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Autore: ellephedre    28/05/2014    12 recensioni
A vent'anni Shun Yamato lascia il Giappone per andare in America. È stato ammesso al MIT, sua sorella è incinta... La sua vita sta per cambiare.
Non sa quanto.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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shun yaato

Nota importante: questa storia è ambientata nel 1996. Si può notare da alcuni particolari (il più importante: non ci sono i cellulari.)

  

   

Per lei

   

       Autore: ellephedre

 

   

1.

   

 

Shun Yamato si svegliò con la gola secca e le ginocchia che colpivano il tavolino del sedile anteriore dell'aereo. Afferrò l'acqua prima che cadesse, la mano stretta attorno al bicchiere, il polso che roteava scoprendo l'orologio. Dallo spiraglio di un finestrino un raggio di sole si riflesse sul quadrante. La luce lo colpì dritto agli occhi. Shun strizzò le palpebre e guardò oltre il doppio strato di vetro, verso il cielo azzurro fuori dall'aereo.

Si era fatto giorno. Dovevano trovarsi nelle vicinanze della East Coast.

Passò una hostess, la stessa donna solerte che gli aveva servito i pasti durante il volo. Notando che era sveglio, lei si fermò. «Stiamo per atterrare. Le ho lasciato sul tavolino il modulo per la dogana.»

«Ariga...» Shun si schiarì la gola e passò all'inglese. «Grazie.»

Prese in mano il modulo più per riflesso che per utilità: non aveva nulla da dichiarare. Sapeva cosa chiedeva quel foglio, non era la prima volta che usciva dal Giappone. Era solamente la prima volta che lo lasciava per sempre. Chiuse gli occhi e si fece passare la malinconia.

In futuro poteva tornare a Tokyo tutte le volte che voleva, le vacanze erano fatte per questo. Magari non avrebbe rivisto l'appartamento dove aveva vissuto negli ultimi sei anni - prima o poi bisognava venderlo - ma poteva visitare il suo quartiere e l'università che aveva frequentato. Soprattutto, poteva andare a trovare il suo miglior amico, Alexander.

Si era lasciato dietro tante cose nel paese che aveva chiamato casa, ma lo aveva fatto per un ottimo motivo. Era stato ammesso al MIT di Boston e quell'università era il punto di partenza per tutti i sogni che aveva. Valeva qualunque sacrificio.

Per convincersi a partire, aveva cercato di non vedere rinunce nella sua scelta. Come persona aveva un problema: si attaccava troppo alle cose e ai luoghi. Erano la sua sicurezza, ma rinunciare all'istruzione eccellente a cui puntava da sempre sarebbe stato... già, da idioti. In passato lo aveva fatto quando, dopo le superiori, aveva deciso di non partire. 

Si era trovato bene in un posto in cui si era sentito a casa, in una università che era stata già ottima, e con accanto l'unica persona di cui si fidava - Alexander, sempre lui, l'unico vero amico che si fosse mai fatto nella sua vita. Fox - come lo chiamava sin da quando si erano conosciuti, da bambini - aveva fatto benissimo a trovarsi una ragazza fissa. Shun aveva creduto che sarebbero stati compari solitari ancora per molti anni, invece Alexander aveva trovato Ami e lui era rimasto solo, come si meritava.

Non aveva amato Sakura - la sua prima fidanzata, gentile e disponibile - e non aveva ricambiato Rika, la sua relazione più importante - una ragazza dolce, disposta a volergli bene nonostante i suoi difetti. Con Kazue aveva sperimentato, per vedere se dalla compatibilità di carattere poteva nascere un'intesa seria, ma la cosa non aveva funzionato. Infine, Himeno... Con lei si era solo divertito. Per allora aveva già saputo di dover partire; ne era stata cosciente anche lei e nessuno si era fatto male.

Shun era una persona che aveva bisogno di pochi individui a cui affezionarsi. In Giappone gli era bastato Alexander, ma ora che si staccava dal suo migliore amico... Sì, magari avrebbe avuto un incentivo maggiore a far funzionare una relazione. Non aveva paura di innamorarsi; anzi, voleva che gli capitasse. Era una cosa pratica e conveniente: ne derivavano compagnia continua, affetto e sesso a volontà. Purtroppo non era riuscito a rendere duratura quella combinazione di vantaggi. Si era fortemente limitato nel perseguire quello e altri obiettivi nella sua vita, per timore del cambiamento - la paura di abbandonare una stabilità che già funzionava per lui. Aveva riconosciuto il proprio errore per tempo, perciò aveva deciso di non tenersi quella palla al piede. Era ora di spiccare il volo, si era detto, e così aveva fatto.

In fondo era fortunato. Negli States, a Boston, lo aspettava l'unica famiglia che aveva.

A breve avrebbe toccato terra nella sua nuova vita - un'esistenza in cui avrebbe spremuto al massimo le proprie capacità per costruire qualcosa di cui il mondo intero si sarebbe ricordato. Come incentivi aveva la gloria, la soddisfazione personale e il brevetto milionario che voleva inventare e patentare a suo nome. Realizzandosi sarebbe anche riuscito a sistemarsi finanziariamente entro i trent'anni e, da quel momento in poi, non avrebbe più sentito l'impulso di risparmiare per sentirsi al sicuro. Con impegno e una buona dose di genialità, avrebbe risolto tutti i problemi che aveva sentito di avere. Il futuro aspettava solo Shun Yamato.

Eccomi, sto arrivando.

Roteò il polso e guardò l'orologio. Erano le due e venti del mattino, quindi l'ora locale era... mezzogiorno e venti. Il volo sarebbe atterrato in orario.

Ripassò mentalmente il percorso che avrebbe fatto in città: una volta fuori dall'aereoporto doveva prendere un bus della linea Silver Line e scendere alla South Station. Da lì le linee Red Line e Orange Line della metropolitana lo avrebbero portato a destinazione. L'appartamento di sua sorella Asuka si trovava circa due minuti a piedi dalla fermata più vicina, a sentire lei. Lui aveva con sé anche una mappa dettagliata della città, oltre che l'indirizzo esatto.

Erano tutte indicazioni di cui poteva non aver bisogno: era probabile che Asuka lo stesse aspettando all'uscita dell'aereoporto, nonostante la pancia di quaranta settimane che si portava dietro. Sarebbe stato epico se lei fosse già andata in travaglio, un'ottima storia da raccontare a sua figlia.

"Mentre tuo zio si trasferiva dal Giappone agli Stati Uniti, io sono dovuta correre in ospedale a partorirti. Lui ci ha raggiunto con calma, sai? Quell'egoista non voleva assistere alla tua nascita."

In effetti lui non ci teneva. Avrebbe subìto la tortura di entrare in una sala parto quando avesse avuto un figlio suo - forse, tra non meno di dieci anni - ma nel frattempo intendeva fare lo zio e prendersela comoda.

Se sua sorella fosse già andata in ospedale, lui comunque sarebbe passato prima dall'appartamento di lei, per liberarsi delle due valigie di quaranta chili complessivi che si era portato da Tokyo. La metà del peso era dovuto a roba di Asuka - stupidaggini, a parer suo, ma lei li chiamava 'cimeli', ricordi preziosi.

D'altronde, gli aveva detto sua Asukla, lei aveva creduto di poter recuperare i propri averi con calma. Ma ora che lui andava via del Giappone, bisognava essere realistici: difficilmente lei sarebbe tornata in terra nipponica nel prossimo futuro. Non aveva più nessuno da andare a trovare e già quando c'era stato lui ci era tornata una volta sola. Era stato Shun a muoversi per incontrarla, di solito in estate.

Loro due non vivevano insieme da quasi cinque anni, da quando lui ne aveva compiuti sedici.

Sarebbero andati ancora d'accordo come coinquilini? Shun era pronto a essere paziente. Per cause di forza maggiore a breve sarebbero stati in tre nell'appartamento di Asuka. Aveva intenzione di essere di supporto a sua sorella, o almeno di provarci, dato che non c'era in giro un altro uomo a sostenerla.

"Avevo il cuore in gola quando gli ho rivelato di aspettare un bambino" gli aveva raccontato Asuka. "Ero pronta a sentire di tutto - che non se la sentiva, o che era troppo presto per noi. Ma sai cosa mi ha detto lui? Scusa, sono già sposato. Quello stronzo, maledetto figlio di-!»

Al telefono Asuka non aveva pianto. Non versava lacrime da quando era bambina.

"Vada al diavolo! Io mio figlio me lo tengo. Farò da sola!"

Col passare delle settimane era saltato fuori che il bambino di sua sorella era una bambina. Anche Shun ne era stato contento: a suo modo, sua sorella aveva già allevato un maschio.

"Shun, guarda che sono maturata. Non mi diverto più a buttare all'aria tutto quello che tocco. Ho dato un ordine alla mia esistenza.»

Sei incinta e senza il padre di tua figlia, aveva pensato lui, ma non aveva detto niente. In fondo, era ancora sorpreso: aveva creduto che, in una situazione simile, Asuka avrebbe optato per un aborto indolore.

"Come mai...?" Non aveva saputo come formulare la domanda. "Che cosa pensi di fare con questa bambina?" Che futuro si era immaginata Asuka, dopo l'evento che le avrebbe stravolto la vita? Nessuno di loro due aveva mai avuto una vera famiglia; non sapevano da che parte cominciare per crearne una normale.

Per qualche momento la chiamata intercontinentale aveva trasmesso solo rumori di fondo.

"Vorrei darle quello che non abbiamo avuto io e te" aveva risposto sua sorella.

La pausa gli aveva portato molti ricordi. I Natali che Asuka si era premurata di passare con lui, mentre i loro genitori li lasciavano soli. I consigli che lei gli aveva dato per qualunque problema, come se con sei anni di più fosse stata davvero un'adulta a cui un ragazzino si poteva affidare.

"Non mi dovevi niente" le aveva detto Shun.

"Sei mio fratello. Mi sentivo responsabile per te, anche se alla fine non sono stata capace di esserci sempre, o di dirti la cosa giusta."

"Non spettava a te."

"Già. Spettava a mamma e papà."

Lui li chiamava Reiko e Hideki e non aveva mai voluto nulla da loro. Sentiva di non aver avuto né un padre né una madre. Era meglio così.

"Per la mia bambina vorrei essere una vera mamma, sai? Non lascerò che la cresca una tata."

Un proposito lodevole.

"Rimanere incinta... mi ha cambiato. Ora sento che non ci sono più solo io e ho voglia di essere una persona migliore. Voglio che mia figlia mi veda come una donna che può ammirare."

"Non sarà facile."

"Ehi! Non scherzavo!"

Si ricordava ancora la risata nervosa di lei e la domanda imbarazzata che era seguita.

"Tu credi che ne sarò capace?"

"Sì." Asuka era testarda e caparbia. A ventisei anni era una donna adulta che si manteneva da sola da tanto tempo ed era in grado di trasformarsi per qualcuno a cui voleva bene.

"Hai ragione, ce la farò. Ogni tanto mi faccio prendere dai dubbi."

Lui aveva sentito l'incertezza di lei, una sensazione che aveva premuto dentro la sua stessa testa per settimane. Quei pensieri lo avevano portato a farle una proposta assurda.

"Verrò a stare a Boston più o meno quando tu partorirai."

"Non vedo l'ora! Dovresti sentire come scalcia questa peste!"

Lui aveva desiderato trovarsi nello stesso continente di lei, nella stessa città, nell'appartamento dove sua sorella sorrideva per la felicità.

"Pensavo... Magari per il primo semestre potrei risparmiare sull'alloggio se... Che dici se vengo a stare da te? Così, se avrai bisogno di qualcuno..."

Lo aveva interrotto un gridolino. "È un'idea magnifica! Ho una stanza libera qui!"

"Dicevo che risparmierei un bel po' e forse potrei aiutarti con... qualcosa." Magari avrebbe potuto passare qualche ora alla settimana con la bambina, anche se l'idea lo terrorizzava.

"I pannolini!" aveva esclamato lei. "E se non riuscirò a dormire tu potrai farmi da babysitter!"

Lui aveva cominciato a pentirsi. "Pensavo più a un supporto morale."

La risata di sua sorella gli aveva quasi spaccato le orecchie. "Ci hai creduto! Non preoccuparti, non ti deruberò della tua preziosa vita da studente. Potrai andare ai tuoi party bostoniani e intrattenere qualche bella studentessa di Harvard. Sarà fantastico, certo che ti voglio qui!"

Lui si era convinto a non ritrattare. "Bene. Allora... non arriverò prima del venti dicembre. Devo dare qui gli ultimi esami, ma..."

"Oh, non importa. Non preoccuparti, davvero. Dicendo che vieni a stare da me, mi hai già..."

Shun aveva udito un lungo sospiro. "... stai piangendo?"

"Lascia stare. Questa piccoletta mi ha fatto diventare ultra-emotiva. Sono contenta che vivremo di nuovo insieme!"

"Okay. Sono... felice che tu sia felice."

"Hai ancora l'imbarazzo dei giapponesi!" Sua sorella aveva riso. "Dài, smetto di torturarti. Ci sentiamo una prossima volta, così ci accordiamo su tutto."

Con il passare dei mesi, si erano organizzati sui dettagli. Nelle ultime settimane lui aveva capito che per Asuka sarebbe stato difficile venirlo a prendere all'aereoporto. Lei era sempre stanca, a stento trovava l'energia per fare una passeggiata. Asuka aveva insistito per presentarsi comunque, a meno di non andare in travaglio proprio quel giorno. Era amica del custode del palazzo, pertanto avrebbe lasciato a lui tutte le informazioni necessarie se lei non fosse stata in casa per il suo arrivo. Da tempo gli aveva dato una copia delle chiavi dell'appartamento, in caso di emergenza.

Non partorirai proprio oggi, vero?

Sarebbe stato assurdo che la bambina scegliesse quel giorno per nascere, quando aveva ancora una settimana buona per venire fuori. Secondo le statistiche, poche donne partorivano nel giorno fissato. Quelle alla prima gravidanza ritardavano più delle altre, perciò la bambina poteva tranquillamente nascere nel 1998, considerato che era il ventidue dicembre.

Shun si era informato un poco sul processo, anche se aveva evitato accuratamente il libro che sua sorella gli aveva mandato. 'Cosa aspettarsi quando si aspetta' era il titolo. Asuka si era realmente aspettata che lui lo leggesse? Quello era un testo per future madri, forse d'interesse per un padre, impensabile per uno zio. Shun lo aveva lasciato in Giappone e adesso si chiedeva se non sarebbe stato utile al suo amico Alexander. Quell'idiota - a vent'anni - forse avrebbe avuto un figlio con la sua ragazza, Ami Mizuno, una studentessa che non aveva ancora terminato le superiori.

Come avevano fatto due persone con un Q.I. tanto stellare a comportarsi come due idioti? Avevano saltato la lezione sulla prevenzione o non avevano capito come usare uno stupido profilattico?

Bah. Era circondato da gente che si riproduceva come conigli, senza criterio.

Lui era stato attento con le quattro ragazze che aveva avuto, ma a cosa era servito? Presto si sarebbe ritrovato ugualmente tra pannolini pieni di cacca e urla assordanti. Li avrebbe prodotti un essere che Asuka aveva deciso di chiamare Arimi e che per lui fino a quel momento era rimasto indefinitamente 'la bambina'. Nella sua testa si trattava di un prototipo di essere umano di mezzo metro, senza faccia né carattere.

Tecnicamente, sapeva cosa avrebbe comportato la nascita di lei per la sua vita, ma all'atto pratico... Avrebbe provato qualcosa la prima volta che l'avrebbe vista?

Avrebbe sentito che lei era parte della sua famiglia, o sarebbe rimasto indifferente come si sentiva ora?

Forse avrebbe imparato ad amarla tramite Asuka. Ci avrebbe provato, almeno. Col passare del tempo poteva affezionarsi anche lui. Non riusciva a immaginarlo, ma l'attaccamento ai neonati era una sorta di imperativo biologico per tante persone - donne soprattutto. Se lui aveva un'inclinazione simile, non lo sapeva: non stava vicino a un bambino sin da quando aveva smesso di essere un bambino lui stesso.

Guardò fuori dal finestrino. L'aereo stava scendendo sotto le nuvole.

Rimise nello zaino il libro che aveva letto durante il volo.

Era inutile rimuginare su quello che sarebbe accaduto. L'importante era essere di supporto a sua sorella.

«Si informano i gentili viaggiatori che stiamo per atterrare all'aereoporto internazionale Logan di Boston. Sono le ore dodici e venticinque locali, la temperatura al suolo è di 35 gradi Farenheit. Allacciate le cinture di sicurezza e seguite le indicazioni del personale di bordo. Vi ringraziamo di aver viaggiato con noi e vi auguriamo un piacevole soggiorno. Se avete necessità di proseguire con un collegamento dall'aereoporto, vi invitiamo a...»

Shun smise di ascoltare. No, lui era arrivato a destinazione. A breve avrebbe rivisto Asuka e la pancia di lei - grande come dieci palle da basket, aveva detto sua sorella al telefono.

Sorrise. Aveva già pronta la macchina fotografica.

   

«Motivo del soggiorno?»

«Studio» rispose all'ufficiale dell'immigrazione. «Sono iscritto al M.I.T.»

«Quanto ha intenzione di fermarsi?»

«Due anni.» Questo almeno era quello che diceva il visto che aveva ottenuto. A studi conclusi, si sarebbe trovato un lavoro e avrebbe fatto richiesta per una green card.

«Ha già scelto un alloggio?»

«Mi fermerò da mia sorella per qualche mese.»

L'ufficiale smise di scorrere le pagine del suo passaporto e passò a guardare lo schermo del computer. «Ha un numero a cui posso chiamare questa persona di riferimento?»

«Sì. Ma lei dovrebbe essere qui all'aereoporto ad aspettarmi.»

Privo di espressione, l'uomo restò in attesa di una risposta dal computer. Appena la ottenne, fissò annoiato il passaporto che teneva in mano. «Va bene.» Vi appose sopra un timbro. Era un individuo calvo, con occhi azzurro pallido. Shun si sorprese a pensare che, da quel momento in poi, la maggior parte delle persone che avrebbe incontrato avrebbe avuto tratti occidentali. Addio agli occhi a mandorla e ai capelli neri. Gli sarebbero mancati.

«Buona permanenza negli Stati Uniti.» Gli venne reso il suo documento.

«Grazie.»

Attese per dieci minuti l'arrivo delle due valigie che aveva fatto caricare nella stiva. Nel frattempo andò in bagno e, spese i primi dollari americani che aveva cambiato per comprare uno snack. Si scoprì allegro. Era passato un anno e mezzo dall'ultima volta che aveva visto sua sorella.

Arrivarono le sue valigie, quella blu in cui stavano tutti i suoi averi e quella rossa, in cui aveva portato le cose di Asuka. Sistemò il trolley sopra la valigia più grande e si incamminò verso l'uscita, per entrare definitivamente in territorio americano.

Oltre le porte sorrise, cercando tra i volti quello di sua sorella. Ad una prima occhiata non la vide. Scrutò ancora il gruppo di persone in attesa, avanzando così piano che venne superato da una ragazzina con la treccia che inciampò sulle sue valigie.Si decise ad accelerare il passo: poteva cercare meglio Asuka uscendo dalla strada altrui.

Rimase con le orecchie allerta, aspettandosi di sentire il proprio nome da un momento all'altro. Si ritrovò tra gente che si salutava, felice di ritrovarsi.

Asuka era in ritardo? O aveva sbagliato gate?

Provò a cercarla nei bagni. Nelle ultime settimane lei gli aveva detto di dover far pipì ogni dieci minuti.

Rimase fuori dai servizi igienici più vicini per un quarto d'ora, gli occhi incollati alle porte da cui era uscito, senza risultato.

Per altri dieci minuti percorse in lungo e in largo l'enorme sala di aspetto, poi si arrese e provò a chiamare il numero di lei. Mentre il telefono squillava, tirò fuori il foglio con le indicazioni per raggiungere l'appartamento.

Sei veramente in travaglio?

Non gli rispose nessuno a casa di Asuka. Aveva calcolato che ci voleva circa un'ora per arrivare fino a casa sua, poi altri venti minuti per giungere all'ospedale.

Il travaglio dura anche un giorno intero a volte. Ho tempo.

Preoccupato, si mosse veloce verso i treni diretti in città.

 

Un'ora dopo si trovava a casa di sua sorella. Il custode del palazzo gli diede le chiavi e poche altre informazioni: se lei era uscita, lui non l'aveva vista, ma era arrivato al lavoro alle sette, pertanto lei doveva essere andata via prima.

Shun non andò oltre l'ingresso dell'appartamento. Lì sfogliò la guida telefonica che Asuka teneva sotto il telefono. Voleva essere sicuro della destinazione prima di muoversi. Trovò il numero dell'ospedale e chiamò.

«Salve. Per caso avete una paziente di nome Asuka Yamato?» Cercò di evitare l'accento giapponese, ma la donna non comprese ugualmente il nome che lui aveva pronunciato.

«Asuka Yamato» ripeté Shun alla cornetta. «Ha un parto programmato nel vostro ospedale. Può dirmi se è già stata ricoverata?»

«Per una questione di privacy, signore, le devo chiedere di presentarsi personalmente al nostro banco per questa informazione. Può rivolgersi al primo piano, nella sala accanto al pronto soccorso.»

«Grazie.» Di nulla.

La donna riattaccò senza nemmeno salutarlo. Shun rimase a fissare il telefono.

Americani.

Tolse il computer dallo zaino, si tastò la giacca per controllare di avere portafoglio e documenti addosso, quindi chiuse la porta e uscì.

   

Per strada, prese coscienza della situazione.

Sto per diventare zio.

Asuka doveva essere per forza all'ospedale. Se ci era andata all'alba, allora la bambina poteva nascere in serata, forse persino di notte. O magari sua sorella era uscita di casa già la notte precedente, perciò era possibile che sua figlia fosse già fuori - fuori, come dieci palloni da basket che attraversavano un canestro.

Rise e rabbrividì.

Se si era perso il parto, meglio. Se invece il processo era ancora in corso... Asuka non lo avrebbe fatto entrare in sala, giusto? Aveva detto che l'avrebbe aiutata una sua amica, perciò probabilmente lei era già lì. Come si chiamava la ragazza? Madison? In faccende simili una donna qualunque era un supporto migliore di un fratello senza esperienza. Lui sarebbe rimasto fuori dalla camera di tortura.

Forse, come nei film, a un certo punto avrebbe sentito un pianto?

Cominciò a capire.

Stava succedendo qualcosa di nuovo nella sua vita. Un evento che lo faceva sentire... euforico. Presto avrebbe avuto un'altra persona nella sua famiglia.

Arrivando all'ospedale, si diresse verso il pronto soccorso, quasi correndo. Si fermò davanti al bancone, dietro un altro paziente.

Gli toccava aspettare prima di parlare con l'infermiera.

Nell'attesa, occhieggiò la mappa dell'ospedale. Da che parte doveva andare? Verso il reparto di ginecologia, ostetricia o... neonatologia, se Arimi Yamato era già nata.

La persona davanti a lui si spostò.

«Buongiorno» gli disse l'infermiera.

«Buongiorno.» Shun frugò nella tasca della giacca, in cerca di un documento. «Sto cercando mia sorella. Dovrebbe essere nel vostro ospedale, in sala parto. Può dirmi se...?»

«Nome?»

«Asuka Yamato.» Prima che la donna chiedesse, lui le mostrò il passaporto.

L'infermiera lo squadrò rapidamente e riprese a digitare al computer. Si fermò. «Può fare lo spelling?»

«A.S.U.K.A.» La divisione in lettere degli occidentali gli sembrò per la prima volta confusionaria. Dovette ricordarsi come si scriveva il suo stesso cognome. «Y.A.M.A.T.O.»

La donna fissò lo schermo verde e nero del computer. «Sì, la signora è da noi. Si diriga al reparto di ostetricia. Chieda alla capo sala.»

Lui non se lo fece ripetere due volte. Aveva un buon senso dell'orientamento e non si perse nel percorso tortuoso verso l'ala seminascosta dell'ospedale.

«Asuka Yamato?» domandò alla responsabile che si trovò davanti.

L'infermiera si fermò sui propri passi, facendo strisciare le ciabatte bianche. «Yamato?» ripeté, con accento americano.

In Shun si riaccese l'euforia. «Sì.»

L'espressione cupa di lei lo confuse, ma la donna la fece svanire in un attimo. «Lei è un parente?»

«Suo fratello.»

«Un momento. Le chiamo il dottore.»

Doveva prima parlare con lui?

Si rassegnò ad attendere in un lato della sala, in piedi.

Sul lato opposto vide una famiglia intera in attesa. Parlavano tra loro, ridendo e cercando di non fare troppo rumore. Nel corridoio oltre le loro spalle una persona stava seduta da sola, la testa china, le mani sulle tempie. Era una ragazza giovane, affranta.

In quel posto - si ricordò Shun  - era possibile ricevere anche brutte notizie. Per fortuna Asuka era giovane e forte.

Dal corridoio in cui era seduta la ragazza apparve un dottore. Lei si alzò come per riceverlo, ma il medico la ignorò e su indicazione della caposala si diresse verso di lui. 

Shun non ne ricavò una buona sensazione.

Viene da me. Qualcosa è andato storto?

Magari la bambina era capovolta e dovevano fare un cesareo? Non era un intervento complicato.

Il medico lo raggiunse. Respirò a fondo. «Salve. Cercava Asuka Yamato?»

«Sì, è mia sorella.»

«Mi segua per favore. Da questa parte.»

La ragazza che aveva visto prima era rimasta in piedi. Li guardava, le guance umide di lacrime appena asciugate.

Shun scacciò il nodo allo stomaco. Io quella non la conosco. «Ci sono stati dei problemi?»

Il medico non fece alcun segno con la testa, lo portò verso l'angolo del corridoio. Shun credette che fosse sul punto di aprire le porte che davano verso le sale parto, ma si fermarono in quel punto, senza avanzare oltre.

Il medico parlò. «Sua sorella è arrivata qui da noi alle una del mattino di oggi. Ci ha indicato di aver avuto le prime contrazioni alle undici di ieri sera.»

Asuka era in travaglio! Da tutta la notte! «La bambina è nata?»

«Il travaglio non ha presentato apparenti problemi durante il suo svolgimento. La signora è stata supervisionata dal nostro personale ogni ora, come richiede la nostra procedura. Abbiamo praticato un'epidurale, su richiesta della paziente, intorno alle sei di questa mattina. La signora ha cominciato a spingere verso le una e mezza del pomeriggio, sotto la mia supervisione. La bambina era nella posizione corretta, ma è sopravvenuta una complicazione.»

Di cosa stava parlando?

«La signora ha perso conoscenza, il battito cardiaco si è interrotto. Ho dato il via alla procedura di rianimazione e abbiamo avuto un chirurgo in sala nel giro di un minuto. Lui ha scelto di agire con un cesareo di emergenza in loco.»

... cosa?

«Abbiamo mantenuto costante l'afflusso di ossigeno e abbiamo estratto la bambina in meno di due minuti. La neonata presenta un buon quadro clinico: il punteggio nel test di Apgar mostra che non ci sono state conseguenze per lei. Per sicurezza, è in incubatrice ora.»

«Come sta mia sorella? Cosa le avete fatto?»

Il medico fece una prima pausa. «Abbiamo continuato con le procedure di rianimazione, ma il cuore non ripartiva. Con l'anestesista abbiamo somministrato epinefrina e altri stimolanti e proseguito con ogni tentativo possibile. Dopo undici minuti abbiamo concordato insieme che... la situazione era irreversibile. Ho dichiarato il decesso alle due e dodici di oggi.»

Qualcosa si prese il suo sangue. Sparì tutto verso i piedi, lontano dalla testa.

Il medico lo guardò negli occhi. «Mi dispiace molto per la sua perdita.»

... perdita?

Ho dichiarato il decesso... «No.»

Il dottore cercò di toccarlo, ma Shun si ritrasse. «No. Avete sbagliato persona.»

«Mi dispiace.»

«Ho detto che avete sbagliato persona!»

Il medico chinò la testa. «La signora era accompagnata dalla sua amica.» Cercò di indicargli qualcuno, ma Shun non lo vide neanche.

«La smetta, me la faccia vedere!»

«Eravamo in attesa di un parente che-»

«Shun?»

Una voce estranea, che penetrò a stento nell'oblio che si era creato nel suo cervello. 

La ragazza triste si stava avvicinando a lui. Lo aveva chiamato per nome.

«Sei il fratello di Asuka, vero? Io sono Madison. Asuka ti aspettava, non so cosa...» Le scappò un singulto, un suono misero. «Ero con lei, è successo tutto all'improvviso! Mi aveva detto che tu eri all'aereoporto, che stavi arrivando. Ti chiami Shun, vero?»

No no no. Nonono.

Indietreggiò e il medico si fece da parte. Tutto si fece da parte, scomparve.

«Asuka era così brava! Faticava ma stava bene. Si è accasciata durante le spinte, io non so come....»

Gli mancò il respiro, cominciò ad ansimare. Si guardò intorno, per cercare sua sorella.

Il decesso alle due e dodici...

NO!

Si tappò la bocca, piegandosi in due. «No!» Si mise dritto e capì che stava crollando di lato. «Non è morta!»

La ragazza scoppiò a piangere, le mani in faccia.

«Non è morta...» ripeté lui, parole senza peso, deboli.

La signora ha perso conoscenza, procedura di rianimazione, cesareo in loco, altri tentativi, ora del decesso due e dodici di oggi-

Da un'ora! Mentre lui girava per la città, Asuka...

Fece uscire qualcosa dalla bocca, neppure un suono vero. «Asu...»

La ragazza cercò di toccarlo, di abbracciarlo.

«Lasciami! Lei non-!»

Asuka era morta.

Si coprì la testa, gli occhi. 

Si graffiò la faccia con mani bagnate.

"Gli ometti non piangono, Shun-chan, okay? Lo imparerai? Per la tua sorellina, okay? Altrimenti ti prenderanno in giro."

Uccise le lacrime, se stesso. Si accasciò contro il muro, ansimò senza respirare.

Pianse senza aria, senza vita.

Asuka era morta.

    

Per un'ora vide lo stesso corridoio dell'ospedale e udì parole che non si sforzò neppure di comprendere. Si dimenticò l'inglese - così, tanto per smettere di provare altro dolore.

«I'm sorry» continuava a dirgli la ragazza, Madison. Lui si lasciò abbracciare, manichino esanime senza energie.

Il dottore tornò indietro. «Quando lo desidera, sono a sua disposizione per un referto clinico completo e una... visita. La bambina si trova in neonatologia. Se vuole, può fornirci il telefono di altri parenti prossimi. Avvertiamo noi i genitori.»

Genitori? Asuka non ne aveva mai avuti di veri. L'avevano lasciata tutti da sola in quell'ospedale, a partorire circondata da estranei.

Si allontanò dal muro. Madison-qualcosa era andata in bagno.

«Una visita ad Asuka?» domandò al dottore.

L'uomo annuì. «Possiamo aspettare, se vuole. È un momento delicato per lei...»

«No. Mi ci porti ora.»

«Non ha qualcuno da chiamare per accompagnarla?»

«Eravamo solo io e Asuka.» Solo loro due, sempre. Alla fine anche lui l'aveva lasciata sola. «Voglio andare da lei.»

Seguì il medico lungo un corridoio verde, cupo, come una discesa verso l'inferno. Ma non era lì che Asuka era andata.

Dove sei?

Lei era sparita nel nulla? O era diventata uno spirito, come dicevano in Giappone? Lui poteva mettere i suoi resti in un'urna e fare un piccolo altare?... No. La rivoleva indietro, per parlarle.

Si fermarono davanti a una porta. Obitorio.

«Si prenda il tempo che vuole. Può restare qui fuori, non c'è fretta.»

Asuka mi aspetta. Scansò il medico e spinse di lato le porte della sala.

All'interno, un uomo si spostò tra due ammassi umani coperti da un telo di plastica azzurro, sdraiati su un lettino di ferro.

È troppo freddo per lei.

L'uomo scoprì il viso di uno dei corpi. «È in pace. Dio la benedica.»

Asuka giaceva supina, il viso illuminato da una luce biancastra, tenue. Era pallida, un cadavere. Vederla in quella stato fu come seguirla nella morte.

Shun allungò la mano verso la guancia di lei.

Svegliati.

Sono arrivato.

La toccò, un dito che sfiorava la carne fredda della sua faccia. Si ritrasse, scottato.

Erano quelle le guance con cui lei rideva, quella era la bocca che lei aveva usato per mordere le sue mani, quando era stato piccolo.

"Questa dita sono troppo belle, e tu profumi di buono. Da bebè!"

Dicono che ne hai avuta una, pensò lui. Perché non sei rimasta con la tua bambina?

C'era un suono nella piccola sala, un sibilo. Usciva da lui, un sfiato patetico. Respirò e lo inghiottì.

... cosa le avevano fatto?

Le posò una mano sulla fronte, accarezzandola.

Voeva gridare con tutte le sue forze. Voleva distruggere quella sala e portare sua sorella via da quel posto.

In Francia, dove siamo nati, dove siamo stati bambini.

In un tempo in cui c'era un futuro e Asuka non se n'era mai andata.

Ti rivoglio.

Ma sotto le sue dita lei non si muoveva, non reagiva.

Non era più lì..

Dovette allontanarsi. Si coprì gli occhi. «Questa è l'ultima volta che la vedo?»

«No. C'è il funerale e sicuramente durante la veglia-»

Smise di ascoltare. «Okay.»

Non resistette e uscì dalla sala.

     

La cornetta nera dell'ospedale era fredda contro il suo orecchio.

«Pronto?»

La voce all'altro capo arrivò con un secondo di ritardo. Era Hideki Yamato.

«Sono io. Shun.»

Attese la risposta.

«Shun?... Certo. Cosa c'è?»

Hideki lo aveva a stento riconosciuto. «Ti chiamo da un ospedale a Boston, negli Stati Uniti. Asuka ti aveva detto di essere incinta?»

Attese di nuovo.

«Sì, mi aveva informato. Ha avuto sua figlia? Sei lì con lei?»

«Sono arrivato due ore fa. Asuka è morta durante il parto.»

La pausa al telefono si protrasse.

«... Cosa?»

«Asuka è morta.» Ti meriti di sentirlo e di soffrire, figlio di puttana. Eri suo padre, lei ti amava. Non l'hai ricambiata come avresti dovuto. «Non c'è nessun errore, l'ho vista di persona. È morta durante il parto.»

Attese di nuovo e quasi gioì per il dolore della persona più spietata che avesse mai conosciuto. Evidentemente, era umano anche un automa come Hideki.

Non era il padre che meritavi, Asuka.

Il silenzio continuava.

«Sei un avvocato, Hideki, ti sto chiamando per questo. Asuka è morta in ospedale. Cosa devo fare?»

Udì una domanda confusa e non la comprese. «Cos'hai detto?»

«Quale ospedale?»

«Saint Mary, di Boston.»

«Aspetta lì. Non dare alcun consenso, non firmare niente. Di' che aspetti il tuo avvocato. Manderò qualcuno nel giro di un'ora.»

Hideki aveva amici in tutto il globo - una cosa su cui Shun aveva contato.

Ebbe la prima esitazione in quella conversazione. «Non l'ho ancora detto a Reiko.»

Non aveva voglia di farlo. Non aveva alcun desiderio di udire gli strepiti e le lacrime di lei.

«La chiamo io, Shun.»

Ah, lo chiamava per nome adesso? Con tono arrendevole?

La morte cambiava davvero le persone.

Sentito, Asuka? Forse adesso inizierà davvero a considerarmi suo figlio, se sono davvero l'unico figlio che gli rimane.

«Shun?»

«Cosa?»

«Il bambino. È morto?»

«La bambina.» Ricordò. «È viva. Dicono che sta bene.»

«... non fare niente, allora. Aspetta l'avvocato.»

«Sì.» Riattaccò.

La bambina.

La figlia di Asuka era sopravvissuta.

Arimi.

È proprio un nome da anime, sorella.

Voleva rimanere in un angolo a vegetare, ma ordinò alle gambe di muoversi, per tornare nel corridoio da cui era venuto.

Incontrò di nuovo Madison-qualcosa.

Lei teneva le mani unite sul grembo. «Vado a casa.» Gli porse un biglietto da visita. «Chiamami, per favore. Era la mia migliore amica, voglio aiutarti con... con lei, per il funerale.» Represse un nuovo fiume di lacrime. «Volevo dirti che... ho rivisto la piccola. È oltre quel corridoio. Sta nella sua incubatrice, te la indicherà l'infermiera. Ha il nome che aveva detto Asuka. Ha fatto in tempo a dirlo alle infermiere... Non parlava d'altro questa notte.»

Shun rimase col biglietto in mano. Non riusciva a pensare alle ore in cui non era stato presente.

«Bye» gli disse mesta la ragazza e lui la lasciò andare.

Guardò le nuove porte che doveva attraversare. Non erano quelle di un obitorio.

Si spinse oltre le ante e si trovò in un corridoio con nuvole disegnate sulle pareti. I muri erano pieni di soli e fiori.

Penoso.

Dovette camminare un poco prima di arrivare a una grossa vetrata. La finestra si apriva in una stanza piena di piccoli letti. Culle, con tanti bambini.

Sono appena nati. C'è gente che nasce, mentre tu muori.

Non si mosse, rimase a leggere le targhette. Erano tutti nomi inglesi. Andrew, Sarah, Kevin, Josh, Melissa. In fondo alla stanza vedeva due incubatrici.

Un'infermiera incontrò il suo sguardo. Senza che lui le facesse alcun segno, la donna gli si avvicinò. «Buongiorno» mormorò. «Lei... cerca Arimi Yamato?»

Shun annuì.

«Mi segua.» Avanzarono per pochi metri, poi l'infermiera gli indicò di fermarsi e andò verso l'incubatrice più lontana. Cominciò a farla scorrere su delle ruote, verso di lui. Quando fu vicino, gli indicò di guardare. «L'incubatrice è quasi troppo piccola per lei. Questa bambina è sana e forte, un miracolo. Il dottore ha detto di tenerla qui solo per precauzione.»

A lui non importava molto.

La neonata dentro la cupola trasparente era mezza pelata, con un ciuffo di capelli neri sul centro della testa. L'avevano vestita unicamente di un pannolino che permetteva di vedere arti sottili, informi. Lei aveva un paio di fili attaccati al corpo. Più che un essere umano, sembrava un pollo spelacchiato. Guardandola in viso Shun non ebbe un'impressione migliore: il naso era schiacciato, la fronte ampia.

È successo tutto per lei, Asuka?

Ne era valsa la pena? Non gli pareva: non c'era nulla di sua sorella in quella bambina.

Non sento niente per lei. 

Scusa.

La neonata iniziò ad agitarsi. Era sveglia.

«Vuole toccarla?»

No.

«Indossi questi.» L'infermiera gli aveva già passato due guanti di plastica. «Può mettere le mani dentro questi due buchi.» Aprì due sportelli.

Lui fece come gli era stato detto, solo per non discutere.

Con le mani dentro l'incubatrice, esitò nel mandarle avanti.

Alle loro spalle cominciò un pianto.

«Devo andare. Faccia molto piano.»

Lui mosse un dito e lo sentì incontrare qualcosa di solido, che si spostava. Un braccio minuscolo. L'arto continuò a muoversi, toccandolo..

Non sono tua madre.

Non era nemmeno sicuro che lo fosse Asuka, ma l'incubatrice aveva una targhetta.

"Sono Arimi Yamato. Sono nata il 22 dicembre, con un peso di 7 libbre. Sono lunga 20 pollici."

Ridicolo. I bambini non parlavano.

Ma lui sì. «Non le somigli.»

Forse lei aveva gli occhi un po' allungati, ma per il resto era occidentale come il padre. Un uomo che non ti vuole.

Sopraffatto, strinse il braccio di lei, con attenzione. «Mi dispiace.» Non avrebbe dovuto essere lui la prima persona a toccarla. Avrebbe dovuto essere una madre che la amava, o qualcuno che fosse in grado di racimolare un briciolo di affetto nel vederla.

Mi dispiace.

La lasciò andare: lei stava iniziando a piangere.

Tolse le mani dall'incubatrice, levò i guanti.

Attese il ritorno dell'infermiera.

«Grazie» disse. La parola che ci si aspettava da luì.

Uscì dalla stanza.

   

Di sera cercò l'aria di una scala di emergenza, passando da una porta che non avrebbe dovuto attraversare.

L'aria fredda lo colpì al collo.

In Giappone erano le cinque del mattino.

Forse sarei dovuto rimanere lì.

Si compatì da solo. Sarebbe stato solo peggio arrivare più tardi, o il giorno seguente.

Sarebbe dovuto arrivare prima da Asuka. Almeno l'avrebbe rivista, le avrebbe parlato. Ci sarebbe stato lui al posto di quella Madison accanto a lei, mentre sua sorella soffriva in ospedale, da sola. Le avrebbe tenuto stretta la mano e le avrebbe detto che si ricordava di come lei aveva cercato di crescerlo. Le avrebbe promesso che sarebbero vissuti insieme, come la famiglia che avevano tentato di essere da sempre, loro due soli.

Io non ti avrei lasciato andare.

No. Non le avrebbe permesso di finire in un obitorio, con la pelle fredda, su un letto di metallo.

Esausto, sentì di nuovo acqua negli occhi, che cadeva sulle guance.

Era stufo di piangere.

Sto provando a non crollare.

Sto provando a pensare che ce la farò. Se ti aspetto, tu un giorno, come sempre, mi chiamerai. Ci diremo che ci rivedremo presto, un giorno.

Si accasciò contro il corrimano delle scale, la testa tra le braccia.

Lasciò vincere i singulti, tornò la nullità che era stato senza sua sorella.

Tu oggi dovevi avere tua figlia. Io dovevo arrivare in tempo, dovevo trovarti con lei in braccio!

Avremmo riso, avrei visto che eri diventata una persona migliore, come dicevi tu.

Stavi iniziando a vivere, stavi solamente cominciando!

Urlò.

Il dolore coprì i suoni, i pensieri.

Di lui non rimasero che i rantoli.

 

CONTINUA...

 


   

NdA: è il primo capitolo di tre o quattro. Come saprà chi segue la mia saga, questa storia vede Shun Yamato, il protagonista, ricostruirsi una vita con sua nipote Arimi. Di fatto ho già descritto a sprazzi cosa gli succede - dal punto di vista dell'amico Alexander - in un'altra storia, una fanfic su Sailor Moon. Non ci farò troppo riferimento, perché questa storia deve avere vita propria e la sto scrivendo perché non sia necessario leggere tutti gli antefatti per comprenderla. Comunque, se voleste leggere qualche anticipazione importante, potete andare all'epilogo dell'altra fanfic, Verso l'alba.

Per chi invece conosceva già il personaggio... spero di averlo reso bene in questo momento fondamentale della sua esistenza.

I giorni che seguiranno non saranno facili per Shun. 

 

ellephedre

 

Note tecniche: In questo capitolo ho scelto di parlare di tanti argomenti complicati, come un cesareo di emergenza in arresto cardiocircolatorio della madre. Ho letto diversi articoli medici, in inglese, ma non sono un medico. Dalle mie letture ho capito che non è consigliabile in questi casi - quando è possibile - spostare la paziente in una sala operatoria prima di procedere. Si perde tempo prezioso, sia per la madre che per il bambino. La priorità è la madre, ma se non si riesce a rianimarla rapidamente, si dovrebbe procedere all'estrazione del feto il prima possibile - tanti articoli parlavano di un tempo sotto i quattro minuti, per maggiori possibilità di un bambino sano. Il cesareo inoltre sarebbe di aiuto anche per la madre, in quanto il feto crea uno sforzo all'apparato cardiocircolatorio della gestante.

La possibilità di rianimazione dipende naturalmente dalla causa dell'arresto cardiaco. Non l'ho ancora decisa. Propendo per un ictus, ma vorrei fare altre ricerche, in quanto riprenderò brevemente cosa è successo all'ospedale - ne parlerà la famiglia di Shun, con l'avvocato. Voglio essere coerente e - nel limite del possibile - evitare di dire troppe castronerie.

Ho dei dubbi anche sulla scena dell'incubatrice. Penso che un'incubatrice che non sia di terapia intensiva possa essere spostata - ho visto foto e letto descrizioni per capirlo. Il brutto è che mi sono trovata personalmente in una situazione simile, ma i ricordi che ho sono di una sala di terapia intensiva in cui era necessario indossare tute e protezioni anche per le scarpe. La bambina della storia non è in terapia intensiva - già questo in effetti è una sorta di miracolo; avrei potuto essere più realistica, ma purtroppo avevo già parlato nell'altra fanfic di una neonata che era libera di tornare a casa nel giro di pochi giorni, quindi.... Comunque, ho visto tante immagini di incubatrici che sembravano semi-aperte, in cui le mani che toccavano i bambini non erano nemmeno bloccate da guanti di plastica fissati alla struttura.

 Non so, se qualcuno tra voi che leggete ne sa di più, sarò felice di essere erudita :)

   
 
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