« È questo il posto che fa per te », sento dire dalla mia testa.
Prendo un respiro profondo e finalmente sono nella casa. Dopo averla immaginata così tante volte, finalmente sono entrato in casa di Sherlock Holmes. Rimango fermo e mi guardo intorno: il disordine è il padrone del salotto, come forse è il padrone della sua mente.
Sorrido alla vista delle innumerevoli cianfrusaglie che Sherlock Holmes ama collezionare e la suola delle miei scarpe sembra quasi incollata al pavimento. Non oso muovermi. Faccio qualche passo e il pavimento scricchiola sotto i miei piedi. 
Vado alla finestra e sposto con delicatezza la tenda, per ammirare il paesaggio. Sono stato così tante volte là sotto, in quella via, al posto di quella giovane donna che porta una carrozzina, o al posto di quei due ragazzi che fumano appoggiati al muro, ma la vista da questa finestra rende tutto così reale. Sento come un’ondata che paralizza nuovamente i miei muscoli.
Non è paura. Non so cosa sia, non sono mai riuscito a percepire i miei sentimenti.
Riesco a visualizzare me stesso in quella via, con il mento alzato e lo sguardo fisso alla finestra, aspettando invano che Sherlock Holmes dall’alto mi donasse uno dei suoi sguardi.
Nessuno è mai riuscito a capire la mia estrema devozione nei suoi confronti, forse nemmeno lui.
Nessuno è mai riuscito a capire quanto io volessi solamente sapere di non essere da solo al mondo, sapere che esistesse un’altra persona proprio come me. Una persona come me che riuscisse a comprendere quello che provo, ad aiutarmi.
Mi allontano dalla finestra e guardo con indifferenza gli oggetti di John Watson sparsi per la casa. 
Entro nella camera da letto e vengo inebriato dal suo odore, quel suo odore così delicato e trasparente, quasi silenzioso. Silenzioso come le parole tra noi, parole taciute, parole non capaci di essere espresse.
Ammiro per qualche secondo il letto, ancora disfatto, dove riesco ad immaginarlo sdraiato, a pensare, riflettere.
Faccio il giro della stanza e apro qualche cassetto. 
Vestiti poco usati, biancheria, calzini e infine, tra vari foglietti di colore rosso, una foto ripiegata. La dispiego.
Vedo lui, un giovane ragazzo di appena 18 anni. La prima cosa che noto è quel leggero velo di tristezza che attraversa il suo viso, quel velo che cerca di celare sorridendo alla macchina fotografica. Il suo corpo magro, quasi ossuto, è avvolto in un’ordinaria divisa di scuola superiore; dietro di lui ragazzi della sua stessa scuola, che ridono, si abbracciano, si prendono per mano e piangono. La felicità nelle loro espressioni contrasta con il ragazzo in primo piano, che cerca di nascondere con tanta forza i suoi veri sentimenti nel suo ultimo giorno di scuola.
Ripiego la foto, la rimetto via e i miei pensieri finiscono nuovamente alla mia infanzia; alle cucchiaiate di veleno che ogni giorno ero costretto ad ingoiare e al fuoco che sentivo fin dentro le mie viscere, che piano piano ha cominciato a salire in superficie, fino ad arrivare al mio cervello.
Scuoto la testa. Dopodiché vengo colpito d un’idea, quasi inaspettata. Decido di togliermi la giacca e di slacciarmi la cravatta, che ripongo con cura su una sedia, per poi fare lo stesso con il resto dei miei vestiti. 
Allora sollevo le coperte e infilo il mio corpo nudo nel letto di Sherlock Holmes, dove vengo ancora una volta inebriato dal suo odore. Rimango immobile per qualche secondo, forse a gustarmi il momento, e comincio poi a toccare lentamente il suo cuscino, le sue lenzuola e chiudo gli occhi.
Ore e ore di silenzio, e infine sorrido, mentre sento il chiavistello girare e i suoi passi leggeri nell’ingresso.
Intravedo la felicità. E provo paura. Per la prima volta, provo paura.