Film > Suicide Room
Segui la storia  |       
Autore: Pachiderma Anarchico    29/05/2014    0 recensioni
"Le persone che hanno sofferto sono le più pericolose, perché pur temendo il dolore conoscono la loro forza e sanno come sconfiggerlo. La loro paura è pari al loro coraggio. Non si fermeranno di fronte a niente e nessuno e sapranno ingoiare tutte le lacrime, sapranno alzarsi dopo aver toccato il fondo. Chi ha sofferto ha un cuore grande perché conosce il bene e conosce il male e ha rinchiuso in se tutto l'amore e il dolore. Sapranno sempre allungare una mano per fare una carezza e trovare una parola per confortarti, ma non sottovalutarle mai, perché sapranno ucciderti nel momento in cui tu cercherai di farlo con loro."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Salve a tutti. Non ho molto da dire, tranne che spero che questo capitolo vi piaccia di più di quanto sia piaciuto a me. 
Grazie, come sempre, per le visite. 
PS: Capitolo con frasi chilometriche. Non chiedetemi il perchè. Avete il permesso di maledirmi.
Pachiderma Anarchico
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------






 

"La più eccitante attrazione
è esercitata da due opposti
che non si incontreranno mai."
Andy Warhol
 

 

- CAP. 7 -







-Te l'avrò detto almeno cinquanta volte.-
-Facciamo cinquantuno.-
-Tu non hai capito.-
-Ma và.-
Dominik si porta due dita sulla fronte e io sto iniziando a contemplare l'omicidio.
-Perchè questo tizio non se né stato a casa sua? Doveva cambiare città ogni volta che scriveva qualcosa?-
-Si chiama ispirazione, l'avresti anche tu se smettessi per due secondi di lamentarti.-
-Mi basta la sua e dovermela imparare tutta per la prossima settimana.-
-Se tu non avessi fatto il coglione con la professoressa..-
-Ah io ho fatto il coglione?-
-No scusa, il testicolo.-
Inarco un sopracciglio. Adesso l'omicidio è totalmente nelle mie grazie.
-Non capirò mai perché dover imparare ogni fottuto dettaglio di una vita che non è la mia.-
-Se solo avessi il cervello grande quanto il tuo ego..-
Mi alzo. Se è un invito a prenderlo a schiaffi accetto volentieri. Ho appena deciso di ignorarlo. Se non lo ignoro potrei prendere un coltello e farlo fuori. Magari uno dell'argenteria di mia madre. Un bell'effetto cinematografico.
-Metto a fare il caffè, ne vuoi?-
-Magari..conoscendo una vita che non è la tua, ti ritrovi in sintonia con quella persona, capisci che appartieni a qualcosa di più grande.-
Schiaffo le mani sul ripiano della cucina. Quale parte del "Faccio il caffè, ne vuoi?" non ha capito?
Mi volto, sopracciglia che stanno sfiorando i picchi del monte Everest, braccia incrociate, fondoschiena poggiato contro il ripostiglio sotto i fornelli, occhi che lo trapassano da parte a parte.
-Io non appartengo a nessuno.-
-Tu?- accenna un sorriso, veloce, rapido, per niente indolore. -Tu appartieni alla tua vita, a ciò che comporta, a ciò che comporterà.-
Fantastico, ha iniziato a filosofare ogni parola che esce dalla mia bocca, e fa maledettamente schifo sentirmi dire la verità proprio da lui che per la stessa
verità non è più lo stesso. Se solo avessi saputo quanto.
-E tu? Dominik Santorski a chi appartiene?- mi accomodo al mio posto senza che il mio sguardo vacilli sul suo viso.
Ha abbassato gli occhi, il sorriso che gli increspava elegantemente le labbra si fa più profondo. 
-Avanti- lo stuzzico, voglio vedere quegli occhi alzarsi, -hai sempre la risposta pronta sugli altri ma quando si tratta di te.. Hai paura.-
-Anche tu hai paura.- 
E quell'azzurro si è sollevato, luminoso, forse malinconico, sicuramente determinato. La sua voce ha pronunciato una risposta dal timbro sicuro, dalla sfumatura ovvia, così ovvia che quasi mi ritrovo nel panico, quasi alzo una mano a tastare se, sotto i polpastrelli, mi è scivolata dal viso l'apparenza faticosamente modellata in anni e anni o la corazza dal corpo.
-Io non ho paura.-
-No?-
Non volevo che quegli occhi si sollevassero? Perché adesso vorrei solo che la smettesse di guardarmi come se riuscisse a cogliere gigli in un campo di viole. Sembra una gara a chi usa il tono più fermo. L'ineluttabilità nel suo, l'inconfutabilità nel mio. Eppure lui ha l'irritante, straordinaria capacità di riuscire a confutare qualsiasi cosa.
-No, ho tutto quello che si potrebbe desiderare e qualunque cosa desidero la posso avere.- Sento la lingua passarmi sulle labbra solcate da un sorriso smagliante. -E tu lo sai benissimo che ciò che proviene da me è sempre oro colato, quello che dico, ad esempio..- sono stato cattivo e lo so. Parole fin troppo precise in un contesto fin troppo chiaro che tagliano l'aria come brutali coltelli. Ma, dopotutto, chi ha detto che devo essere clemente? Nessuno concede clemenza, perché proprio io, proprio qui, proprio ora dovrei mostrare sensibilità e indulgenza, verso chi poi? 
I coltelli che sono sgusciati fuori dalla mia bocca hanno allontanato ancora di più lo sguardo di Dominik da me.
-Bene. Dominik Santorski è appartenuto a così tante cose che adesso non ne possiede più nemmeno una.. e nemmeno una possiede lui.-
Un'ora fa, quando si è presentato davanti la mia porta, avvertivo il gelo nella sua voce e nei suoi occhi, schegge del ghiaccio più puro. Poi, chi sa grazie a quale sconosciuta fonte di calore, ha iniziato lentamente a sciogliere le labbra in sobri sorrisi e io ho iniziato a bramare quei sorrisi, di nuovo, a bramare il Dominik che conoscevo, quello che mi sono impegnato tanto affinché mi odiasse. E quel gelo è tornato adesso, più freddo che mai e anche quell'azzurro, che si è condensato per impalarmi sul posto. Ma amo il rischio, soprattuto se si tratta di rischiare con qualcuno imprevedibile quanto il mare. Reputo strano che sia attratto dall'incalcolabile, quando nella mia vita tutto deve essere determinato e ipotizzato fino alla virgola più bislacca.
-Facciamo una scommessa.-
-Con te? Mai più.-
Mi ritrovo ad avvicinarmi a lui quel tanto che basta da potergli studiare abbastanza dettagliatamente le labbra. Sono allettanti, dalla linea delicatamente visibile fino alle lievi pieghe sul labbro inferiore chiuso ermeticamente con quello superiore. E devo ammettere, non senza una certa riluttanza, che questa vicinanza è certamente più interessante del ricordare il perché qualcuno vissuto tre secoli prima abbia scritto una poesia di 50 pagine comprensibile solo a lui sull'amore della sua vita. Perché non è andato da lui e invece di fare parole non ha fatto fatti? Perché non se l'è preso?
Alzo lo sguardo e scopro che i suoi occhi non si sono abbassati, hanno aspettato fermamente il ritorno dei miei. Ha autocontrollo il ragazzo, proprio quando non lo deve avere. Beh, ha davanti il re dell'autocontrollo, e il re ha appena deciso che vuole vedere questo controllo cadere.
-Una scommessa- ripeto, più lentamente, più solenne, col fare cospiratorio di chi sta architettando il colpo più grosso della sua vita con il suo complice. E Dominik mi è sempre sembrato il complice perfetto. Silenzioso, discreto, scaltro. 
-Io scommetto che scopro a cosa appartieni prima che tu scopra cosa mi fa paura.-
Il ghiaccio azzurro affonda nell'ambrato nero con misterica intensità mentre viene alzata una mano. Mi sta offrendo la stretta della sua mano destra. 
Mi concede inaspettatamente un sorrisetto altezzoso, di quel vanto che non è tanto vanto quanto consapevolezza. Di avere ragione.
-Quindi c'è qualcosa di cui hai paura.- 
-Quindi c'è qualcosa a cui appartieni.-
Gli regalo il mio miglior sorriso soddisfatto, e brillante. Forse è anche altezzoso, di quel vanto che è proprio vanto, a giudicare dalla smorfia che mi lancia il moro. Arriccia le labbra e il naso. Il broncio di un secondo. Neanche sotto tortura ammetterei quanto mi è mancato quel broncio. 
La cucina di casa Lubomirski, la mia casa, risuona placidamente dei rintocchi dell'orologio appeso al muro durante i minuti in cui ognuno, improvvisamente, si perde nel proprio mondo, sospeso in chi sa quali universi, imbrigliato in chi sa quali ricordi. Non sopporto questo silenzio, pesante, denso, carico di perché e saturo di possibilità. Mi alzo, mandando indietro la sedia con un colpo secco. Un colpo che ho reso il più rumoroso possibile. Io sono qui, sono vivo, sono accanto a te, perché deve allontanarsi? Perché deve fuggire lontano dal presente? Perché devi essere tanto irraggiungibile?
-Quindi non vuoi caffè?- 
Patetico quanto poco serva la bocca quando non si ha il coraggio.
-No, ho raggiunto il mio massimo di caffeina per oggi.-

 

***

 

-Qualcuno ricorda la definizione esatta di "rette parallele"?-
-Prof. è cosa da seconda elementare.- 
La voce di Karolina emerge dal vociare nell'aula, venata di sarcastico rispetto nei confronti delle figura che ha difronte. 
-Non te la ricordi Karolina?-
La voce di Raul dall'ultimo banco porta la ragazza ad alzare gli occhi al cielo prima di schiudere le labbra in un provocante sorriso, forte della provocazione.
-Due rette si dicono parallele fra loro quando non hanno alcun punto in comune.-
-E il piano?- rinfodera la divertita ironia di qualcun'altro.
-Oh e va bene, due rette di uno stesso piano sono parallele fra loro quando non hanno alcun punto in comune.-
-Esatto e, signorina Zimmer, potrebbe trovare le parallele molto più interessanti di quanto abbia potuto verificare in seconda elementare.-
La mano del professore di matematica sfila veloce sulla lavagna elettronica, tracciando due linee nere sulla tecnologica superficie bianca. Due rette parallele.
-Non si toccano, non hanno punti in comune, si protendono all'infinito. Semplice, se si considera la geometria Euclidea.-
Metà degli occhi dei presenti sono puntati sulla biondiccia testa riccia di Pewel, che oltre ad essere una cartoleria ambulante e un aspirante monaco buddista, e oltre a credermi un serial killer dichiarato, è anche "l'obiezione" per eccellenza. Si, perché Pewel è capace di contrastare con la sua opinione qualunque cosa, anche un'affermazione incontestabile quanto "il cielo è blu". Il cielo magari è blu davvero, ma lui, con quel fastidiosissimo tono di voce, troverà comunque il modo di opporsi a tale tesi e farti arrivare al punto da convincerti che il cielo non sia realmente blu. I miei occhi però seguono un'altra strada, fanno eccezione, il bersaglio delle mie pupille non è il mio iconico compagno di banco, ma le linee disegnate dinnanzi a me. 
-Avrete certamente sentito l'espressione "sono due rette parallele, non si incontreranno mai".-
-Jace e l'ex fidanzata- esordisce Misha. Prorompenti esclamazioni.
Altra voce. -Joanna e il dopo sbronza.- altre acclamazioni.
Joanna ribatte con una vistosa smorfia. I suoi occhi accarezzano qualcun'altro. 
-Dominik e la sua eterosessualità.- Acclamazioni. Più forti.
-Joanna e il suo cervello.- Fischi. E un ululato di smaliziati "uuuuuh.."
Non ho bisogno di voltarmi per constatare quanto le mie parole l'abbiano colpita. So di aver centrato, con anche una certa dose di nonchalance, il bersaglio nella sua piena, pomposa fierezza. Lo so perché la certezza mi è data dagli schiamazzi divampati tra queste quattro mura. E io sono al di sopra di tutto questo, troppo per girarmi o lanciare un'occhiata ai miei chiassosi vicini. L'unica visione che mi concedo è il notare un'affascinante paio di labbra incurvate nella morsa di un occultato risolino divertito prima che l'insegnante ci strappi tutti al tagliente, esilarante momento.
-Grazie signor Martens, signorina Bond, signorina Saska e signor Santorski.- il professor Kon si appunta gli occhiali sul naso aquilino. E' un tipo sportivo, da jeans e camicia senza cravatta e, scommettendo sull'età, non si è mai arrivati a supporre che l'uomo abbia più di trentacinque anni. E' il professore più giovane che abbiamo e per questo le sue lezioni sono meno noiose di quanto ci si aspetterebbe dall'insegnare una materia come la matematica.
-Ora, se i nostri quattro paladini dell'ordine non vogliono lanciarsi i banchi contro, possiamo continuare. Secondo quanto vediamo dunque, due rette di questo tipo non hanno nulla da scambiarsi, niente per il quale rimanere. E allora perché l'una non si separa dall'altra, perché non deviare il proprio corso e allontanarsi dalla compagna? Perché continuare a percorrere lo stesso cammino sempre, per sempre, fino all'infinito, con qualcuno che non sfiorerai mai?- 
Kon ha incalzato l'attenzione dei suoi studenti, si capisce dagli sguardi elettrici, dall'aria carica dello sfregamento di neuroni che cercano una risposta plausibile alle argomentazioni del professore. Due rette parallele che si incontrano. Il mio sguardo si perde nei raggi di sole che penetrano dalle finestre e rischiarano strisce caotiche di sedie, teste e braccia. Qui non si tratta più di rigore matematico.
-Mmm.. Andiamo andiamo, che ci siete.. Lubomirski- il mio sguardo non è più tanto concentrato sul sole -che ti vedo particolarmente partecipe oggi. Secondo te?-
"Lubomirski" alza le spalle, si passa una mano tra i capelli già spettinati, il suo corpo ostenta una noncuranza che non ha ma che ha sempre incantato tutti, sa che sta per dire qualcosa di intelligente.
-Magari sono opposte e complementari.-
Bang.
Attenzione di tutti i presenti. Silenzio prima della tempesta. Quattro parole più una congiunzione e ha davvero detto qualcosa di sensato. Più che sensato. Strabiliante. E la tempesta scoppia nell'istante seguente, quando ogni bocca inizia a dire la sua, voci su voci, incomprensioni su incomprensioni. E il professore è diventato un conduttore televisivo che cerca di calmare i suoi ospiti.
-Ragazzi buoni, c'è spazio per tutti..Signorina Ubons-Kos?-
-Come fanno ad essere opposte e complementari?- Inizia la ragazza con quel suo accento francese e la voce grossa di una cantante lirica. -Se sono opposte non sono complementari, l'una esclude l'altra.-
-E allora come te lo spieghi il fatto che non si scollano l'una dall'altra?- interviene Joanna con l'atteggiamento degno di un'arringa politica.
-Hanno dei conti in sospeso- ridacchia Samuel. -Vero Leks?-
-Magari una lezione..- Aleksander si distende sulla sedia. Disinvolto, tre metri sopra terra. Tre metri sopra tutti. -Così, giusto per far capire all'altra parallela di chi è il territorio.-
-Ma quella parallela continua a sfuggire.-
Mi guardo intorno. Che cosa diavolo stanno dicendo? 
-Dunque voi dite che potrebbero toccarsi, raggiungersi, completarsi a vicenda? Vedete, il prendere in esame le rette parallele è sempre affascinate, uno degli argomenti più entusiasmanti della geometria, applicabile a discorsi di qualunque disciplina. Abbiamo due rette, all'apparenza uguali, perfettamente identiche, ma non si incontrano mai. Questo significa che non sono così simili come sembrano. Ma se fosse anche solo apparente il non poter toccarsi? Se in un punto collimassero?- rinfranca Mr. Kon.
-Non possono collimare.-
Un'alzata di occhi generale. Sbuffi. Lamenti. Lo sapevamo. Lo sapevamo tutti. 
Pewel ha trovato il modo per contestare. Ovviamente. Qualcuno trovi un hobby al tipo.
-Calcolando la distanza tra l'una e l'altra, l'inesistenza di punti in comune o di scambio, lo spazio in cui si muovono, è impossibile che due rette parallele si tocchino.-
-Razionalmente questo è ciò che dice la logica Signor. Lorensz, ma qui non stiamo parlando di calcoli e numeri, ma di attribuire un sentimentalismo, di dare un'interpretazione al cammino di queste due rette. Siete giovani, dovreste essere bravi ad uscire dagli schemi.-
-Se si vuole uscire dagli schemi..- la voce di Aleksander mi porta a rizzare le orecchie e spalancare i padiglioni auricolari perché si, prevedibilmente e fastidiosamente, sembra che la mia mente non voglia perdersi neanche una parola pronunciata da un timbro tanto superbo quanto accattivante.
-Se si osserva la prospettiva si nota che in un punto si uniscono davvero. Basta mettersi nello spazio tra le rette, e, nel punto più lontano, sulla diretta via dell'orizzonte, si sfiorano, si toccano.. Si raggiungono.-
Quella voce si trasforma sensualmente in una spirale di malizia che l'uomo non ha colto, ma che io ho percepito benissimo.
-Così puoi dare finalmente una botta a quella retta Leks..?- sogghigna la voce divertita di Antony.
-Due rette parallele sono parallele per una ragione.- sto fissando la nuca castano dorato che si è bloccata nel sentire lo stoicismo di cui si fanno forti le mie parole. -Quel punto non è che un'illusione perché se si ci avvicina la prospettiva cambia, e la congruenza semplicemente non esiste. Non si sfiorano, non si toccano, non si raggiungono.- sto affondando ad una ad una le sue parole con sinistro piacere. -Due rette parallele non si scelgono, ciò che le divide sarà sempre più forte di ciò che le unisce. Due rette parallele non si incontrano, mai.-
La nuca dinnanzi a me non accenna a muoversi, qualcosa pizzica la mia gola, entrambi imperscrutabili, entrambi piantati sulle nostre sbagliate, sbagliate posizioni.
-E cosa succede quando due mondi che si appartengono non possono collidere? Cosa può voler dire l'essere opposto e complementare a qualcuno ? E cosa si può fare quando ci si accorge che non si può vivere con quel mondo e che non si può vivere senza di esso?- sorride e siamo sulla linea di blocco per la seconda alzata di occhi al cielo della mattinata. I sorrisi del professor Kon sono, da quattro anni, preludi di morte. 
-Parlatene col vostro professore di italiano, sarà ben felice di assegnarvi un saggio sull'argomento.-
Eccoli tutti gli occhietti che saettano puntando alle stelle. E i miei non fanno eccezione questa volta. Tutto questo sentimentalismo mi ha stancato, ne ho fin piene le orecchie ed è controproducente alla realtà delle cose. 
E pensare che io vivevo di sentimentalismo. Ma, come il "vivevo" è un tempo storico appartenente a un tempo non corrente, appartenente al passato, molte cose sono passate, appartengono a un tempo che non è più parte di me.

 

***

 

Uno..due..tre..quattro…Uno..due..tre..quattro..Uno..due..tre quattro..Uno..due..tre..quattro..Quanto è alto questo palazzo? 
L'eco dei miei passi rimbomba nel silenzio del tragitto, lungo e faticoso tragitto, che dovrebbe condurmi sano e salvo a destinazione. Avrei potuto evitarmi gli ottocento piani grazie a quella salvifica invenzione chiamata "ascensore", se non fosse stato che il polpastrello del mio indice destro abbia premuto quell'irritante pulsante di colore perennemente rosso per almeno una decina di volte senza che la salvifica invenzione si mostrasse in tutto il suo splendore ad impedirmi di fare una ventina di rampe di scale. Le gambe protestano nella disperata salita che la costruzione di lusso mi ha spinto a fare e l'umida temperatura di Aprile non aiuta l'accaldata epidermide del collo sotto il giubbino di pelle. Finalmente la vedo la mia meta, la porta in legno lucido sul fondo di un lungo corridoio silenzioso. Pare quasi che voci soavi si levino nell'immobilità assoluta dell'aria, i cori angelici che mi accompagnano verso l'aurea destinazione e mi esortano a suonare il dorato campanello. Non sono mai stato tanto lieto di vedere una porta. La targhetta in ottone su cui sono stati incise eleganti lettere nere mi restituisce un fosco sfavillio del mio sguardo. Lubo..
-Ehi.-
Credo che uno uno statista troverebbe alquanto interessante la velocità che devono aver raggiunto i battiti del mio cuore quando sono volati in gola. Mi sarei aspettato Beatrice con i suoi lisci capelli castani dai riflessi dorati come quelli del figlio, non il figlio, lì, sulla soglia della porta, a spostarsi per permettere al sottoscritto di entrare.
-Ma quanti cazzi di piani ha questo palazzo? -
Aleksander sorride e il sottoscritto entra, entra in questa casa per la seconda volta in tre giorni, in questa casa che sa di complessità, con l'azzurro cobalto e il bronzo degli occhi delle tigri a colorare il grande soggiorno su cui da l'ingresso, con le miriadi di costellazioni di soprammobili sparsi ad arte su ogni superficie disponibile, con le immense vetrate che danno sul centro della città che inizia a tingersi dei bagliori delle luci che si protendono verso l'imbrunire del cielo. Non mi sono mai abituato a queste mura, nonostante le volte in cui, ai tempi in cui eravamo degli innocenti ragazzini di tredici anni, ho varcato spesso la stessa soglia, guardato lo stesso soggiorno, sfiorato con lo sguardo ogni soprammobile. Durante gli anni sono aumentati, adesso sono una colonia di un migliaio di elementi. Mi sono buttato persino sul divano che era lì, quasi al centro del soggiorno, prima che il suo posto lo prendesse un nuovo sofà a penisola di cinque posti in pelle bianca. Ma il concetto è lo stesso, alcune cose non cambiano, potrebbero passare anche quattro secoli, ma c'è qualcosa, nella barocca eleganza di queste stanze impeccabili, che non mi lascerà mai respiro. 
-Che cosa ascoltavi?-
Il padrone di casa accenna agli auricolari candidi che ho sfilato dall'inserto del cellulare e che sto cacciando nella tasca con una sorta di lenta impazienza. I miei occhi gli vanno a solcare il viso e, a quanto pare, non nel modo più tranquillo.
-Voglio solo sapere un nome.-
-Black Sabbath.-
Aleksander analizza velocemente la mia figura reduce da una pseudo scalata del Kilimanjaro.
-Fa caldo?-
Stiamo arrivando a parlare del tempo. Quando siamo caduti così in basso?
-L'ascensore mi ha spudoratamente ignorato.-
-E' la bisbetica del piano di sotto, ogni venerdì si porta a casa una ciurma di quaranta persone intasando mezzo palazzo con la carovana di anime che fanno avanti e indietro da, per e nel suo deserto.-
-Tipo un pellegrinaggio alla Mecca?-
La sua risata sembra colmare, per un istante, un vuoto insostenibile quanto inevitabile tra noi. 
-Si, esattamente.-
Io sono ancora fermo, impalato nello stesso punto in cui mi sono incollato, con i piedi per terra, appena entrato. 
Attico più Aleksander sommati al catartico silenzio di quelle splendenti pareti danno come unico risultato una morsa fin troppo aggressiva alla bocca dello stomaco e la tendenza fin troppo presente di sfiorarmi il viso, segno non molto evidente di disagio. Ma d'altronde, come si potrebbe riempire questo silenzio? Esistono parole capaci di arginare, almeno in parte, le pareti d'acciaio rinforzato che sento erette intorno a me tanto quanto intorno a lui? E con quale coraggio riusciremmo a fare una cosa del genere, dopo l'oceano che si è insinuato tra noi? Tornare a parlare del tempo non sembra poi tanto male.
-Oggi siamo soli.-
E adesso si che dovrei dire qualcosa. Come ad esempio un educato "Grazie, ripasso quando la stretta allo stomaco non sarà più tanto feroce da farmi male". Perché si, mi sta facendo male. E continua caparbiamente a farmene anche mentre lo seguo per il lungo corridoio decorato da quadri e sorridenti fotografie dalle preziose cornici La sua stanza è cambiata dall'ultima volta che ci ho messo piede, eppure la sensazione che ne ricavo è la stessa. Quel letto a due piazze dai moderni tratti blu, l'enorme armadio fatto interamente di specchi ad ante scorrevoli, i comodini geometrici di un bianco perlato, il parquet color crema, le grandi vetrate presenti in tutta la loro ampiezza anche in questa stanza, che regalano una vista completa dell'affollata, caratteristica, colorata Varsavia. 
E' cambiata, questa camera. Sono cambiati i colori, forse anche lo stile -certamente adesso ci sono più specchi- è cambiata l'aria di classe che ora sembra traboccare dai muri, la raffinata eleganza che è intrinseca in ogni elemento che troneggia davanti agli occhi. Non ci si aspetterebbe una camera tanto inappuntabile, perfettamente ordinata ed esemplare da uno come Aleksander. 
Mi siedo a un lato della lunga scrivania e quasi sorrido. La donna delle pulizie farà del suo meglio, uscendo ed entrando dal covo dell'astro del Judo, ma i miei sensi non ci mettono molto a carpire tutti i dettagli che sfuggono all'accurato controllo della stanza. La poltrona rotonda, simile a un morbido pouffe gigante, ha ancora i segni di qualche corpo che si ci è malamente gettato di sopra, il carica batterie di un iphone è adagiato sul letto come un lungo serpente candido, sulla maniglia argentata della porta che è quella del bagno privato è appesa una sciarpa bordeaux e un'estremità sfiora il pavimento, un piccolo branco di orologi è annidato sul lucido comò e una catenella dorata oscilla lentamente. Poggio la borsa, prendo i libri che lui sfila da una notevole libreria a mensola e mi scopro a desiderare ardentemente la voce della madre, o del padre, o della donna delle pulizie, o del cane a fare da sottofondo a l'imbarazzo di non proferir parola perché nessuna parola sarà mai quella giusta.
-Il magnetismo- il magnetismo, -è la branca della fisica- fisica, -concernente il fenomeno dell'attrazione.- 
La voce di Aleksander, chiara, limpida, penetra nella mia curiosa analisi della sua tana e mi spinge a prendere almeno un quaderno, possibilmente a quadretti, possibilmente di fisica. Ne ho uno a quadretti. Se lo facciano bastare. 
-Alcuni materiali esercitano una forza detta "magnetica", per la sua intensità, su altri materiali. In particolare per fenomeni stazionari, ovvero non variabili nel tempo, si parla più specificatamente di magnetostatica (che presenta alcune analogie formali con l'elettrostatica allorché si sostituiscano alle distribuzioni di carica elettrica le densità di corrente elettrica).- E' abbastanza nero da passare ad altro, non trovi? No, a quanto pare non trovo affatto constatando che la punta della penna che tengo svogliatamente in mano sta marcando il tratto di uno strano scarabocchio a spirale per la milionesima volta. Il sottile filo nero si ingrossa sempre di più e io non intento lasciargli tregua mentre termini scientifici di qualcosa che non riesce a catturare il mio interesse mi giungono lontani e distorti. Ho quasi la netta impressione di stare per poggiare la testa sul braccio, lasciando che il suono di quella voce mi rilassi nella sua melodia amabilmente familiare.
-L'elettromagnetismo è, invece, il risultato dell'unione tra elettricità e magnetismo.
La teoria elettromagnetica fu elaborata nella sua forma finale da James Clerk Maxwell. L'interazione elettromagnetica è responsabile dell'interazione tra oggetti che possiedono carica elettrica, che sono a loro volta "sorgenti" del campo elettromagnetico che ne rappresenta l'interazione in ogni punto dello spazio. Tale campo si propaga nello spazio sotto forma di radiazione elettromagnetica, un fenomeno ondulatorio che non richiede alcun mezzo materiale per propagarsi e che nel vuoto viaggia alla velocità della luce.-
La mia attenzione si è spostata. Da qualche parte, tra Maxwell e la luce, ho alzato lo sguardo, posizionato la mia vista sulla persona accanto a me che è così religiosamente seria, concentrata sulle nozioni scritte in grassetto, da prendermi quasi in contropiede. Non te lo aspetti Aleksander Lubomirski, l'incendiario per antonomasia, a starsene pacificamente seduto nel silenzio di una stanza, dinnanzi a un libro che non parla di motori, sport o sederi, e a non accorgersi che lo stai fissando da circa dieci minuti.
-Tale forza ammette come caso particolare i fenomeni elettrostatici (es. elettricità) e i fenomeni magnetostatici (es. magnetismo) e a tale interazione fondamentale si possono ricondurre molti altri fenomeni fisici macroscopici quali ad esempio l'attrito, lo spostamento di un corpo a mezzo di una forza di contatto..insomma, "eccetera", "eccetera", "eccetera"..- Cosa volete che me ne importi del magnetismo quando ho le mani che fremono al solo pensiero di poter sfiorare un qualsiasi mezzo che si colleghi ad internet e la disperata ricerca di qualcosa che mi faccia credere di aver fatto bene ad essermi risvegliato stamattina? Le tue labbra sono tutto ciò che vedo adesso, tutto ciò che si impossessa prepotentemente della mia carente attenzione. Si muovono veloci, quelle due mezzelune di scuro alabastro, seguono il ritmo delle tue iridi che scorrono abili sulle parole che sembri capire molto bene. Quello che non capisco io invece, almeno non abbastanza velocemente, è che le tue labbra si sono fermate, che i tuoi occhi non stanno più decollando sulle pagine e che la tua voce non sta scandendo leggi e formule. -Dominik..- e sono belle anche quando pronunci questo nome, -Dominik- lo fai sembrare dannatamente perfetto.. 
-Dominik!-
Mi scosso bruscamente. Le palpebre si serrano un paio di volte prima che mettano completamente a fuoco il libro su cui avrei dovuto essere concentrato. Aleksander ha i suoi occhi fissi su di me.
-Hai capito?-
Le sopracciglia raggiungono altezze da record. 
-Se avessi capito non sarei qui.-
-Ma se te l'ho anche spiegato.- il suo indice destro ticchetta su un foglio nello spazio di scrivania tra noi, inciso da parole, decorato da frecce e segnato da formule. Guardo quasi scettico quello a cui non ho fatto minimamente caso, come se lui avesse fatto spuntare questo foglio già tutto bello che scritto solo per ingannarmi. Ma lui ha parlato davvero di fisica senza che io sentissi una sola parola e la sua scrittura assume un tono stranamente professionale nel trattare schemi e numeri, al contrario dell'accozzaglia di anarchici righi che sono i suoi compiti di italiano.
-Magari se la tua scrittura fosse comprensibile a noi comuni mortali..-
-Annuivi pure.. Se ti avessi detto che ho i capelli rosa, sei braccia e otto gambe mi avresti risposto di si?-
L'occhiata truce che gli riservo non può che essere altrimenti, una scintilla di puro fuoco, quella rischiosa, quella che ti dovrebbe suonare un allarme in testa sul non spingere la conversazione oltre. Lui però sembra non possedere il suddetto allarme, sembra pronto a ribattere a un'altra ondata di sarcasmo da parte mia, senza capire che il sottoscritto non ha alcuna voglia di rispondergli. Ma certo, lui fa sempre quello che vuole. "Come te d'altronde", ribatte qualcosa in qualche parte di me che non è del mio stesso partito politico. Ma lui non pensa alle conseguenze. "Da quale pulpito."
Do un'occhiata al libro. 
-Il magnetismo è una forza magnetica..- mi sforzo di assumere un tono di voce risoluto, un timbro che conosce esattamente ciò che sta sgusciando dalla bocca che gli appartiene. -E si parla di magnetostatica, che ha alcune proprietà simili a quelle dell'elettrostatica, quando si sostituiscano alle distribuzioni di carica elettrica..-
-Non stai capendo una sola parola.-
-Neanche una.-
Non mi rendo conto di quello che ha intenzione di fare fino a quando non lo fa. Chiude il mio libro, si premura di far sparire il suo come il migliore dei prestigiatori, e si alza. 
-Vieni con me.-
Gli scocco uno sguardo tra l'indifferente, il sospettoso e il curioso. Il mio corpo ostenta indifferenza, fermo nella sua posa che la mente si ostina a far diventare marmo mentre il suo sguardo di ambra scura mi scruta dall'alto in basso con una sorta di improvvisa impazienza, e sono sospettoso, condizione che annulla totalmente l'indifferenza da me testardamente mostrata a grandi leghe, perché essere sospettosi significa non fidarsi, significa guardarsi intorno, proteggersi le spalle, significa alzare gli occhi verso l'avversario e prepararsi ad ogni azione che potrebbe portarti lontano dal sicuro rifugio della trincea per scendere sul fronte, significa essere curioso, e la curiosità annienta l'indifferenza, e la curiosità uccise il gatto, il cane, il coccodrillo e l'orango tango. E per me una morte è stata abbastanza. 
-Andiamo, voglio solo mostrarti una cosa, ti assicuro che non mordo. -I suoi occhi scintillano provocanti. -Per oggi.-
Devo dire che l'idea di riaprire quel libro intriso di concetti che per me non hanno alcun punto logico non mi alletta affatto. La voce di Aleksander ha l'insana prerogativa di rapirmi, rapire la razionalità e il buonsenso, rapire il celestiale candido in cui aleggiavamo per inoltrarci nel cammino incerto e ombroso di qualcosa del quale forse neanche noi siamo a conoscenza. Ci metto due secondi a capire che mi alzerò, che lo seguirò, che quel suo modo di appellarmi ha un terribile effetto sul mio freddo controllo, che quel ghigno sconsiderato mi ha già legato. Ci impiego ancor meno ad allontanare il deretano dalla sedia e a seguire il padrone di casa, che adesso ha tutte le sembianze di una guida, nell'ingresso, dove una porta che ho sempre pensato nascondesse un armadio spalanca invece la sua bocca su una scala di inappuntabile ciliegio che si snoda, dritta, sin ben oltre il livello del piano. Aleksander è proprio davanti a me quando spinge la seconda porta, scorrevole e in vetro, e mi mantengo a distanza, un paio di gradini sotto, gli occhi che contemplano le quasi invisibili venature del legno, interessati da qualsiasi cosa non faccia parte del suo corpo che mi da le spalle. Un sibilo di vento sul viso mentre mi inoltro oltre quel secondo ingresso non può prepararmi a dovere su cosa il sole di una giornata di metà aprile andrà ad illuminare dinnanzi al mio sguardo stupito. Una terrazza enorme, lunga, brillante di costoso designer si manifesta al primo posto di uno sfavillante podio con un angolo bar da far invidia ai bar stessi e lunghi, accoglienti, caldi spazi creati da divani chilometrici, formanti angoli e penisole, reclinabili o meno, ammantati da grossi cuscini dall'aria soffice quanto il pelo dell'Ermellino bianco, riparati dal sole da un alto tetto e dalle foglie verdeggianti delle imponenti piante che danno al luogo il caratteristico aspetto di un qualcosa di meticolosamente curato e di necessariamente costoso. Il mio sguardo però, non è catturato tanto dal bar con di sgabelli dalla forma stramba e moderna, ne dalle luci bianche incastonate nel pavimento, ne dalla schiera di dorate sedie sdraio che sembrano essere sulla linea difensiva come leali alfieri, ma più da ciò che questi alfieri vanno diligentemente a difendere, oltre che ad adornare. Una piscina vasta quanto metà dell'enorme tetto, dai lati morbidamente arrotondati, attrae i balugini del sole che picchia spietato all'altezza in cui il vento non cessa di scompigliarmi i capelli, l'acqua appena mossa dalle correnti d'aria. L' accattivante distesa blu è interrotta solamente da un ponte largo quanto due uomini l'uno accanto all'altro, piatto, dello stesso pavimento piastrellato del colore della sabbia, del grigio fumo, del crema, su cui io poggio i piedi, alcuni metri più lontano. L'oro del sole è indicibilmente bello sulla superficie cristallina e io mi volto verso colui il quale si è stravaccato comodamente su un divano e mi guarda con un sorriso sornione.
-Cosa ne pensa signor Santorski?-
Un ricordo si improvvisa nel suo lontano spettacolo, due ragazzini si sfidavano su quale fosse la casa più bella, la più lussuosa, quella con maggior gusto di arredo tra le sue mura. Le loro voci rimbombano ancora nella mia testa, saettano placidamente in qualche anticamera tra le costole quando realizzo l'innocenza di quegli anni che sembrano appartenere a un'altra era, forse ad un universo parallelo, certamente non quello che ho lasciato mi trasformasse e che, lentamente, mi distruggesse.
La bocca di Aleksander si increspa come la superficie dell'acqua di una chiara sfumatura di soddisfazione prima di fare un cenno elegante con la mano per invitarmi a sedere. E' palesemente compiaciuto, forse ipotizzando, forse fiutando la coltre di ricordi a cui sono andato prontamente a parare. Lo ammetto, ho guizzato il mio interesse verso il posto immediatamente più vicino a lui per poi tornare, privo di alcun tipo di buonsenso, sulla sua figura, la figura di un corpo perfettamente modellato, disinvolto nella posizione rilassata di qualcuno che sa di essere una visione gradevole, forse di più, a fare da sfondo a un viso che, colpito da un demoniaco, spiritato, infame raggio di sole, si trasforma nella corda che blocca i polsi, nella mano premuta sulle labbra, nello sguardo felino che non si perde neanche un movimento della preda. Perché è così che vedo quegli occhi adesso, diventati ambra liquida, ambra pura, scintillante, ingannevole, attraente, mentre soppeso, incerto, l'idea di avvicinarmi. Ma lo faccio, perché quella corda tira, quella mano non ammette repliche, quel posto sembra chiamarmi a gran voce e quegli occhi vibrano di una musica che non voglio conoscere, mentre metto una gamba davanti all'altra e mi accomodo quasi sul bordo del divano, accanto a lui. E quell'ambra continua a scrutarmi, prima del colore dell'oro fuso e d'un tratto, appena quel sottile fascio di luce si disperde in qualche nuvola, di nuovo nera, ambra nera, densa, come il fondo di un profondo pozzo in cui si specchia l'argento della luna. Ma non c'è argento in queste iridi, solo oro. 
-Penso che la sua dimora abbia vinto su tutti i fronti, signor Lubomirski.-
-Beh lo sa..- rinfranca lui versando del liquido scuro in due bicchieri, -A me piace vincere, su tutti i fronti.-
Prendo il bicchiere che mi porge. -Lo so.- il mio sguardo osserva senza vederlo il liquore che ho in mano. -Lo so bene.-
-Credi davvero a quello che hai detto stamattina durante matematica?-
Quella domanda non me l'aspetto. Ha il tono della casualità, la precisione di ciò che casuale non è. Non sono affatto parole buttate lì a caso, sono un preciso connubio di analisi, di studiare l'altro fronte, prima di attaccarlo. Perché non ci si può difendere da ciò che non si conosce. 
-Se l'ho detto ci credo.-
Il braccio destro è poggiato con noncuranza sullo schienale dello stesso lato, la mano sinistra fa vorticare l'alcolico un paio di volte. Non mi guarda. Non so quale divinità pagana ringraziare per questo. Quale santo devo pregare perché quelle bollenti pupille non si posino ancora una volta su di me?
Il silenzio è pensante, carico di qualcosa di inafferrabile, qualcosa che conosco molto bene, eppure che non so spiegarmi. Aleksander e qui, davanti a me, a distanza di sicurezza. Quale? La mia.
Perché colui che mi sta praticamente al fianco, osservato nella sua naturalezza, è innocuo, quasi innocente nelle sue labbra dal sorriso travolgente e dalla risata contagiosa, nei suoi sguardi di pura energia, nella sua voce calda e affascinante quanto la Primavera. E a volte mi viene di dimenticare ciò che è stato, di abbandonare il passato alle spalle, guardandolo mi assale la sfrenata voglia di cancellare i ricordi che fanno male, di chiudere gli occhi e fingere che tutto quello non sia mai accaduto, che quelle lacrime non abbiano mai solcato la pelle delle guance, che il cielo non sua passato da un torbido blu al più fosco dei grigi, mi viene voglia di avvicinarmi e sopraffare quel metro che separa la mia presenza dalla sua. Ma mi sono stancato di fingere, e fingere è sempre stato l'unico modo per andare avanti, con lui, con gli altri. Forse è per questo che non sto andando avanti, perché non so più fingere. E non sapere più farlo significa essere scoperto su tutti i fronti, significa difendersi solo con le proprie forze, proteggersi con la propria fragile corazza, con la propria nuda verità. 
Il silenzio che sembra gravare tra quei bicchieri non lo tollero un secondo di più, così butto avanti le mani con la prima cosa neutrale che mi passa per la testa.
-Perchè tu ci credi davvero? Credi che due rette parallele, da qualche parte, possano toccarsi? Non ti facevo tanto romantico.-
La sua bocca si arriccia in una smorfia. I miei occhi mi tradiscono. Quelle labbra stringono senza pietà la corda intorno ai miei polsi. 
-Io ci credo. Tu puoi credere di essere figo con l'eye-liner e io non posso credere a due linee che percorrono da sempre la stessa via l'una accanto all'altra?- Il mio sopracciglio inarcato è una limpida risposta alla sua malcelata strafottenza. 
-La tua ironia mi commuove.- il liquore brucia piacevolmente in gola quando mi porto il bordo frastagliato del bicchiere alle labbra. -Il tuo romanticismo anche.-
-Non mi aspettavo che tu sostenessi l'idea di qualcosa di tanto tragico e.. definitivo.-
Ma sembro non essere onorato della grazia dei santi, infatti quegli occhi tornano, e tornano con la forza di un uragano a travolgermi, a lasciarmi incatenato sul posto. E le catene bruciano quando mi accorgo che io sto guardando dritto in quegli occhi, che le mie iridi combaciano con le sue senza remore, senza timore, senza sfuggire a quella vivacità. Probabilmente la melodia di quegli occhi mi piacerebbe, se imparassi a conoscerla, ed è proprio per questo che mi tengo ben lontano dal farlo, che mi rifiuto di svelare il segreto che mi porta a vedere l'oro nei suoi occhi anche quando questi sono neri come le tenebre.  
-Credevi che ero tutto rose, fiori, castelli, destrieri bianchi e vissero felici e contenti?-
-Una cosa del genere.- la sua mano passa tra i capelli di rame scuro prima che la sua bocca si vanti di un sorriso irritante. -Ma devo dire che al destriero bianco non avevo pensato.-
-Io non penserei neanche al "vissero" se fossi in te.- 
Il vento tiepido mi colpisce in viso con la velocità di un cavallo in corsa quando mi alzo e lascio che la luce del sole annienti le ombre che sento vorticarmi fameliche intorno. Poggio le mani sul muretto bianco che circonda quel terrazzo di lusso mentre i colori pastello della città, vividi, brillanti, drappeggiano il centro storico, caratteristico, prima che la diramazione del moderno porti a una sconfinata distesa di grattacieli d'argento e macchie di effervescente verde. Sembra difficile sentirsi depressi in una città così, con la sua musica galoppante e le piazze dall'aria mistica gremite di gente da chi sa dove. Sembra quasi impossibile che qualcuno, qui, possa anche solo farsi strada in pensieri quali.. che so.. il suicidio. Ma non è impossibile, e ne ho la certezza matematica. Il cielo urla libertà, ostenta forza, ampiezza, infinito, ma i miei occhi sono calamitati dal suolo, lontano, sull'altezza dalla quale la mia vista cerca di mettere a fuoco anche i dettagli più minuziosi. Ma i dettagli non sono altro che accessori futili e inconsistenti e la vita di Varsavia non è abbastanza forte da poter fermare la sensazione di claustrofobia che si impadronisce della percezione che ho delle nuvole di marmo e del cielo dal blu troppo blu. Non sento quasi più l'aria, inutile ricordare a me stesso di essere completamente esonerato da qualsiasi tipo di costrizione ormai, di essere come quelle rondini che sono solo sfumature scure all'orizzonte, inutile credere che non arriverò allo stesso punto dal quale mi sono, forse, e dico forse, fastidiosamente allontanato. Il sangue scorre veloce, quello stesso sangue a cui ho sgombrato la strada, aperto le sbarre, lasciato copiosamente uscire. E il cielo non è più blu, e il verde non è più verde, e le nuvole sono tutt'altro che bianche e il rosso della chiesa antica di Varsavia sembra l'unica cosa essere sulla stessa linea della mia coscienza.
-Potrei darci una festa.-
Sobbalzo bruscamente, come se fossi colpevole anche solo di aver pensato certe cose, come un ladro colto con le mani nella cassaforte e con la refurtiva stretta saldamente tra le dita. Aleksander se ne accorge, lo avverto che ha i suoi occhi puntati sulla mia nuca, ma non dice niente, semplicemente si limita a misurare a grandi passi la piscina, forse contando mentalmente quanti bei sederini ci starebbero seduti sui bordi della sua proprietà.
-Ottima idea-, la mia voce ha slittato inevitabilmente verso il sarcasmo, -così puoi già iniziare a scegliere la tua futura sposa.- 
E non è un sarcasmo solito, di quelli forti, penetranti, anche taglienti, se si tratta del mio, ma rassicurante e "solito". No, è il mio miglior sarcasmo. Quello macabro. Quello amaro. Quello del boia prima di calare l' ascia.
Lui ha capito l'antifona, i suoi passi si sono fermati, il suo viso ha raggiunto la stessa altezza del mio, dal lato opposto della piscina.
-Cosa intendi dire?-
-Intendo dire..- i miei passi risuonano sordi mentre mi avvicino al ponte in mezzo alla piscina. -Che sei abbastanza sveglio da non credere davvero di poter scegliere la tua futura spasimante fra tutta la popolazione mondiale di sesso femminile.- Scruto con rinnovata attenzione le lievi increspature dell'azzurro liquido. -Dovrai trovarne una all'altezza, con un conto in banca a otto zeri e tipo..una catena di casinò a Las Vegas a suo nome.- Sento i suoi occhi su di me mentre i miei galleggiano sulle superficie dell'acqua. -Io inviterei Magda e Karolina, probabilmente i tuoi ti combineranno il matrimonio da un momento all'altro.-
Non avevo messo in chiaro che il discorso avrebbe preso una piega tanto scomoda velata da un'impercettibile punta di acidità e rancore represso. Non riesco a focalizzare il punto da cui sgorga questa dominata asprezza, il movente che mi ha indotto a scegliere questo gioco di parole. Ho solo limpida davanti l'immagine di Aleksander, dritto, elegante, in piedi davanti a un altare cosparso da un manto di petali viola e la testa bionda di Magda accanto, sorridente, agghindata in un costosissimo abito da sposa candido come la neve, e limpida è anche la sensazione di stare per vomitare da un momento all'altro. 
Alzo il mento, ogni passo che fa è ossigeno che toglie al mio respiro. La luce vivida nei suoi occhi, ermetica tra quelle palpebre e quei passi che ci separano sempre meno, mi induce a fare dietrofront, ad allungare le distanze allo stesso, persistente ritmo nel quale lui le sta accorciando. 
Un ghigno. -Hai paura Dominik?- 
Quella voce non è d'accordo con quelle labbra. La sua voce non è d'accordo con le sue labbra. Il sorriso che mi sbatte in faccia è sprezzante, ostenta indistruttibilità. Il tono che sguscia da quel sorriso è invece pacato, delicato quanto una carezza sul viso che sfocia nel preludio di un bacio sussurrato. Sorge di sensazioni nascoste, risuona di una preoccupazione messa crudelmente a tacere. E mi fermo. Perché ho paura, ma non abbastanza.
-Non mi sfidare.- 
Non abbastanza da sopraffare l'orgoglio, non abbastanza da dargliela vinta una seconda volta.
Le gambe non accennano a muoversi nonostante gli avvertimenti del criterio logico, nonostante il cuore urla qualcosa che non voglio sentire, nonostante l'anima che mi si lacera solo al pensiero, lo lascio avvicinare, lascio che annulli le distanze che ho disperatamente tentato di mantenere quel tanto che bastava perché vedessi il sole nei suoi occhi come una luminescenza lontana e non come una folgore tanto vicina da rischiare di abbagliarmi.
-Non ci sono telecamere questa volta.- mormora, carico di allusioni fin troppo evidenti.
-E' per questo che non ti illumini.- Allusioni che si fanno sentire addosso come cera bollente. Il suo viso è il palco di un teatro, le emozioni che vi vengono messe in scena si innescano con la trasparenza dell'acqua mentre i suoi occhi vivono della prepotenza del fuoco, occultati da fiamme che non riesco a comprendere. Sui tratti decisi del suo volto si dipingono, nel giro di qualche secondo, le emozioni più diverse, e io non riesco ad afferrarne neanche una. Mi sfrecciano davanti come comete l'insolenza, l'interesse, l'indifferenza, la curiosità, l'imprudenza, la più fulgida, illegittima malizia che sguazza innocentemente nel diaspro delle sue iridi, impenetrabili come muri d'acciaio.
-Sei geloso?- 
La carezza nella sua voce, prima solo accennata, ora la sento sulla pelle. Il suo respiro mi sfiora la bocca con il suo vibrante aroma alla vaniglia.
-Neanche se tu fossi l'ultimo essere vivente ancora pensante nell'universo conosciuto e sconosciuto.- Quella vaniglia non aiuta la mia concentrazione, ma ho una fortezza dentro, e non lascia trasparire il più minimo cedimento. Occhi negli occhi, respiro su respiro, c'è troppa poca aria a distanziarci adesso, troppo passato a tirarci violentemente indietro e troppo futuro a legarci le mani. 
-Ne sei sicuro?- le dita della sua mano destra passano con grazia letale sul mio avambraccio nudo. Ma è il presente quello che danza intorno a noi, il presente delle sue dita e della mia pelle in fiamme al passaggio di esse. Elargite ai miei polmoni le istruzioni su come si respiri perché la mia fortezza non è poi così resistente, contro certi attacchi. 
-Il tuo corpo diceva altro..- Non sono attacchi qualunque, e le mie difese non sono pronte a questo, non sanno destreggiarsi in mezzo ai colpi di chi sa come farti sprofondare con uno schiocco di dita perpetrato al momento giusto nel punto fatale. Un avversario ingaggia una battaglia, lotta, ha le tue stesse armi, nè sa quanto te di ciò che avverrà quando uno dei due affonderà l'ultima spada. Un nemico, invece, non ingaggia battaglie, non inizia lotte, non ha le tue stesse armi. Un nemico, il tuo, l'unico e il solo, dichiara guerra, non se ne fa niente di biechi conflitti, vuole vederti in campo con tutto te stesso, e non mostra cedimento, neanche la più misera misericordia nel dare il via al colpo che trapasserà le tue carni. 
Perché l'avversario attacca alla ceca, il nemico ti vede attraverso, perché reduci dalle stesse terre, dalle stesse lacrime, e ti uccide. Senza pietà.
-O stai per scrivere uno stato su Facebook o non riesco davvero a spiegarmi il perché tu ricordi così bene quell'episodio.- butto giù tutto d'un fiato, non senza una certa fierezza. Ogni parola mi costa uno sforzo di autocontrollo in più, spingo in avanti per non cadere indietro. 
-Chi ti dice che io abbia una spiegazione. Ho la verità in tasca?-
-Tu hai sempre la verità in tasca.- i suoi occhi si specchiano nei miei, profondità di vorticosa perspicacia. 
-E se ti dicessi che questa volta non c'è l'ho? Che non so spiegarmi il perché ricordo con estrema precisione ogni singolo avvenimento che ti riguarda?- la sua voce si riduce a un sussurro. Persuasivo, convincente, terribilmente vicino. Così vicino che non sento altro che la vaniglia in cui sono avvolte le sue parole. Così vicino che il celato oro nei suoi occhi minaccia di farmi vacillare. E' la stessa, inebriante sensazione che provai nel momento in cui seppi di aver scelto il buio, la stessa, proibita, indicibile forza nel quale mi trascinò l'oscurità, la stessa, silenziosa, ardente fiamma a cui non ho saputo rinunciare. E sento quella fiamma nella pelle, la vedo nel suo sguardo, mentre le mie labbra si schiudono nel rispondere alle sue labbra. 
-Direi che hai un talento naturale nel bluffare. Saresti un meraviglioso giocatore di Poker.-
-Principe, la senti questa elettricità?-
La gola è asciutta, lo stomaco serrato, il sangue scorre veloce. Caldo, freddo. La sento questa elettricità, Aleksander. 
-Questo si può chiamare magnetismo, o attrazione.- Non fare certe scelte.. -Magnetostatica, perché non cambia nel tempo.- Scelte che si pagano a caro prezzo. La sua mano ritorna sulla pelle dell'avambraccio, l'indice rifà lo stesso percorso, più lentamente, e più velocemente mi sta logorando dentro. Non è cambiato affatto, è questo quello che mi vuoi dire? Che il pollice che adesso esercita una lieve, precisa pressione sul polso destro non mi sta gettando bruscamente fuori binario? Che la sensazione di disintegrarmi sotto il tuo sguardo non è sempre come la prima volta? Cos'è che vuole dirmi la tua voce di salata seta e i tuoi tocchi di ruvida dolcezza? Che hai ancora il controllo su ogni pezzo di me? Che mantieni ancora saldamente le redini difficili delle briglie orgogliose di questo cavallo perduto che per gli altri è semplicemente troppo selvaggio da poter essere riportato nel recinto giusto? E' questo quello che vuoi dimostrare portandoti il mio braccio più vicino? Che, in questa vita, sei sempre tu, a tenermi in pugno? Che, in questa guerra, sei sempre tu a vincere?
-L'elettromagnetismo, invece, è l'unione tra elettricità e magnetismo.- 
Le sue dita si intrecciano delicatamente intorno al mio polso. Queste noiose nozioni, con la sua voce, assumono le sembianze della più agognata melodia. -Tra elettricità e attrazione.- 
Non riesco a non seguirla con lo sguardo, la mano che si avvicina inesorabile, al mio viso. Vorrei scovare ogni rimanenza di forza rimasta negli angoli bui delle mie stanze gelate e usarla per imprimere agli occhi la resistenza di persistere nello suo sguardo, ma sono a un passo dal provarlo e già temo il contatto con quelle dita, mi corrodo al pensiero di riprovare la stessa, feroce sensazione di quella sera. E proprio quando le sento, che con deleteria grazia si posano sulla guancia sinistra, so che non c'è rimedio all'effetto che provocano alcune cose, che non ci sono mura, barriere, difese contro i brividi lungo la colonna vertebrale e le palpitazioni del cuore che segue il ritmo delle onde di un oceano tutto suo. Sfilo il polso dalla sua presa, l'indice sfiora con dosata lentezza lo zigomo, la vaniglia è tutto ciò sento, il calore del sole non è neanche lontanamente paragonabile a quello che ha il monopolio di metà del mio viso, l'oro della catenina che riluce intorno al suo collo non regge il confronto con quello dei suoi occhi che scrutano nei miei, troppo vicini. 
troppo. dannatamente. vicini.
-Non era poi così difficile no..?- le sue parole non dicono quello che il suo sguardo sta urlando, -La fisica.- 
e io vorrei urlare a mia volta di rabbia, di frustrazione, perché sono ancora qui, perché non sono ancora sfuggito alla tua presa, alle tue dita che scendono verso le mie labbra, perché il fuoco del tuo corpo adesso è anche il mio, perché due rette parallele, cazzo, non possono incontrarsi. Il piano, la vita, il destino le ha costrette a guardarsi sempre in faccia senza potersi sfiorare mai? Lascia che sia. Ma no, il tuo pollice che mi abbassa il labbro inferiore cercando di crearsi un varco tra le mie muraglie, le mie labbra che cedono sotto le lusinghe del tuo tocco, il mio cuore che sembra voler rompere le costole della cassa toracica, tutto pare essere intenzionato a eludere il destino, sottrarsi a questa vita, cancellare i capitoli di un libro già scritto e lasciare che le distanze si annullino, che l'azzurro del cielo venga nascosto da te, perché è solo te che vedo adesso, solo te che sento, non esiste sole, non esiste vento, non esiste aspettativa, promessa, condizione sociale, apparenza, aspirazione, ambizione. C'è solo la bellezza del tuo viso e la familiarità della tua pelle a cui non mi abituerò mai, e le tue labbra, scure, ammalianti, assassine. 
-A me sembra più chimica..- sussurro a un soffio troppo breve dalla tua bocca. E mi hanno ucciso una volta, e lo faranno ancora, come il patto stipulato con il più seducente dei demoni, ho venduto l'anima una volta alle labbra delle quali ora la traccia del mio sguardo può contare le pieghe, e ho attraversato il più lugubre degli inferni, e cosa peggiore, mi ci sono abituato, ho imparato ad amarlo, a renderlo amico, amante, compagno, così che adesso non esista cielo senza pioggia, acqua senza sale, sorrisi senza tradimento, rose senza spine. E io non posso lasciartelo fare. Raccolgo quel che resta di me dinnanzi a te, imbriglio il barbarico coraggio che mi porta a riversare i miei occhi nei tuoi, che, con sommo stupore, non hanno smesso di osservarmi un momento. Mi tratti come la rosa più rossa con le spine più acuminate, e io devo pungerti. Perdonami Aleksander, forse uscirà un po' di sangue. Perdonami, ma non posso farti vincere così.
Riprendo possesso dell'unica volontà logica, perfida che mi porta ad approfittare dell'attimo in cui più vorrei sentire queste labbra su di me, dell'attimo in cui tu forse sei più vulnerabile perché maledettamente vicino che praticamente stai già sciogliendo le catene per incatenare le mie di labbra, e io lo so, lo so terribilmente bene che si lasceranno legare, so che, se solo provi a lambirle, le mie difese non saranno abbastanza forti da fermarle. Non lo sono mai state. Non se s tratta di te. 
E allora ti guardo, il mio sguardo sul tuo, gli occhi allacciati ai tuoi, alzo una mano, purtroppo ricordo dove siamo, la poggio sul tuo petto.  
-E io detesto la chimica.- 
E' un momento, prima che lo faccia. E' un secondo, prima che ti spinga. Ma, nel frangente seguente, sento immediatamente gli schizzi sulle braccia.
-Bastardo figlio di..- 
Sorridi nell'acqua, cercando di ricomporti per mantenerti a galla, imprecando anche quanto basta, e sorrido anch'io nel vedere ogni tua singola ciocca di capelli imperlata dall'acqua della tua piscina. 
-Corri Santorski..Corri e sii veloce perché se solo ti metto le mani addosso..-
-Non si preoccupi Lubomirski, conosco la strada.-
Sento le tue maledizioni nelle orecchie mentre mi rivolgo verso le scale, poi la tua risata, cristallina, trascinata dal vento. E' stato un momento, è stato un secondo, ma l'ho sentito, sotto la mia mano, il tuo cuore che batteva, troppo veloce.

 

***

 

Ammantato di notte sei, adornato della più suadente oscurità. Bello, come chi non sa di esserlo. Unico, come chi ne ha la piena consapevolezza. Suggestivo come un teschio bianco agghindato da iris magenta, un corvo nero impreziosito da occhi di rubino, il rosso fuoco di una volta celeste fregiato da saette di cristallo. 
Sei la malinconia che vedo nei tuoi occhi, di un blu più blu del mare, sei la sottile, combattuta riga nera sotto quegli occhi, sei la stella che cade ma che lascia una scia più luminosa, sei il sole che non ti si addice, la neve immacolata che scende tragicamente lenta, tragicamente fragile, che un flebile raggio di sole può annullarla, ma forte da ricoprire ogni cosa. Sei solitudine, con la quale torturi. Sei silenzio, quello con cui uccidi. Sei la lama che si posa sulla guancia invece di affondare nel cuore e sei il proiettile che vi affonderà. Sei l'angelo caduto che non sceglie l'Inferno e sei il demone che ci vive da sempre. Ti osservo muovere i tuoi passi come solo tu sai fare, con quell'aria da vinto, con quel portamento da re, scorgo il tuo viso, conosciuto come un'impronta, intravedo le tracce ormai invisibili delle tue lacrime sulla porcellana della tua pelle, distinguo le tue labbra, le distinguo troppo bene. Ti volti un attimo, poi più nulla. Il sangue scorre veloce. Sei mio.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Suicide Room / Vai alla pagina dell'autore: Pachiderma Anarchico