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Autore: hypatia_of_alexandria    28/05/2014    4 recensioni
Dal 1967 al 1972, di fronte all'apparente inutilità dello sforzo bellico in Vietnam, la CIA mette a punto il Programma Phoenix: un' operazione congiunta tra servizi segreti e militari statunitensi il cui obiettivo è neutralizzare con ogni mezzo la resistenza VietCong.
A comandare una delle squadre di identificazione nei territori tra Saigon e Da Nang c'è il Sergente Takeshi Tenou, appena ventenne ma che ha già provato su di sé le torture delle prigioni vietnamite. Per Takeshi l'esercito è un'occasione di rivalsa, ma nella terra di nessuno dell'oblio vietnamita dovrà confrontarsi con le più becere sfaccettature dell'animo umano, private di ogni onore o dignità.
"It's such a beautiful, stupid thing... Isn't it?"
L'aveva guardato senza capire. Lui piegò allora un angolo delle labbra in un sorriso stanco, allungando piano una mano ad indicarle il ventre arrotondato.
"Life."

-Spin Off di «The Steadfast Tin Soldier» -
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Il Novecento
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*Respiro profondo*
br> Ciao a tutti :D
Esco per la prima volta, dopo lunghissimi tentennamenti, dalla mia comfort zone per pubblicare nella sezione originali.
La mia comfort zone, lo specifico, è il fandom di Sailor Moon dove sto scrivendo la storia 'madre' cui questa «Paradise Lost» costituisce uno spin-off. Ora, i motivi che nella mia testa collegano Sailor Moon al Vietnam sono piuttosto semplici (ma non proprio intuitivi, lo capisco :P): in quel fandom sto scrivendo una AU in cui si parla principalmente di conflitto in Iraq, in un parallelismo tra la storia della protagonista (un soldato di ritorno proprio dall'Iraq, appunto) e quella di suo padre, il cui passato verrà raccontato qui.
Questo personaggio, di mia totale invenzione, si è guadagnato nel corso della storia sempre più spazio - al di là del mero antagonista, raccogliendo persino diversi estimatori. Per questo motivo ho deciso che meritasse una storiella tutta sua, un po' per far luce sui punti oscuri che non avrei avuto modo di raccontare nella fan fiction principale, un po' per mettermi alla prova su qualcosa di totalmente 'originale'.
Conclusa la noiosissima premessa, lascio alla lettura chi ha deciso di imbarcarsi in questo mio nuovo esperimento :)

Ciao,
Hypatia.



Disclaimer: il titolo della storia e le citazioni che danno il nome ad ogni capitolo sono tratte dall'opera di John Milton 'Paradise Lost' (Paradiso Perduto). Benché l'operazione Phoenix sia realmente esistita e documentata, posso affermare che ogni fatto di seguito narrato è frutto della mia fantasia ed ogni riferimento a cose, persone o avvenimenti realmente accaduti è da ritenersi puramente casuale.


******

Paradise Lost


-1-
'Better to reign in Hell, than serve in Heaven.'

Vietnam
1972

«T'ammazzo, bastardo.»
Lo sguardo allucinato sul volto sporco. Il fiato reso corto dalla colluttazione.
«Volevi uccidermi e invece t'ammazzo io.»
C'era odore acre di fuoco e carne bruciata a permeare l'aria. Si alzò con fatica da terra, il calcio allo stomaco che lo fece di nuovo cadere sulle ginocchia, un rantolo che usciva dalle labbra mentre il sangue colava dalla tempia al collo.
Intorno a loro solo spari e grida.
Lo ascoltò ripetere quel mantra, attendendo che lo avvicinasse ancora: quando sollevò la gamba per colpirlo in faccia fu lesto ad evitare il piede, afferrando la caviglia e tirando verso di sé. L'altro cadde sulla schiena, sbilanciato.
Ebbe il tempo per sporgersi in avanti e, recuperando l'equilibrio, gettarsi verso la cassa di legno dietro la quale era scivolata la pistola, sperando di trovarla. Sperando soprattutto di
vederla.
Si voltò veloce quando l'ebbe in mano, consapevole dell'unico colpo a disposizione; una roulette russa senza altri vincitori.
Lo sparo detonò nelle sue orecchie: la smorfia di Anthony fu l'ultima immagine che si impresse nell'occhio sinistro, prima che il sangue lo accecasse del tutto.

*

Washington,
Distretto di Columbia

Ogni nome è una storia.
L'auto scivolò veloce sulla corsia di immissione, l'autista attento e un'accelerazione non brusca che permise di sorpassare una berlina mentre l'aereo appena decollato sorvolava le loro teste.
Guardava fuori dal finestrino della Lincoln senza parlare; il Blackberry vibrò nella tasca ma non si preoccupò di rispondere.
"Signore, devo portarla a casa o in ufficio?" Un paio di occhi scuri lo cercarono brevemente nel riflesso dello specchietto retrovisore, prima di tornare a concentrarsi sul raccordo di uscita dell'aeroporto.
"A casa." Replicò, decidendo quindi di estrarre il telefono per adocchiare chi l'avesse cercato. Quello vibrò di nuovo tra le sue dita, nella regolare cadenza delle quotidiane scocciature: c'erano trentadue e-mail in attesa di attenzione - arrivate nel limbo tecnologico di un volo durato poco meno di un'ora - ma decise di leggere solo quella della segreteria del Chairman degli Stati Maggiori Riuniti in cui, scoprì, si richiedeva la sua presenza per un incontro dell'indomani.
Non c'era traffico sulla Washington Parkway, e si sorprese quando l'auto proseguì senza svoltare sul ponte della quattordicesima, ingresso della Interstate.
"Non è la solita strada."
"No, Generale." La replica del ragazzo fu immediata, di nuovo gli occhi allo specchietto. "Mentre la aspettavo ho sentito di un incidente all'altezza dello svincolo per il Centro Federale." Spiegò con solerzia. "Ho pensato che questa fosse la deviazione migliore per evitare il traffico."
Non rispose, la mano di quello che andò ad abbassare l'aria condizionata rivelando la manica dell'uniforme grigioverde. Continuarono a procedere nel silenzio, immagini che si rincorrevano al di là del finestrino; la massiccia struttura del Pentagono monopolizzò il panorama per un lungo momento mentre percorrevano la Parkway, l'autista che si portava sulla destra in un veloce lampeggio di frecce, immettendosi quindi sul ponte dell'Arlington Memorial.
Un breve ronzio del telefono: un'altra mail cui rispondere. Alzando lo sguardo realizzò finalmente dove si trovasse, l'inconfondibile sagoma del mausoleo di Lincoln che si stagliava a poca distanza.
Ogni nome è una storia.
"Ferma l'auto." Ordinò poco prima della curva che li avrebbe immessi sul raccordo fino a Constitution Avenue, e lontano dal complesso dei memoriali. L'autista lo guardò senza capire. "Signore?"
"Ho detto fermati."
Senza altre domande il ragazzo rallentò e, attraversando la carreggiata, si accostò proprio dietro il monumento.
"Aspettami qui." Disse quindi uscendo dall'auto, chiudendosi lo sportello alle spalle.
Mosse un passo sul prato che costeggiava il mausoleo, alcuni turisti che uscivano dal grande edificio ed immortalavano il prospettico spettacolo della Reflection Pool fino alla colonna di Washington. Il Blackberry vibrò di nuovo e decise di spegnerlo, raggiungendo quindi il sentiero guidato che si diramava in due direzioni consigliate. Lanciò un'occhiata alle statue che commemoravano i caduti della guerra di Corea prima di percorrere il lieve dislivello del prato, scendendo fino dove le lastre di marmo iniziavano ad erigersi dal terreno.
Altri turisti, sguardi curiosi verso di sé - verso l'uniforme, verso le medaglie. Si fermò di fronte al pannello 7 Ovest, e dopo aver allentato la cravatta infilò le mani in tasca, gli occhi al pannello fitto di nomi.
Ogni nome è una storia.
Trovò, proprio in alto, 'O'Riley, Brian Eamon'.
Erano arrivati insieme, in Vietnam, nel 1968. Brian aveva tre sorelle ed era curioso di sentire l'odore del Napalm: era morto l'anno successivo, dissanguato da un proiettile a frammentazione.
Si mosse di lato, rapide occhiate alle lettere incise sul marmo nero.
Chapman
Hopkins
Cox
Reid

Li trovò in fondo, quasi coperti da fiori secchi, lettere e candele.
Brady, Richardson, Woods, Jordan, Hamilton, Grant, Carter, Elliott. Erano morti tutti nella stessa data.
Takeshi sapeva anche che erano morti tutti nello stesso giorno. Lo stesso giorno in cui la squadra Delta dell'Operazione Phoenix era stata falciata via da un'imboscata.
Ogni nome è una storia.
Mancava un nome, alla lista dei caduti della Delta. Un nome che non era mai stato pianto, ricordato, commemorato e infine inciso sul marmo nero di un monumento ai caduti.
Due dita corsero alle cicatrici sulla tempia.
Un nome condannato all'oblio di non avere più storia.

*

8 km a nord di Saigon,
Vietnam
1971

Faceva caldo fuori. Dentro la piccola stanza ne faceva ancora di più.
"Nome e grado."
"Caporale Anthony Alexander Hoult."
Sentiva il sudore incollare la t-shirt grigioverde alla schiena mentre parlava, il soldato che scriveva con grafia rapida e regolare. Quindi gli indicò una porta, e lui vi entrò dopo un veloce attenti di congedo.
C'erano altri militari dentro, e un rumoroso vociare carico di attesa. Bisbigli, supposizioni che si rincorrevano mentre si cercava di comprendere il motivo per il quale si trovassero lì.
Si sedette all'ultima fila. Erano poco più di una trentina, constatò ad occhio; nessuno era del suo vecchio plotone e - comprese dopo un paio di domande al ragazzo che gli sedeva a fianco, più o meno tutti erano stati chiamati al termine di una licenza, l'ordine di non ricongiungersi al battaglione di appartenenza.
Calò il silenzio quando, dopo altri lunghi istanti scanditi da ipotesi e colorite imprecazioni, entrò un ufficiale che aveva in mano un foglio, seguito a pochi passi di distanza da un altro soldato più alto di lui di almeno due spanne.
"Bene, signori. Per prima cosa, bentornati in Vietnam.» Esordì quello, ironico, gli occhiali da sole scuri appesi al taschino della camicia. "Io sono il Tenente Palmer. Sappiate che conosco questo posto di merda meglio di quanto voi conosciate il vostro stesso culo.»
Ci fu qualche breve risata, ma senza reale divertimento.
«Avete una vaga idea del cazzo del perché siete qui?" Domandò all'improvviso, le parole che attraversarono l'aria densa della stanza.
«Una scorta?» Azzardò qualcuno.
"Un'incursione." Rispose un altro, seduto proprio di fronte al Tenente. Ma Palmer non replicò subito.
«Beh, signori,» incrociò le braccia al petto nel dirlo. «Spero che abbiate mangiato bene, bevuto birra, coccolato i vostri figli e fatto sesso con le vostre donne, perché ci sarà un bel po' da fare.» Fece quindi un lieve cenno in direzione del soldato accanto a lui. "Il Sergente non vede l'ora di spiegare."
Si scostò di lato, facendo spazio all'altro soldato che era rimasto per tutto il tempo in piedi lì accanto, ascoltando attento.
"Non c'è molto che io possa dirvi." Iniziò a parlare dopo lunghi istanti. "Ma sappiate, soldati, che noi siamo fantasmi."
Si presentò come Takeshi Tenou, e mentre snocciolava la spiegazione su quanto si sarebbe loro prospettato, cercò regolarmente lo sguardo di ognuno dei presenti.
Anthony Hoult pensò che quel sergente Tenou sapesse quel che diceva, benché non potesse fare a meno di interrogarsi sul perché avesse un nome così sfacciatamente da muso giallo. Decise di ascoltare quando comprese che quella missione gli avrebbe consentito di continuare a sparare, e di continuare a sparare parecchio.
Ma sopratutto decise di ascoltare quando comprese che niente stava cambiando, per lui.
Noi siamo fantasmi.
Anthony Hoult era nato per sbaglio. Un aborto mancato, un errore che sua madre si era sempre premurata di ricordargli quando, ubriaca e piena di risentimento verso l'ennesima storia finita male, gli inveiva contro. Suo padre non l'aveva mai conosciuto.
Aveva diciannove anni il giorno in cui l'avvocato d'ufficio che gli era stato assegnato per aver riempito di botte un ragazzino negro gli consigliò il centro di reclutamento in Harper Street. Del patriottismo non gli importava un cazzo di niente: voleva solo sparire, smettere di esistere.
Il Vietnam era sembrato solo una buona occasione per scappare.

*

   
 
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