. Aveva alzato lo sguardo solo per un istante, quando lui era entrato.
- Ren. - Len fece girare la chiave nella toppa: - Chiamatemi Ren. - aggiunse, il tono gentile.
Gakupo alzò di nuovo la testa. Sospetto. Ormai aveva imparato a riconoscerlo.
- Perdonatemi per avervi urlato contro, ieri. - accennò ad un sorriso di scuse, accarezzando la testiera del letto: - Ero molto arrabbiata. -.
L'espressione dell'altro cambiò: sembrava più rilassata.
- Non preoccupatevi, Ren. - rispose, la voce tranquilla, senza più alcuna traccia di astio: - Era comprensibile. -
Len sforzò un sorriso più ampio.
Avrebbe voluto lanciargli contro il catino e la brocca.
"Siete ancora convinto di essere completamente nel giusto?"
Si sedette sul letto, osservando l'altro che faceva avanti e indietro per la camera. Rimase in silenzio, fermo.
Si era accorto come Gakupo gli lanciasse svariate occhiate, di sfuggita.
Perplesse.
Non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto.
Accavallò le gambe.
Stava aspettando solo una frase. Sapeva che sarebbe arrivata.
- Ren... -
- Sì? -
- Avete finalmente imparato ad indossare la vestaglia? -
Difatti era arrivata.
- Non sono così spudorata. - rispose, con un sorriso pacato.
Sciolse la cintura e fece scivolare la vestaglia lungo le spalle.
Quando riuscì a catturare lo sguardo di Gakupo, lo trovò sconvolto. Il suo sorriso si accentuò: - Non vado in giro per i corridoi nuda. -.
Probabilmente, era riuscito a catturare anche tutta l'attenzione di Gakupo.
- Siete... - era impallidito. Lo vide sospirare, gli occhi chiusi: - ... la persona più spudorata che abbia mai incontrato. -.
- E voi la più crudele. - continuò a sorridere: - E la più bugiarda. - riportò le gambe una vicina all'altra: - Io non sono spudorata. -
- Sì che lo siete. -
"Ammirevole come finga di avere autocontrollo."
- Avete opinioni bizzarre sulle persone che conoscete. -
- Ho opinioni perfettamente riscontrabili nella realtà. -
- Siete piuttosto arrogante nel pensare di avere opinioni tanto oggettive. - separò appena le ginocchia: - Del resto, avete già dimostrato di sbagliarvi. -
- Ah, sì? -
Si impose di non ridere.
- Sì. -
Gli porse un piede, alzandolo appena da terra.
Guardò l'altro. Era incredibilmente composto: immobile, la voce ferma, l'espressione seria.
"Vi offendereste se vi dicessi che siete anche un pessimo attore?" lo pensò soltanto. Ma ne ebbe la conferma quando lo vide in ginocchio, le labbra sul collo del piede, il tallone tra le mani.
Quando poi lo sentì sfiorargli la gamba, baciargli il ginocchio, non ebbe più alcun dubbio.
Prima che potesse andare oltre, lo fermò premendogli il palmo sulla fronte.
Lo vide alzare gli occhi, perplesso. A giudicare da come fossero lucidi, stava già cominciando a non ragionare più.
Si chinò verso di lui, accarezzandogli le labbra con le proprie: - Volete che rimanga qui, stanotte? -
L'altro sbattè le palpebre, come se cercasse di realizzare ciò che aveva appena detto. Poi sospirò, forse per riprendere contatto con la realtà: - Sì. -
Allontanò di più l'altro ginocchio: - E volete che rimanga qui anche domani notte? -
Quello sguardo stava iniziando a farsi sempre più confuso: - ... sì. - e quella voce più roca.
Sorrise. Tornò seduto.
Tolse la gamba dalle mani di Gakupo, portandola sopra l'altra.
Decisamente, quello sguardo era confuso.
Piegò la testa di lato: - E non volete che io rimanga qui anche la notte successiva? - sorrise: - E quella dopo? E quella dopo ancora? - tornò su: - Tuttavia, se anche rimanessi qui, sarei da sola. Perché voi sareste lontano. Su una nave. -
Quello sguardo si fece serio: - Ecco dove volevate arrivare... -
- Sto solo dicendo la verità. - gli accarezzò il collo con il piede: - Oppure no? -
Piano, Gakupo si rialzò, senza distogliere gli occhi dai suoi.
- Ne abbiamo già parlato. -
- Non abbiamo neanche cominciato. - abbassò le palpebre: - Pensate davvero che io sia felice che voi ve ne andiate per così tanto tempo? -
- Neanch'io sono felice di starvi lontano per così tanto tempo. - sospirò l'altro, alzando gli occhi al soffitto: - Ma sono felice che non sia così tanto tempo. -
- Avete concezioni molto strane. -
- Anche voi. -
- Se davvero foste così non felice come dite, non sareste felice di andarvene anche solo per pochi giorni. -
- Io non sarei felice di andarmene anche solo per pochi giorni. - lo vide appoggiarsi al muro: - Ma non posso fare altrimenti. Se voglio questo, dovrò sacrificare sei mesi con voi. -
Len strinse i denti. Di nuovo quella sensazione sgradevole all'altezza dello stomaco, più violenta: - Appunto. - sibilò: - Sei mesi di me valgono una manciata di giorni di lei? -
- Sì. -
"..."
Non sentì più nulla.
Non riuscì neppure a formulare un pensiero.
Gakupo inspirò, la voce più bassa: - Ma si tratta di cose diverse. Non posso mettere voi e Megumi sullo stesso piano. Io sono sempre con voi. Megumi è lontana. Non la vedo da mesi. Anni. E, anche quelle poche volte che l'ho rivista, non è stato per molto tempo. -
- A maggior ragione non dovrebbe importarvene! - forse avrebbe dovuto sentire rabbia. Ma non c'era neppure quella.
Lo sguardo dell'altro era cambiato. Non era triste. Era qualcosa che si avvicinava alla tristezza, con un qualcosa di diverso.
- Le siete così affezionato? - il tono uscì più velenoso di quanto volesse. Ma non gli importò.
Lo vide chiudere gli occhi. Rispose dopo pochi secondi, o forse ore dopo, la voce pacata: - Megumi è mia sorella.
- "... eh?"
- Sono i nostri padri ad essere fratelli, in realtà. - aggiunse: - Lei ed io abbiamo lo stesso sangue, anche se non lo stesso che possono avere due fratelli. Tuttavia, per me, lei è mia sorella. E, per lei, io sono suo fratello. -.
Len sbattè le palpebre.
- Mia cugina Lily è mia madre. - commentò: - Anche se sua madre è la sorella di mia madre. Questo significa che forse mia madre è mia cugina. -
Gakupo riaprì gli occhi. Quello nel suo sguardo era scettismo. Stavolta riuscì a riconoscerlo.
- Non siete divertente, Ren. -
Len sorrise: - Ah, no? Pensavo che voi lo trovaste divertente, invece. -
Una leggera sorpresa: - Perché pensate che io trovi divertente tutto questo? -
- Mi sembra ovvio. -
- Temo che le nostre percezioni di ovvietà non combacino. -
"No, infatti.".
Si accorse di stare tremando.
Non sapeva se fosse per il freddo, per la paura o per qualcos'altro.
Neppure gli importava.
Si lasciò cadere sul letto, allontanò del tutto le ginocchia.
L'espressione dell'altro non mutò.
- Rimanete. -
Troppo bassa, la voce che gli era uscita.
Vibrava troppo.
Sembrava una supplica.
Stavolta gli importò.
Ma, se avesse ottenuto di farlo rimanere, l'avrebbe supplicato ancora.
Ancora.
Ancora.
Finché Megumi fosse diventata solo un nome.
- Tornate nella vostra camera. -
Soffocò.
Strinse i pugni, cercò di inspirare, i polmoni bruciavano - gli occhi bruciavano, la gola bruciava.
Sentiva di avere qualcosa di disgustoso e pesante a ricoprirgli la pelle.
- L'ho detto. - non riusciva a parlare a voce più alta, più ferma. E neppure gli importava: - Siete un bugiardo. -
- Andare al matrimonio di una persona a cui voglio bene e stare lontano da voi per sei mesi non significa che ciò che vi ho detto non è vero. - il tono forzatamente controllato. Non aveva mai distolto gli occhi da lui.
- Rinunciare ad una persona a cui avete detto certe cose rende quelle cose false. -
- Starò via solo sei mesi. - una nota d'irritazione incrinò quel tono: - Non andrò via per sempre. Perché pensate che una separazione temporanea sia un tradimento? -
"Tradimento...?"
- Perché lo è. - la voce non tremava più.
Non aveva più alcuna intonazione, in realtà.
Gakupo si mosse, quasi di scatto.
Lo vide allontanarsi dal muro, attraversare la stanza, fino a fermarsi vicino al tavolo, distante dal letto.
Lo seguì con lo sguardo, in silenzio: la sua espressione era irritata. Sembrava stesse stringendo i denti. Quando parlò, quell'incrinazione nella voce si fece ancora più evidente: - C'è una cosa che vi sfugge. -
Len tacque.
- Non vivo in vostra funzione. -
"..."
- Sapete cosa siete per me. Ma non siete tutta la mia esistenza. Ci sono altre persone, anche se non rappresentano ciò che rappresentate voi. Persone che conosco fin dalla nascita, persone che conosco da anni. Sono anche loro parte della mia vita. Non posso costantemente mettervi davanti a loro. Non posso. E non voglio. - la voce si abbassò: - Non posso plasmare la mia vita sulla vostra. Se facessi una cosa simile, se non amassi anche me stesso, allora sarebbe giusto che io venissi distrutto. -.
"..."
C'era un muro. Un muro invisibile, ma spesso, terribilmente spesso. Forse era attaccato alle pareti, al soffitto e al pavimento, isolandolo in un rettangolo senz'aria.
C'era anche qualcosa sulla sua pelle. Forse melma. Forse fango. Qualsiasi cosa fosse, la sentiva sporcagli i capelli, i piedi, ogni singolo millimetro di pelle. Gli sembrava appiccicosa, disgustosa, pesante.
- Vi chiedo di mettere da parte il vostro egoismo, Ren. - mormorò Gakupo. Il suo tono si era fatto meno brutale. Ma il coltello nel suo petto andò più a fondo.
Si sedette sul letto, piano, accertandosi che ogni arto funzionasse, che non pesasse troppo.
Non c'era nessuna melma. Eppure, era sicuro di sì. La sentiva. Continuava a sentirla.
Era così pesante da averlo fatto smettere di tremare.
- D'accordo. -
Quando sussurrò, vide Gakupo sgranare gli occhi.
Posò le mani sulla coperta, mettendosi carponi.
Lo sguardo dell'altro mutò appena.
- Ma fa male, vero? - lo scrutò dall'alto in basso: - Anche se vi fingete tanto composto, fa male. -
Per quanto Gakupo si sforzasse di rimanere impassibile, lo vide stringere i pugni.
Sorrise: - Posso farvi stare meglio. Senza alcun coinvolgimento di altro genere. Solo stare meglio. -.
L'altro non rispose. Non si mosse.
Continuava a fissarlo, con quello sguardo strano, che somigliava alla tristezza ma non lo era.
Finalmente, spezzò quel silenzio.
- Tornate nella vostra camera, Ren. -.

Era tornato nella sua camera.
La vestaglia era da qualche parte, sul pavimento.
Anche se era uscito da quella camera, sentiva ancora quel muro. Forse era intorno a lui.
Come quel fango che lo ricopriva. E lo rendeva tanto repellente.
Guardò quegli occhi azzurri nello specchio.
Le labbra si mossero, ripeterono una sola parola, quella che aveva sentito giorni prima.
Finché non divenne solo un suono.

Durante la lezione, lo ignorò.
Lui lo lasciò fare, continuando a spiegare come se niente fosse, la voce atona, lo sguardo che non incontrava mai il suo.
L'ora del the passò in silenzio.
Aveva pensato che, vedendolo, avrebbe sentito di nuovo dolore al petto, si sarebbe sentito di nuovo disgustoso alla vista e al tatto, si sarebbe arrabbiato, avrebbe cercato di fargli cambiare idea ancora una volta.
Non sentì niente.
Quasi non si accorse della sua presenza.
Per questo si stupì quando, dopo il calare del sole, si ritrovò davanti alla sua camera.
Entrò, per poi richiudersi la porta alle spalle.
Quando Gakupo lo vide, la sua espressione si fece fredda, sospettosa.
Len fece qualche passo avanti: - Domani partirete. - le parole uscirono dalla bocca senza rendersene conto: - Non voglio trascorrere sei mesi pensando che voi siate arrabbiato con me. -.
L'altro non rispose.
Neppure Len parlò più.
Il mattino dopo si risvegliò al suo fianco, nel suo letto.
Come se non fosse successo niente.
Forse era meglio pensare così.
Forse non era davvero successo niente.

La partenza di Gakupo era prevista per quella mattina.
In un primo momento, Len aveva pensato di indossare un vestito sontuoso, uno di quelli che - così gli era stato detto - "facevano risaltare la sua bellezza".
Alla fine, indossò un abito bianco che si era fatto cucire da poco: tempo addietro, aveva visto in paese un abito simile al suo abito nero per le grandi occasioni e aveva voluto farsene cucire uno simile, con alcune modifiche.
Aveva fatto togliere il corsetto esterno, rendendolo uniforme. Aveva fatto accorciare le maniche fino a metà braccio, facendole fare a sbuffo.
Una volta completato, a guardarlo bene, non somigliava più tantissimo al suo abito nero per le grandi occasioni.
Però gli piaceva.
Dopo aver messo il collarino nero, in contrasto con tutto quel bianco, decise di non farsi la crocchia.
Tanto sarebbe rimasto lì in casa.
Si limitò a legare due ciuffi ai lati della testa - ma, di fatto, aveva i capelli sciolti.
Sentì l'occhiataccia di sua madre, ma la ignorò, sorridendo ad un Gakupo visibilmente perplesso.
Si offrì di accompagnarlo a ricontrollare la sua camera, per accertarsi di non aver dimenticato niente.
- Tornerò tra cinque giorni. - gli disse Gakupo, una volta arrivati alla stanza.
Len annuì.
- Insieme al mio sostituto. -
- Vi somiglia? -
- No. -
Grugnì, con disappunto: "Stavolta nulla mi impedirà di avere a che fare con un vecchio noioso.".
- Sono sicuro che starete bene, con lui. -
- Dubito potrò stare bene con lui come sto bene con voi. - un sussurro. Accennò ad un sorriso, l'altro sospirò.
Un istante dopo, sentì le sue mani sulle guance, le labbra sulle sue.
Non approfondì il bacio. Lasciò che rimanesse delicato, poco più di uno sfiorarsi.
Si scostò appena: - Vi penserò ogni giorno. - mormorò, un altro bacio leggero: - Vorrei tanto potervi reincontrare prima che svanisca la sensazione delle vostre spalle nel mio abbraccio. -
- Se davvero penserete a me ogni giorno, non sparirà facilmente. -
Len sorrise.
Avrebbe voluto dire qualcos'altro.
Ma sentiva che poteva bastare.

Era strano non vedere Gakupo nella magione.
Non vederlo a pranzo, all'ora del the, a cena, non dover fare lezione.
Era tornato tutto come tanti mesi prima, quando ancora non lo conosceva.
Era tornato come prima.
Era strano andare in paese senza Gakupo.
Passeggiare senza averlo al proprio fianco, senza stuzzicarlo, senza afferrare il suo braccio.
La cosa più strana, però, era pensare che quella sarebbe stata la sua normalità per i successivi sei mesi.
Quella che era stata la sua normalità prima di conoscerlo.
Era tornato come prima.
Non riuscì a dormire, nonostante le fitte che gli accoltellavano la testa.
Rigirò il cuscino, per posare la testa sul lato asciutto.
Strinse i denti, sotto le coperte gelide del proprio letto.
Non erano trascorse neppure ventiquattro ore.

Le domestiche avevano già pulito la stanza in cui faceva lezione con Gakupo.
Quando andò a vederla, quella mattina, trovò il tavolo perfettamente lucidato, la lavagna pulita, non un'ombra di gesso.
Avevano già pulito anche la camera di Gakupo.
E l'avevano chiusa a chiave.
Sarebbe stata inutilizzata per molto tempo - il precettore sostituto avrebbe alloggiato in un'altra stanza.
Len ne fu felice.
Non avrebbe sopportato che qualcun altro occupasse quella camera.
Soltanto, sarebbe voluto entrarvi.
Quando cercò di abbassare la maniglia, quella notte, non ci riuscì.
Non sapeva se chiedere la chiave alla governante. Sarebbe stato come urlare ciò che avevano più o meno cercato di tenere segreto.
Scese le scale, alla ricerca di quella stanza in cui aveva più volte cercato di rubargli un bacio.
Chiusa anche quella.
Non era molto utilizzata, era inutile tenerla aperta.
Ritornò nella sua camera.
Aprì i suoi armadi, guardò i suoi vestiti, uno per uno.
Si sfilò la camicia da notte.
La strinse tra le braccia, riportando alla mente ogni istante di ciò che succedeva ogni notte.
Accarezzò la stoffa con le labbra, lì dove era vivido il ricordo di un'altra bocca.
Lasciò che una mano ripercorresse quelle carezze sul suo corpo.
Ma i gemiti non erano gli stessi.
Non erano trascorse neppure quarantotto ore.

Tornò a letto poco dopo colazione.
Chiuse le tende.
"Sei mesi..."
Si premette i palmi contro gli occhi bagnati.
"Sei mesi..."
Tremava.
Non importava quante coperte mettesse, quanto pesanti fossero il suo vestito o la sua camicia da notte.
Si costrinse ad uscire dalla propria camera, ad impegnare la mente con qualsiasi cosa.
Si sedette al pianoforte subito dopo pranzo. All'ora di cena vennero a chiamarlo.
- E' stata una così bella giornata, Len! - sospirò sua madre: - Era proprio necessario riempire la casa con quelle musiche tanto cupe? Ce ne sono tante decisamente più allegre! -
"Ho saltato l'ora del the...".
Quella notte indossò il kimono che aveva portato al ballo dei conti di Tibirsh.
Lo lasciò aperto, si sdraiò sul letto. Chiuse gli occhi.
Era stata una bella serata.
Con la torta alle banane, e citazioni giuste al momento giusto, e vestiti sbagliati al momento sbagliato, e passi goffi, e danze impacciate.
Era stata una bella serata.
Sì, era stata una bella serata, quella di poche ore prima.

Quei segni sarebbero spariti.
Prima di sei mesi, non sarebbero riapparsi.
Non riusciva ad arrivare con la bocca al collo o al petto e non riusciva ad arrivare neppure alle cosce.
Almeno avrebbe potuto illudersi.
Sarebbero spariti e tutto sarebbe tornato esattamente come prima di conoscerlo.
Le giornate sarebbe tornate uguali a prima.
Il suo corpo sarebbe tornato uguale a prima.
Ogni cosa sarebbe tornata uguale a prima.
Quando non aveva ancora sentito parole del genere dette in quel modo tanto sincero, quando era ancora vergine, quando non aveva ancora provato tutto quello.
"Perché tutto torna come prima...?"
Per quanto potesse vivere, ogni cosa rimaneva immobile, ritornava alla sua immobilità originaria.
Forse sarebbe rimasto così per sempre, qualsiasi cosa lui cercasse di fare.
Non c'era nessun cambiamento.
Nessuno avrebbe potuto dire niente circa ciò che era successo.
Forse neppure lui. Forse neppure Gakupo.
In quei giorni, aveva pronunciato il suo nome tante volte.
Tante volte.
Tante volte.
Non s'illudeva che lui facesse altrettanto.
Sapeva che, forse sulla nave, forse ai porti, forse anche in Giappone, si sarebbe unito ad altre donne - o forse anche altri uomini.
Era un uomo. Era una necessità. Era giusto così.
Tuttavia, voleva illudersi che continuasse a pensare a lui.
Che in quelle donne, o in quegli uomini, rivedesse lui, cercasse lui.
Perché se ogni cosa intorno a lui era immobile, se non c'era alcuna prova di niente, allora non c'era alcun motivo per cui ricordarlo.
Premette una mano contro il petto, contro il cuore, per impedire che rompesse le ossa del torace.
Voleva illudersi.
Continuava a chiamare il suo nome, ancora e ancora.
Anche se ogni cosa rimane immobile, non voglio essere dimenticata.
"Anche se la mia voce appassisse, non voglio essere dimenticata.".

Perché?
Se l'era chiesto tante volte.
"Avrebbe potuto portarmi con lui. A Kyoto."
Era solo lui ad essere immobile.
Gakupo era andato in un altro Paese. Per vedere una donna che si sposava.
Anche lui si sarebbe potuto sposare.
Il suo aspetto era senz'altro cambiato da quando aveva la sua età.
Non era come lui.
"Lui... ha paura." lo realizzò quella notte: "Lui ha paura di guardare solo me. Per questo è andato via, senza portarmi con sé. Per questo mi ha detto quelle cose. Lui ha paura di unirsi a me, completamente. Lui è scappato da me.".
Non era come lui.
Gakupo poteva cambiare.
"Lui non è come me. Per questo ha paura di guardare solo me."
Guardò il suo riflesso: "Non voglio che abbia paura di me. So che era sincero, quando mi ha detto quelle cose. So che lui desidera guardare solo me, per sempre."
Non era come lui.
"Se io non posso cambiare come lui, se io non posso diventare come lui, allora sarà lui a diventare come me. Diventeremo una cosa sola. E saremo insieme per sempre."
Osservò i suoi stessi occhi: "Diventare come me."
Osservò lo specchio: "Capisco..."
Ne accarezzò la superficie: "Devo solo capire come.".

- Dunque...? -
- Il signor Kamui ha garantito che il signor Sheeawn è una persona assolutamente seria e competente. -
- Cos'ha detto, esattamente? -
Sua madre ci pensò un istante: - Ci ha rassicurato circa la sua assoluta integrità morale e il suo alto livello culturale. E ci ha garantito che parla la lingua giapponese in modo fluido e corretto, tanto che, se non fosse per i tratti, sarebbe scambiato per un nativo giapponese. -
Len annuì, piano.
"Probabilmente, è un suo collega." pensò: "Deve essere un qualche strano commerciante...".
Gli era stato detto che era inglese. Quindi non avrebbe dovuto avere gli occhi a mandorla.
Il suo dubbio era sull'età del signore in questione: trent'anni o più di sessanta?
Era un signore serio e composto o un vecchietto mezzo cieco con la gobba?
Somigliava di più al suo ex-precettore - quello generale, non quello di giapponese - o allo zio Al?
Era rigido e severo? Era antipatico?
Con tutta la calma del mondo e l'entusiasmo che strisciava sotto i tacchi, Len lasciò che la signora Tod lo aiutasse ad indossare il suo vestito blu scuro, dai merletti neri.
Il famigerato signor Sheeawn sarebbe arrivato alle dieci, insieme a Gakupo.
Nel ripensarci, sentì il cuore sussultare.
A conti fatti, erano solo cinque giorni che non lo vedeva.
Gli sembrava fossero trascorsi cinque anni.
Le dieci arrivarono in un istante - tanto da chiedersi se non si fosse effettivamente svegliato alle dieci meno dieci.
Per evitare che arrivasse in ritardo, sua madre era andata personalmente a recuperarlo dalla biblioteca in cui si era chiuso - aveva avuto il tempo di riempire di ghirigori solo una pagina.
Riuscì ad ottenere di aspettare alla finestra del corridoio, davanti alla porta della stanza in cui avrebbe incontrato il famigerato signor Sheeawn.
Mise le braccia conserte, trasse un profondo respiro, lo sguardo fisso sulla linea dell'orizzonte.
Cercava di non pensarci, di scacciare quell'idea dalla testa.
Ma quella sarebbe effettivamente stata l'ultima volta in cui avrebbe visto Gakupo, per i successivi sei mesi.
Sapeva che non avrebbe potuto salutarlo come avrebbe voluto - "Chissà se anche lui..." -, che si sarebbe dovuto mostrare composto e sorridente.
Sorrise, il sorriso più puro e innocente che sapesse fare.
"Non devo essere triste!" alzò le braccia, si stiracchiò: "Non ho alcun motivo per esserl-"
Sgranò gli occhi: qualcosa era apparso sulla strada. Una carrozza.
Sentiva il rimbombare del cuore nelle orecchie.
"Va tutto bene." chiuse gli occhi: "Va tutto bene.".
Riaprì le palpebre, osservando la carrozza percorrere la strada tra i prati, fino a fermarsi all'entrata.
Avvicinò il viso al vetro, incuriosito.
"Forse riesco a vedere..."
La portiera si aprì.
Quando rivide Gakupo, con la sua divisa bianca, inspirò, sentendo l'ansia - era ansia? - scivolare giù di colpo, sul pavimento.
"..."
Qualcun altro era sceso dalla carrozza, subito dopo Gakupo.
Dopo di lui, la portiera fu richiusa.
"..."
Len suppose che quella persona con Gakupo fosse il signor Sheeawn.
"..."
Sbattè le palpebre.
"... è..."
Sembrava vestito come Gakupo. E, da lontano, sembrava incredibilmente giovane. Forse aveva diciotto, diciannove anni.
"... di gradevole aspetto, pare.".
Forse era la lontananza.
Vide il maggiordomo fare loro cenno di seguirlo all'interno della casa.
Di corsa, Len tornò da sua madre, sedendosi composto al suo fianco.
Inspirò, passandosi le mani sulla gonna, per evitare che si formassero pieghe.
"... quello lì sarebbe davvero il signor Sheeawn...?".
Improvvisamente, la curiosità nei confronti del signor Sheeawn era aumentata.
Dopo un tempo che parve eterno, il silenzio assoluto della stanza fu spezzato dal rumore della porta che si apriva. Sulla soglia apparve il maggiordomo: - Il signor Gakupo Kamui e il signor Kyte Sheeawn. -
"Si chiama Kyte...?"
Il filo dei suoi pensieri fu rapidamente interrotto dalla comparsa di Gakupo.
Eppure, nonostante fosse lì, davanti a lui, a meno di due metri, non sentì alcuna sensazione di soffocamento, gli occhi non bruciavano, non avvertì alcuna morsa allo stomaco, le mani e le braccia non tremavano.
Si sentiva tranquillo.
Persino il sorriso che fece fu spontaneo, nient'affatto tirato.
Era bizzarro, in un certo senso.
Ma, forse, era meglio così.
Un'altra persona entrò nella stanza: era vestito esattamente come Gakupo, dalle frange dorate agli stivali neri, occhiali rettangolari compresi; per un istante, Len si chiese se non stesse davvero indossando una qualche divisa di ricambio dell'altro. Magari ristretta. Perché Kyte Sheeawn non era alto come Gakupo, non aveva la sua stazza: era più basso di una spanna abbondante, le spalle erano più strette, ma le dita coperte dai guanti scuri non sembravano affatto affusolate; non aveva una cascata di capelli chiari, la sua pelle non era pallida e, come previsto, non aveva gli occhi allungati.
E l'impressione che fosse di gradevole aspetto non era stata un'illusione data dalla distanza.
Len guardò prima lui, poi Gakupo. Poi tornò a guardare il signor Sheeawn.
"... si trovano tra di loro?" si domandò, sbattendo le palpebre: "C'è un allevamento specializzato a prescindere dalla nazionalità?" sbattè di nuovo le palpebre, nel tentativo di realizzare appieno ciò che aveva davanti: "In quasi sedici anni mi è capitato di rado di trovare uomini di bell'aspetto e ora ne incontro due a breve distanza di tempo? Che si conoscono?".
Entrambi si erano seduti sul divano davanti a quello su cui erano seduti lui e sua madre.
Solo Gakupo parlava; aveva notato il signor Sheeawn dare veloci occhiate alla stanza, per poi soffermarsi sulla padrona di casa.
E, infine, su di lui.
Aveva gli occhi azzurri. Somigliavano un po' ai suoi.
E aveva uno sguardo e un'espressione terribilmente freddi.
Len gli sorrise.
Vide il suo sguardo farsi ancora più glaciale.
"... non deve essere una persona molto socievole...".
Sentiva la voce di Gakupo, pacata e gentile come sempre.
Spostò lo sguardo su sua madre: ascoltava in assoluto silenzio - chissà quanto stava ascoltando, in realtà.
Guardò Gakupo. Niente. Non sentiva alcuna emozione negativa. Sentiva solo tranquillità.
Piegò appena la testa di lato.
Gli sembravano decenni che non sentiva la sua voce.
Era bello sentirla di nuovo.
E rivedere quello sguardo gentile, senza alcuna ombra di sospetto o irritazione.
Era davvero come se non fosse successo niente.
- Mia signora, oujo-sama... -
Len riportò la mente alla realtà. Non aveva ascoltato una sola parola di ciò che avevano detto Gakupo e sua madre.
- ... vi presento Kyte Sheeawn. -
- Onorato. -
Tornò a guardare il diretto interessato. Anche lui aveva una bella voce. Non era bassa come quella di Gakupo, aveva una nota stranamente più dolce, del tutto in contrasto con quell'espressione gelida.
- ... e Lady Ren Mirror. -
"Ren."
- Len. - sorrise, si coprì la bocca con una mano. Non era riuscito a trattenersi.
Per un attimo, pensò che un nome del genere avrebbe dovuto provocargli un'ondata di malinconia.
Invece, gli veniva da sorridere, tranquillo.
- Perdonatemi, oujo-sama. - per la prima volta in quell'incontro, Gakupo si rivolse direttamente a lui. La sua solita voce. Quella che si accompagnava a sospiri di rassegnazione ogni qualvolta non riusciva a pronunciare quell'unica L.
- Daijoubu. - riportò le mani in grembo: - So che ormai mi avete dato un nuovo nome, sensei! -
Gli parve di vedere le labbra di Gakupo curvarsi appena, verso l'alto.
Avrebbe voluto abbrac-
- Len, non prenderti gioco del tuo insegnante. -
Lanciò un'occhiataccia a sua madre: "Perché rovinate i miei viaggi mentali?".
- Bene, signor Sheeawn... -
Len ne approfittò per tornare a guardarlo: la sua espressione, il suo sguardo, erano sempre gli stessi.
Eppure c'era qualcosa che stonava.
Non riusciva a capire cosa fosse esattamente. Era un qualcosa di talmente vago da far sembrare tutto fuori posto. Forse non era così vago. Era come se avesse la risposta sotto gli occhi, ma non riusciva a capire.
Lo vide chinare la testa: - Gakupo tende spesso ad esagerare. -
Len sollevò le sopracciglia: "... lo chiama direttamente per nome? Senza alcun titolo?". Dovevano conoscersi molto bene: "Interessante..."
- Ma spero di essere all'altezza delle sue parole più lusinghiere. -
Gli sfuggì un sorriso, lo coprì con una mano: - Sensei wa oshaberi desu... -
Non era facile far parlare Gakupo. Ma, quando ci si riusciva, a volte diceva cose bizzarre.
A quanto pareva, era una caratteristica estesa.
- Spero tu non abbia detto nulla di sconveniente. -
Si bloccò, quando si rese conto di ciò che aveva appena detto. Non riuscì a trattenere un altro sorriso nel ricordare l'occasione in cui aveva pronunciato quella frase.
Abbassò la mano, ricomponendosi: - Iya, okaasama. -.
Gettò uno sguardo a Gakupo. La sua espressione si era appena incrinata.
Trattenne un altro sorriso. Non lo stava facendo apposta. Ma aveva un qualcosa di divertente.
"Oh, non credo che Gakupo-sensei si arrabbierà per una cosa tanto innocente.".
Spostò lo sguardo sul signor Sheeawn.
Lo stava fissando.
A giudicare da come i suoi occhi freddi sembrassero inchiodati su di lui, doveva starlo guardando da parecchio.
Sbattè le palpebre, confuso: "... non capisco se mi odii o se mi stia studiando. Ma perché dovrebbe odiarmi...?".
- Temo sia ora di andare. - quelle parole, pronunciate da Gakupo, gli fecero riportare l'attenzione su di lui.
Si sentiva un po' disorientato.

Gakupo stava partendo davvero.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
Len osservò un paio di domestici passargli davanti con due grosse valigie scure. Dovevano appartenere al signor Sheeawn.
Incuriosito, seguì i due uomini fino alla loro destinazione: sì, a quanto sembrava, quelle valigie erano del signor Sheeawn e la camera in cui i servitori erano entrati era quella che sarebbe stata del signor Sheeawn. Ritornò sui suoi passi.
- Non andare subito ad assillare il signor Kamui. - gli aveva detto sua madre, poco prima, costringendolo a rimanere seduto sul divano: - Sicuramente vorrà dare le ultime direttive al signor Sheeawn. -.
Dopo un numero imprecisato di minuti, Len era uscito dalla stanza, indeciso sul da farsi. E si era imbattuto nelle valigie del signor Sheeawn.
Gakupo stava partendo davvero.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
Si specchiò nel vetro della finestra, sistemandosi il fiocco nero della crocchia.
"Uh, dovrò fare lezione subito subito oggi?" piegò la testa prima da un lato poi dall'altro, cercando di capire se fosse presentabile. Sospirò, alzando gli occhi al soffitto: "Temo di sì...".
Abbassò lo sguardo, verso la carrozza ferma davanti all'ingresso.
Sbattè le palpebre.
Trotterellò verso l'uscita, un sorriso sulle labbra.
Gakupo stava partendo davvero.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
- Gakupo-sensei! -
Era lì, davanti alla carrozza, con altre persone.
Len scese le scale di corsa, fino a raggiungerlo, fino a stringerlo a sé.
Era davvero come sempre. Come se non fosse successo assolutamente niente.
Era felice.
- Non mi avete salutata per bene! - piagnucolò, alzando lo sguardo fino a guardarlo in volto, oltre le lenti rettangolari.
C'era una minuscola luce di sorpresa, in quegli occhi.
- Partite per sei mesi o cercate di scappare? -
Gakupo stava partendo davvero.
Gakupo era già partito cinque giorni prima.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
E non avrebbe più avuto paura di lui.
Sentì i polsi nelle sue mani, si sentì allontanato. Non si sarebbe aspettato nessun'altra reazione.
- Nessuna fuga, oujo-sama. - rispose Gakupo, pacato come sempre, bugiardo come gli piaceva essere: - Mi auguro che, al mio ritorno, abbiate dimenticato comportamenti tanto indecenti. -.
Non riuscì a trattenere una risata.
Nascose le labbra dietro una mano, portò l'altra dietro la schiena: "Eppure non mi siete mai parso eccessivamente contrario ai miei comportamenti indecenti...".
- Kaito. -
Riportò le mani lungo i fianchi e notò Gakupo rivolgersi al signor Sheeawn, ad un paio di metri da loro: - Non metterti nei guai. -
"Kaito?" guardò l'altro annuire piano; nei suoi occhi, per la prima volta, riuscì a scorgere qualcos'altro oltre la freddezza: indecisione, o forse il timore di qualcosa.
Len sbattè le palpebre: "... il signor Sheeawn è una persona strana.".
A giudicare dal modo confidenziale con cui gli si era rivolto Gakupo - e dal modo in cui lui stesso aveva chiamato Gakupo -, dovevano essere amici.
La conferma che il signor Sheeawn fosse una persona particolare.
"Me lo lasciate per sei mesi, Gakupo?" sventolò la mano, mentre la carrozza si allontanava.
Come cinque giorni prima.
Adesso doveva aspettare sei mesi.
Sei mesi.
Sei mesi.
- Siamo rimasti solo noi due! - trillò, portando le mani dietro la schiena.
Tanto valeva dare la giusta dose di pathos alla scena.
- Ci sono anche i vostri servitori, signorina. E vostra madre vi attende in casa. - gettò uno sguardo al signor Sheeawn, al suo fianco: aveva ancora gli occhi fissi sulla linea dell'orizzonte, freddi.
A sentirla così vicina, la sua voce aveva davvero una nota dolce, per quanto il suo tono fosse impassibile; la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato si fece sempre più forte.
- Cercavo di essere poetica! - gli fece notare. Decisamente, certa gente non aveva il senso della scenografia.
Stavolta, il signor Sheeawn si voltò verso di lui: le sopracciglia appena inarcate, lo sguardo perplesso. Quella bizzarra sensazione si affievolì.
- Prego? -
Len piegò la testa di lato: - Nei libri, alle partenze, qualcuno dice sempre una frase poetica. - spiegò: - E' per dare la giusta atmosfera! -.
Il signor Sheeawn sbattè le palpebre, la fronte aggrottata.
Quella sensazione era sparita del tutto, in un istante.
- ... forse... - parlò lui, dopo qualche secondo: - ... dovreste pronunciarla con un tono più basso. -
"Oh." sgranò gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento di aver praticamente urlato, poco prima.
Era ovvio che il signor Sheeawn fosse confuso: non poteva starnazzare una frase solenne, rischiava di rovinare tutta la drammaticità!
- Forse avete ragione. - si portò una mano davanti alla bocca, ripetendo quelle parole tra sé e sé: - Lo terrò a mente, per la prossima partenza! -
- Signorina... -
Prima che potesse pensare qualsiasi cosa, la voce della governante gli ricordò della presenza di altre persone - e del fatto che-
- E' probabile che il signor Sheeawn debba sistemarsi. -
- Vero! - tornò a guardare l'altro - non si era neppure accorto di aver gettato un'occhiata alla donna -, incontrò il suo sguardo seriamente disorientato: - Lasciate che vi mostri la casa, signor Sheeawn! -.
Corse verso l'ingresso, rievocando il percorso da fare per raggiungere la stanza in cui aveva visto i due domestici portare quelle due valigie.
Si bloccò, non sentendo alcuna presenza accanto a sé. Si voltò e guardò in fondo alle scale: il signor Sheeawn stava salendo piano, un gradino per volta, con estrema calma.
- Siete stanco, signor Sheeawn? - domandò, indeciso se preoccuparsi o ridere.
Era buffo, in un certo senso. Strano, ma buffo.
"Me lo lasciate per sei mesi, Gakupo?" aspettò che lo raggiungesse davanti al portone: "Quindi posso giocarci un po?".

- Quella porta là in fondo conduce alle cucine, questa a sinistra al giardino interno, quella a destra porta sulla strada che conduce alle stalle. - fece i gradini a piccoli salti: - State attento quando salite le scale, a volte puliscono anche fin troppo bene! - sorrise, per poi riportare l'attenzione sul corridoio: ormai non era più troppo distante dalla meta.
Aveva mostrato la casa al signor Sheeawn, trotterellando davanti a lui - e fermandosi di tanto in tanto per assicurarsi di non esserselo perso da qualche parte; per tutto quel tempo, l'espressione dell'altro era rimasta invariata, come eternamente bloccata in un istante senza emozione.
Quella sensazione bizzarra era tornata a farsi sentire, con particolare forza.
"C'è qualcosa che stona..." e non era solo quella faccia gelida con una nota dolce nel timbro. Eppure, sentiva che quella voce fosse un indizio.
E che la soluzione fosse davanti ai suoi occhi.
Fu appena notò il maggiordomo davanti ad una porta che capì di aver ricordato bene l'intero percorso: - E questa credo sia la vostra stanza. - annunciò, fermandosi.
Quando sentì il signor Sheeawn al proprio fianco, la porta bianca si aprì, rivelando la stanza - e, cosa più interessante, le valigie che gli erano passate davanti erano ora a pochi metri da lui, del tutto incustodite.
Varcò la soglia e raggiunse i due bagagli scuri. Non sembravano nascondere cose particolari, probabilmente contenevano solo lo stretto necessario.
Si avvicinò, socchiudendo appena gli occhi: le due valigie erano pulite, tirate a lucido, eppure, negli angoli inferiori, c'erano delle abrasioni e il materiale delle maniglie stava iniziando a venire via.
"Sono di buona qualità..." piegò la testa di lato: "... ma sembra siano state usate spesso." spostò la testa dall'altro lato: "Forse viaggia molto...?" si raddrizzò: "... però..." esitò: "... il signor Sheeawn non mi sembra uno che fa lo stesso lavoro di Gakupo.".
Non sapeva perché avesse quella certezza. Soltanto, pensare al signor Sheeawn come ad un mercante era come pensare ai suoi genitori come assidui e irrefrenabili frequentatori di eventi mondani.
Una striscia bianca colpì i suoi occhi.
Quando capì cosa fosse, trasalì: - L'avete mai usata? -
- Prego? -
Si voltò a guardare il signor Sheeawn: era rimasto sulla soglia, rigido, gli occhi fissi su di lui. Sembrava una statua.
- La vostra spada. -
Non somigliava alla katana di Gakupo. Era una spada classica, come quelle che era abituato a vedere.
- No. O meglio, sì. -
"... no o sì...?" inarcò un sopracciglio.
Poi vide una cosa che bloccò qualsiasi suo pensiero: il signor Sheeawn stava sorridendo.
... o meglio, aveva curvato le labbra verso l'alto, con fatica, quasi gli angoli della bocca pesassero infiniti chili.
- Ma non sono mai stato un soldato, se è questo che chiedete. -
"Uhm, in realtà non ci avevo pensato. Però, allora, posso escludere una fetta di impieghi." il mistero sul cosa fosse Kyte Sheeawn rimaneva. In ogni senso.
Vista l'evidente difficoltà con cui stava sorridendo, sorrise al suo posto, un po' per metterlo più a suo agio, un po' per evitargli di continuare a tenere quella smorfia sofferente.
Tornò a guardare la spada. Era la seconda volta, dopo la katana di Gakupo, che si sentiva tanto incuriosito da un'arma.
- Mi piacerebbe impugnarne una. - confessò, lasciando andare un sospiro più pesante di quanto avrebbe voluto: - Ma i miei genitori mi hanno sempre tenuta lontana da cose di questo tipo. -
Gli ufficiali.
Strizzò gli occhi, quasi avesse avuto una fitta alla testa. Quando li riaprì, si rese conto di aver conficcato le unghie nei palmi.
- Posso comprenderli. Potreste farvi male. -
"Già..." sospirò: - Mi piacerebbe vederla sguainata. -
Sbattè le palpebre: "Giusto!"
Tornò a guardare l'altro: - Potreste, qualche volta? - sorrise: - Non vorrete tenerla sempre nel fodero, in mia presenza! -
"Una spada vera! Dal vivo! Vicina a me! Sguainata!"
- Temo dovrò, signorina Mirror. - le parole del signor Sheeawn erano piuttosto sgradevoli. Lo vide chinare appena la testa: - Se quella spada fosse sguainata, significherebbe che c'è un problema. -
"Ma non è vero! Potreste anche solo tenerla fuori senza usarla!"
Gli occhi dell'altro, tornato a guardarlo, erano di nuovo freddi. E sofferenti. C'era un qualcosa di strano, in quegli occhi azzurri.
Gli si avvicinò, incuriosito. Il signor Sheeawn non si mosse - più che altro, non sembrò neppure essersi accorto di lui, nonostante gli stesse davanti.
"... è..." aggrottò la fronte: "... strano.".
Si lasciò sfuggire un sorriso, proprio quando il signor Sheeawn sembrò ritornare alla realtà: - Chiamatemi Len! - esclamò: - "Signorina Mirror" è troppo lungo da dire, non trovate? -
- Ehm... -
"Ma no, signorina Mirror, non potrei mai osare chiamarvi in maniera così-"
- Come desiderate, signorina... Len. -
"... oh."
Qualcosa trasalì, nel suo petto. Curiosità. Tanta curiosità.
"Perché non si è rifiutato?" giunse i palmi davanti al petto: "Ma soprattutto... perché non ha trovato nulla di strano in una simile richiesta?"
- Quindi posso chiamarvi "signor Kyte"? - voleva vedere fino a che punto riuscisse ad arrivare: - O forse dovrei dire "Kyte-sensei"? O magari... - "Uhm, com'era che l'aveva chiamato? Ah, sì.": - ... "Kaito-sensei"? -
Vide le sue spalle rabbrividire. Forse quegli appellativi non gli erano molto graditi.
Trattenne una risata: "Ha un modo di fare glaciale, ma pare che le sue emozioni siano cristalline..."
- Credo che la prima possa andare. - sembrava stesse controllando la voce. Quegli appellativi dovevano fargli davvero uno strano effetto.
- Allora io sarò "signorina Len" e voi "signor Kyte"! -
- Vi ringrazio per il riassunto, signorina Len. E' stato molto utile. -
"Nessuna piega." cercò di guardarlo negli occhi, ma si erano fatti sfuggenti, quasi nervosi per qualcosa: "Ha accettato subito. Forse perché pensa di dovermi dire sempre di sì...?"
- Len. -
"... perché mia madre si ostina ad interrompere le mie profonde riflessioni socialmente impegnate?"
- Direi che puoi lasciare in pace il signor Sheeawn. Vai nella stanza dove studiavi con il signor Kamui e aspettalo lì. -
"Come sospettavo."
- Sì, madre. - "A proposito, ma da quanto tempo è qui?"
Si congedò dal signor Sheeawn, lasciandolo in balìa di sua madre - senz'altro avrebbero dovuto parlare di cose noiose e, ancor più senz'altro, di lui e del modo migliore di tartassarlo con i compiti.
Non ci teneva ad origliare.
Anche perché tutto quello stava assumendo una piega interessante: il signor Sheeawn era una persona strana e curiosa.
Voleva saperne di più.
Voleva sapere chi fosse quella persona a cui Gakupo parlava in modo così confidenziale, a cui aveva affidato il lavoro, e che si comportava in modo tanto bizzarro.
E voleva capire cosa ci fosse di così palesemente fuori posto nella figura di Kyte Sheeawn.






Note:
* "Se non amassi anche me stesso, allora sarebbe giusto che io venissi distrutto": citazione da Imitation Black.
["Se non amerò anche me stesso (Se non c'è amore dell'individualità) / è giusto che io venga distrutto"]
* Il vestito bianco "che somiglia tanto a quello delle occasioni speciali o forse no" è il vestito bianco angelicato (?) indossato da Len durante la sua strofa pucciosa (?) in Imitation Black.
(Kyte si prende Len in versione nera, Gakupo in versione bianca.)
* Sì, la frase che Len dice a Gakupo quando lo saluta la prima volta è un'altra versione della stessa che ha detto dirà poi a Kyte per "tranquillizzarlo" della lontananza.
Anche questa è una citazione da Imitation Black.
* "Continuava a chiamare il suo nome, ancora e ancora.", "Anche se la mia voce appassisse, non voglio essere dimenticata.": citazioni da Haitoku no Kioku - The Lost Memory.
[Chiamerò il tuo nome ancora e ancora / Anche se la mia voce appassisse, non voglio essere dimenticato] [Traduzione]
* Qualche giorno fa ho fatto un edit nelle note del capitolo precedente, lo riscrivo qui perché mi rendo conto che è difficile che sia stato notato.
[Avviso: Mi sono resa conto di aver fatto confusione con i titoli nobiliari e i modi in cui rivolgersi ai duchi - semplicemente, non avevo messo i "di" (Duchi di Mirror, Conti di Tibirsh), e ho fatto chiamare Len "duchessina" piuttosto che "Lady Len Mirror" o "Lady Len". Più alcuni "Vostra Grazia" riferito ai duchi e qualche altro "Lady/Lord" alle comparse. Ora ho corretto, scusate l'errore. °A°]




Ah, dopo essermi tanto lamentata dei capitoli che si scindevano da soli, sono arrivata a dividere un capitolo io stessa spontaneamente. *Ci sembra giusto.*
Il motivo, in realtà, è molto semplice: come si sarà notato, ormai il flashback si è ricongiunto con il primo capitolo, bene o male i retroscena sono stati quasi tutti svelati - quasi tutti - e, soprattutto, si chiude il capitolo "Gakupo". Sostanzialmente, ho voluto dividere in quel punto perché non volevo che il ruolo di Kaito fosse schiacciato a sandwich (?) nel rapporto tra Gakupo e Len - se non avessi diviso, questo capitolo si sarebbe aperto come si è aperto e si sarebbe chiuso con il ritorno di Gakupo e tutte le vicende pre-flashback; ossia, sarei finita con il rendere Kaito solo una persona di passaggio che si è "intromessa" tra Len e Gakupo.
Spero di riuscire a non farlo apparire così. °A°"
(*Soe, perché parli come se questa fosse una storia con una trama mozzafiato piena di inaspettati colpi di scena?*)
Probabilmente, dovrò cambiare il titolo in Bananantiful. *Grazie, Tayr!*

Forse l'assoluta seraficità di Len alla seconda partenza di Gakupo può lasciare perplessi.
Se ci fate caso, però, non è poi così serafico.
Del resto, dovrebbe ormai essersi notato che Len ha delle visioni un po' distorte...
E poi ha trovato qualcosa in grado di distrarlo. U.U

A tal proposito...
... non credevo che fare "scene a specchio" fosse così difficile! °A°""
E' che bisogna stare attenti a non dare per scontato che la scena già si conosca. Forse il lettore sì, ma il personaggio no. E, al tempo stesso, non annoiare troppo chi la scena già l'ha letta da un altro punto di vista. °A°
*Complimenti a chi ci riesce bene.*

Nondimeno, in generale, non è stato un capitolo facile.

Detto questo, spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Se avete critiche o consigli, dite pure. ^^
  
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