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Autore: martinasponk    30/05/2014    1 recensioni
Quando entrò quella mattina Helen le sorrise. 
Cassie aveva paura di chiederle come stesse, che magari voleva essere lasciata in pace. 
Allora si limitò a stringerle per un attimo la mano, e sorriderle quando alzò gli occhi su di lei. 
Helen era distante quella mattina, ma decise che non si sarebbe lasciata spaventare. 
Cassie decise che non se ne sarebbe andata. 
Sarebbe rimasta, ed avrebbe scelto sempre lei. Con il suo far sempre tardi ed i suoi caratteristici grugniti delle otto meno cinque, avrebbe scelto sempre lei senza cambiarla con nessuno. 
L'avrebbe scelta in mezzo a decine di altre persone, perchè le voleva bene, e non l'avrebbe abbandonata.
Non l'avrebbe lasciata andare.
"Cosa senti, Hel? Puoi dirmelo, che non me  ne vado"
Genere: Generale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non me ne vado

Sono quelli con cui viviamo,  
quelli che amiamo e conosciamo  
che più ci sfuggono.  

Norman Maclean 
 

In piedi davanti allo specchio, Helen passava lentamente la piastra su una ciocca di capelli.
Vedendo la sua espressione assorta e lo sguardo vuoto, chiunque avrebbe concluso che non stava pensando a niente. 
E in effetti così era. 
Helen non pensava a nulla. Contava il tempo passare, teneva chiusa la piastra premendo sulla parte che non si scaldava con le nocche che diventavano bianche.  
La faceva scorrere lentamente sulla ciocca sottile, la lingua tra i denti per dare ai capelli la giusta piega. Bastava un millimetro, un solo millimetro di troppo, per combinare un disastro. Posò con calma la piastra, sul marmo del ripiano davanti a sé, ed afferrò il pettine. Centellinò la ciocca successiva e poi la infilò attentamente tra le due lastre roventi. 
La gente la guardava e vedeva una ragazza sempre pettinata. Sempre in ordine, con l'ombretto sugli occhi intonato ai vestiti. La gente vedeva una ragazza superficiale e, nel darle della superficiale, non guardava quello che c'era sotto. La gente non cercava proprio, sicura che non ci fosse nulla che meritasse di essere trovato. E poi la superficiale chi era? 
Ma ad Helen non importava. 
Lei usciva sempre in ordine perché così piaceva a lei. Le piaceva essere sempre sistemata, con i capelli pettinati ad arte. Non le importava che la gente la vedesse. 
Non le importava quello che la gente pensava di lei. 
 
 
Diede un’ultima occhiata alla sua immagine allo specchio. 
Poi tornò in camera, accese la tv e spense la luce dall’interruttore vicino alla porta, lontano dal letto. 
Scostò la coperta gettandola teatralmente all’aria, si sedette con calma al centro del grande materasso, con la schiena appoggiata alla testiera, e si sistemò addosso lenzuolo e coperta, così come veniva. 

Chi se ne frega, pensò. Ad Helen non importava del risvolto fatto bene, bastava che tutta quella roba la tenesse al caldo. 
Afferrò senza guardare il telecomando dal comodino, rischiando così di far cadere giù l’onnipresente bottiglia di tè, o le briciole lasciate dai biscotti che ci aveva appoggiato quel pomeriggio. Qualche mollica era sicuramente finita anche nel letto. 
Ma ad Helen non importava nemmeno quello. 
Si mosse sicura tra i canali che di solito davano qualcosa di decente da vedere. Non le serviva nulla di eccessivamente interessante, o divertente, né moralmente o politicamente o socialmente o 
chi se ne frega impegnato.  
Aveva soltanto bisogno di qualcosa che le tenesse la testa occupata. 
Fu così che anche quella sera si ritrovò a mordicchiare il bordo superiore del telecomando, la schiena appoggiata ad una pila di tre cuscini, seguendo le avventure improbabili di un gruppetto di adolescenti in una stupida serie tv.  
Ogni tanto riuscivano a strapparle qualche risata, il cui effetto benefico svaniva presto. 
Con la mano libera portava i capelli, stirati alla perfezione, su una spalla, facendo girare il braccio intorno alla testa. E poi dopo un po’ li spostava di nuovo. 

 
Helen venne strappata a forza dal suo sonno nero da quell’insistente trillo che le perforava le orecchie. 
Guardò in cagnesco il cellulare, che continuava ad illuminarsi ad intermittenza e a ronzare sul comodino bianco e a far tremare anche il letto. 
Lo colpì forte con la mano, e si girò sulla pancia, nascondendo il viso sotto il cuscino. 
Sapeva che si sarebbe rimesso presto a suonare, quello stronzo, sapeva che non avrebbe dovuto sperare che non lo facesse perché in quel caso avrebbe fatto tardi a scuola, ma sperò lo stesso, e si riaddormentò in pochi attimi. 
Qualche minuto dopo, la scena si ripeté da capo. 
Helen mise a tacere quel 
«maledetto telefono» con l’ennesima manata e si stese sulla schiena, tirando su il lenzuolo fino a coprirsi il viso. 
Strinse forte  gli occhi, inspirò a pieni polmoni l’aria fredda del mattino, e poi sbuffò sonoramente. 
Gettò all’aria la coperta  e, da sdraiata, si guardò intorno nella stanza immersa nella penombra. Scrutando attraverso le tapparelle,  si rese conto con orrore che fuori era ancora buio. 
Si girò su un fianco, rannicchiandosi sotto quella parvenza di lenzuolo che le era rimasta addosso. 
Doveva prendere una decisione difficile. 
Truccarsi o recuperare quei dieci minuti di sonno? 
Restò qualche attimo a fissare la  porta. 
Si alzò sbuffando. 


Helen si chiese a che diamine stesse pensando la sera prima, quando aveva preparato quei vestiti. 
Si infilò con stizza il giacchetto sportivo sistemando il cappuccio; non aveva la forza di mettersi a cercare qualcos’altro. 
Sfumò quel leggero strato d’ombretto e sbatté più volte le palpebre applicando con calma il mascara. 
Studiò il suo riflesso da più angolazioni, assicurandosi che i due occhi fossero uguali. 
Poi spruzzò un po’ di cristalli liquidi su una mano, sfregò tra loro i palmi e massaggiò i capelli ancora perfettamente lisci, dalla radice alle punte. 
Chiuse i grossi  bottoni del cappotto e tornò davanti allo specchio per sistemare la sciarpa.  
Afferrò lo zaino che se ne stava a terra nell’ingresso e si sbatté la porta alle spalle. 
 
 
Entrò in classe poco dopo la prima campanella, ma ancora in anticipo sulla seconda. 
«Ciao» 
Con gli auricolari ancora nelle orecchie sorrise a Cassie. 
Fece scivolare giù le spalline dello zaino e lo posò sul banco, poi andò ad appendere il cappotto ai ganci in fondo all’aula. 
«Dormito poco?» le chiese Cassie quando tornò al suo posto. 
Grugnì in risposta, incrociò le braccia sulla plastica fredda e ci nascose il viso, stando attenta ad appoggiare soltanto la fronte alla stoffa; non voleva impiastricciarsi il viso né macchiare il giacchetto. 
Sentì Cassie ridere in sottofondo, mentre quasi si riaddormentava. 
Poi la campanella suonò di nuovo, con quel suo trillo sottile e penetrante che la fece soltanto incazzare ancora di più -la mattina era sempre così- ed il leggero trambusto delle sedie trascinate sul pavimento la avvertì che era arrivato l’insegnante della prima ora. 
Si costrinse ad alzarsi, e si lasciò sfuggire una smorfia. 
Odiava il signor Schulz, odiava la materia che insegnava ed il suo modo di insegnarla. 
Di chi era l’idea geniale di studiare diritto? 

Stupido Gymnasium, pensava, e sbuffando si chinò a prendere il blocco per gli appunti dalla cartella. 
Scrisse qualche frase, ancora imbronciata e con il cervello spento per metà, disegnò frecce colorate, evidenziò le parole chiave. A quell’ora, con il sole ancora tiepido nascosto dietro i palazzi più alti, la classe era silenziosa, e Helen non sapeva se essere grata per quel pizzico di tranquillità, che ci voleva sempre dopo quei risvegli a dir poco traumatici, o se incazzarsi ancora di più, ché il silenzio le faceva venire sonno. 
Cassie le sorrise alla fine dell’ora, e senza dire niente si incamminarono fuori,  i cappotti sottobraccio e gli zaini che penzolavano da una spalla. 
«Ora che abbiamo?» 
Cassie si strinse nelle spalle, «botanica mi sembra» 
«Ah, ok» raggiunsero una panchina ancora libera di quelle intorno all’aiuola, mentre Helen continuava a rimuginare...chi era il loro professore di botanica? 
Poi si voltò a guardarla, gli occhi ridotti a due fessure. 
«Cosa, che c'è?» chiese la bionda ridacchiando. 
«Noi non studiamo botanica» 
«Ma va?»  
Poggiandole una mano sul braccio, la spinse piano, e Cassie la assecondò, fingendo di cadere. 
«Sei proprio scema» 
Cassie ora rideva di gusto, «tu di più, che mi prendi sul serio» 
Helen si concesse il primo sorriso di quella giornata fredda, il sonno lontano ormai, ed alzò gli occhi al cielo. 

 
«Ciao» gridò entrando  in casa e richiudendosi la porta alle spalle. 
Salutò sua madre posandole un bacio leggero sulla guancia, diede un'occhiata a cosa c'era in forno, poi andò in camera sua. 
Richiuse la finestra e lanciò a terra lo zaino. 
Il cappotto lo seguì poco dopo, insieme alle scarpe. 
Accese la tv, e stava per sistemarsi tra la coperta e le lenzuola aggrovigliate quando la voce di sua madre le perforò le orecchie, «è pronto!» 
Così si trascinò in cucina e prese posto a capotavola, dove a cena si sedeva suo padre. 
Si guardò intorno e sbuffò; «che c'è?» 
«Mi hai messo il bicchiere sbagliato» spiegò alzandosi e si sollevò sulle punte per recuperare il suo bicchiere dallo scolapiatti sopra il lavello. 
«Adesso non mettertici anche tu, Helen» 
Non le rispose, e tornò a sedersi, scompigliando i capelli di suo fratello mentre passava. 
«Hel» si lamentò lui, strappandole un sorriso. 
«Come è andata?»  
Finì con calma di masticare la carne, deglutì rumorosamente e prese un sorso di tè; «Hel, parlo con te!» 
La guardò, «bene» 
«Bene, e...?» 
«Bene» si decise ad alzare lo sguardo su di lei e le sorrise. 
«Cambi canale, per favore?» 
 
 
Helen se ne stava rannicchiata sul suo piccolo divano, a godere della luce diffusa che entrava dalla finestra, e studiava con la tv accesa in sottofondo, a coprire il brusio dei suoi pensieri vuoti quando suo padre entrò. 
«Ciao pa'»  
«Ciao Helly» le sfiorò la fronte con un bacio leggero, «che fai?» 
Lei gli mostrò il libro, «studio» 
Jorg le sorrise, «ci vediamo dopo» 
Accompagnò la porta fino a richiuderla quando uscì. 
Helen tornò al suo libro di storia, e riprese a leggere. 
 
 
Sistemò i soliti tre cuscini contro la testiera del letto e si coprì con la coperta incasinata, i jeans  addosso. 
Poi le venne fame.  
Così fece un salto in cucina e portò  in camera con sé una nuova bottiglia di tè ed un pacchetto di craker.  
Giusto per tenersi leggera dopo i panini col prosciutto di qualche mezz’ora prima. 
Si imbatté in una maratona di episodi de I Flintstones e decise che andavano più che bene.  
Dando le spalle alla tv sistemò alla meno peggio il letto, e poi si rifugiò nel caldo invitante sotto la coperta. 
Tenne il telecomando appoggiato alle labbra, e di tanto in tanto portava i lunghi capelli su una spalla, e dopo un po’ li spostava di nuovo, facendo girare il braccio intorno alla testa. 
 

«Cosa vuoi domani a pranzo?» le chiese Kate, lasciandosi cadere sulla sua sedia. 
Helen prese un sorso di tè, poi scosse la testa; «non ci sono domani...» 
«Uuuh è di nuovo martedì?» 
Jorg rise, «no, è venerdì. Dopo il giovedì viene il venerdì» 
«Zitto tu» la donna gli sorrise, sventolando distrattamente la mano nella sua direzione; «va bene un panino?» 
Helen annuì lentamente, «posso pensarci io» 
Sua madre ignorò l'ultima frase, «cosa preferisci, prosciutto, salame, cotto...» 
«Salame va bene» 
«Papàààà mi dai l'acqua?» alzò gli occhi al cielo quando la voce sottile di suo fratello le perforò le orecchie. 
Sorrise a sua madre, parlando sotto quel suono assordante «grazie» 
 

La sveglia suonò anche quella mattina. 
Che problemi avevano le sveglie, sempre a suonare? 
Tenne il viso premuto nel cuscino mentre si concedeva altri dieci minuti di sonno, poi si trascinò fuori dal letto. 
Sul tavolo in cucina trovò un foglietto che le aveva lasciato Kate; lì accanto i panini, già nel box del pranzo. 

Perché dobbiamo alzarci presto? A dopo Helly, buona scuola 
Gettò il box nello zaino, si truccò davanti allo specchio del bagno, sistemò la sciarpa ed uscì. 
Allacciò i bottoni mentre scendeva le scale, il freddo la avvolse non appena mise piede fuori, e si schermò con la mano gli occhi dal sole sorto da poco. 
 

«Buongiorno»  
Sorrise a Cassie mentre si toglieva gli auricolari, tirandoli per il filo. 
«Botanica in prima ora?» la prese in giro scivolando tra la sedia ed il banco dopo aver lasciato il cappotto su uno dei ganci. 
«Eh sì...che palle io non la sopporto la signorina Tamm»  
«Cassie, non devi per forza chiamarti con il nome di un albero per insegnare botanica» disse divertita. 
«Ah no?» 
Le sedie raschiarono il pavimento quando entrò la signora Hek. 
Helen ridacchiò, «no» 
Si strinse nelle spalle, «d'accordo...» 
«Io invece non sopporto questa qui» 
Cassie rise, «tu non sopporti nessuno Hel, e non ti piace nulla...fosse per te non studieremmo niente e verremmo qui a perdere tempo» 
«Ma non è vero...» 
«Ah no?» Cassie alzò un sopracciglio, guardandola con la coda dell'occhio. 
«No...» Helen recuperò dalla cartella il blocco degli appunti, «fosse per me non verremmo proprio» le sorrise mentre la signora Hek lanciava un'occhiataccia nella loro direzione. 
Cassie soffocò l'ennesima risata, «ah ecco...» 

 
A livello inconscio, sapeva benissimo che tutto quello non era abbastanza. 
Il senso d'inutilità le strisciava addosso, ma Helen lo ignorava. 
Non si fermava a pensare, non cercava la causa di quell'onnipresente nodo alla gola, s'impegnava soltanto a tenere la mente occupata, ed aveva finito per abituarsi al nodo, Helen, ed imparato ad ignorare anche quello. 
Stringeva i denti, e si sorrideva allo specchio. 
Perché lei stava 
bene, no? 
Recuperò la grande ciotola di gelato dal microonde, dove l'aveva messo per ammorbidirlo, e strinse la lingua tra i denti mentre ci versava sopra il caramello, seguendo uno schema tutto suo. 
Si sistemò la coperta addosso e mangiò seduta a gambe incrociate nel letto, un occhio ai video musicali alla tv, uno al gelato. 
Il caramello si era solidificato sulla stracciatella, ed Helen adorava quando tornava a sciogliersi in bocca, impastandole la lingua. 
Assottigliò gli occhi rigirandosi il cucchiaino tra le labbra mentre si sporgeva appena per leggere il titolo della canzone sull'angolo della tv. 
Poi alzò il volume. 

 
L'indomani la scuola sarebbe stata chiusa e quindi avevano deciso di uscire. 
Iniziò a prepararsi due ore prima dell'appuntamento con gli altri. 
Se ne stava in piedi tra le ante aperte dell'armadio, le mani sui fianchi, e continuava a stringere il labbro inferiore forte tra i denti, alla ricerca di qualcosa da mettere. 
Gettò a terra il mucchio di vestiti che stava sulla sedia, trascinandola poi lì davanti ed arrampicandosi sopra. 
Lanciò sul letto un maglione largo che le arrivava a metà coscia, e poi dopo essere scesa una calzamaglia pesante, e un paio di jeans, ed un vestito, e poi basta. 
In piedi vicino al letto, li fissava. 
Dopo un po' li prese uno ad uno e li allargò sulla coperta, provando i vari abbinamenti possibili.  
Il maglione sulla calzamaglia, il vestito, prese dal cassetto una maglietta ed un giacchetto da mettere sopra ai jeans, e poi un giacchetto per il vestito. 
Scartò il vestito. 
E lo scartò nel vero senso della parola, afferrandolo con un gesto brusco e lanciandolo lontano in un angolo del letto. 
Dopo Helen osservò gli altri due. Si morse il labbro, ed inclinò la testa prima da un lato, poi dall'altro. 
Controllò l'ora. 
Mise da parte anche jeans e maglietta, sistemando poi sul maglione l'intimo, andò a recuperare gli stivali dal ripostiglio, lanciandoli malamente a terra accanto al letto, ed aprì con un gesto brusco il cassetto con gli orecchini ed i bracciali. 
Quando prese l'accappatoio da dietro la porta e si diresse al bagno, sul letto era tutto pronto. 

 
L'acqua calda le colpiva forte la schiena, e vedeva tutto appannato a causa del vapore. Chiuse gli occhi e si risciacquò con calma i capelli dallo shampoo, se la prese comoda, Helen, passando il pettine dai denti larghi tra le ciocche impastate di balsamo, e dopo spese un'altra eternità lavando via anche quello. 
L'odore dolce del suo bagnoschiuma preferito riempì l'aria densa nel box doccia e poi tutto il bagno, mentre Helen si insaponava con movimenti lenti e circolari, restando concentrata sul rumore rilassante dell'acqua che le colpiva la pelle o precipitava a terra. 
Il calore l'avvolgeva, e la faceva sentire bene. 
 

Accaldata dalla doccia, Helen non sentiva freddo con addosso solo una maglietta a maniche corte che arrivava a malapena alle cosce. 
Modellò i capelli con le lunghe dita piene di spuma, poi si mise a testa in giù ed inizio ad asciugarli, con il pesante diffusore montato sul phon. 
Quando fu soddisfatta della piega che avevano preso, e si ritrovò quindi con una chioma corvina gonfia e riccia, si vestì, si infilò gli stivali, e poi si posizionò davanti allo specchio attaccato sopra al tavolinetto con i trucchi. 
Mancava quasi un'ora all'appuntamento, ed Helen iniziò a truccarsi con calma, chiudendo fuori dalla sua mente il resto del mondo. 
Lei non voleva rendersene conto, ma uno dei motivi per cui spendeva così tanto tempo a prepararsi era che non voleva lasciare tempo ai pensieri. 
Se aveva qualcosa da fare, non pensava.  
Ed Helen non voleva pensare. 

 
«Ma se quando ti ho chiamato eri sulla porta di casa pronta per uscire» la accolse la voce divertita di Cassie non appena girò l'angolo e li scorse intorno alla panchina, ad aspettarla, «come è possibile che hai fatto tardi anche oggi?» 
Helen sorrideva mentre si avvicinava a loro; «come fai a sapere che non era una cavolata?» 
Cassie fece schioccare la lingua sul palato, voltandosi verso Ian con aria di sufficienza, «capisco quando mi dice una cavolata e quando no...ciao Hel» 
«Ah sì?» la sfidò Ian inclinando di lato la testa. 
Helen continuò a sorridere, seguendo con lo sguardo il loro scambio di battute, «ciao ragazzi» 
«La cavolata più cavolata è quando ti dice 
sto per strada, e tu invece senti il silenzio tombale di camera sua. Oggi quando ha detto che stava uscendo c'erano effettivamente Kate e Jorg che la salutavano da lontano, per non parlare dei baci di Izac in sottofondo...» 
Ian alzò le mani in segno di resa. 
Cassie si voltò verso di lei, «tornando a noi, come sei riuscita a fare tardi anche oggi?» 
Helen si strinse nelle spalle, «stavo per uscire ma mi sono accorta che non mi ero messa il profumo»  
«E poi?» 
«E poi basta» rispose candidamente, e Cassie inarcò un sopracciglio, «ti ci vogliono venti minuti per spruzzare un po' di profumo?» 
«No, poi mi sono dovuta rimettere il giacchetto, ed ho perso l'autobus, e poi ho aspettato quello dopo» 
Cassie rise, e gli altri con lei, «ah ecco...» 
«Allora, andiamo?» chiese Curt alzandosi dalla panchina. Theodor si aggiustò i pantaloni addosso. 
«Dove?» Cassie si guardò intorno, ed Helen la prese sottobraccio, avviandosi lungo il marciapiede, sicura che gli altri le avrebbero semplicemente seguite; «per voi va bene un po' di kebab?» 
«Perché lo chiedi se poi stai già andando?» sentì uno scalpiccio alle loro spalle, poi i ragazzi erano lì. 
Helen si voltò appena, sorridendo loro da sopra la spalla, «è un modo carino per mettervi al corrente della mia decisione» 
Theodor sorrise, e «per la cronaca, il kebab va bene» aggiunse Ian. 

 
Ridevano forte, con le lacrime agli occhi e gli sguardi della gente addosso, la gente che scuoteva la testa e tornava presto ad ignorarli. 
Helen si sentiva in una bolla  di sapone quando stava con loro, i discorsi senza perché e le risate senza senso e le storie inutili quasi quanto tutte quelle parole che si dicevano la rendevano sorda  al suo dolore, fino a dimenticare chi era. 
Uscire con i ragazzi anestetizzava i suoi pensieri. 
Passeggiavano sulla via centrale, con le vetrine dei negozi illuminate, parlavano del nulla una notte intera, ed Helen stringeva il braccio di Cassie sotto al suo, che così aveva l'impressione di essere meno sola. 
Il suo cervello rallentava, fino a spegnersi quasi, e dimenticava che in realtà nemmeno lo sapeva chi era. 

 
«Buonanotte, grazie» scese dall'auto ed accompagnò lo sportello mentre la mamma di Theodor ancora le rispondeva. 
Salì in fretta le scale, nella penombra della luce dei lampioni che entrava da fuori. 
Richiuse piano la porta, e lo scatto del paletto rimbombò nella sala vuota. 
Abbandonò la borsa ed il giacchetto su un divano, raggiungendo poi in punta di piedi la camera dei suoi. 
Diede un'occhiata dentro, «Helen?» 
«Ehi, ma'...buonanotte» 
Le coperte frusciarono, e «ciao», così lei se ne andò. 
Recuperò le sue cose dal divano e si chiuse nella sua stanza. 
 
 
Di solito funzionava. 
Tornava a casa tardi, sfinita, e s'addormentava subito. 
Quella sera però Helen si rigirò nel letto per quelle che le parvero ore, e sperava soltanto di scivolare presto nell'incoscienza, prima che 
lui arrivasse, e l'ansia di sfuggirgli le faceva sfuggire il sonno piuttosto, ed alla fine successe.  
Il dolore si risvegliò un po' alla volta, e colpì Helen in lente ondate, fino a sommergerla. 
Singhiozzò a lungo con il viso premuto nel cuscino, le dita strette forte intorno ad un pugno di coperta, le nocche bianche. 
S'addormentò che ancora piangeva, e probabilmente continuò a farlo anche nel sonno. 

 
Quei risvegli non erano mai un granché. 
Si rigirò nel letto più e più volte, stringendo forte gli occhi per ignorare che c'era tanto sole nella stanza, e che era quasi ora di pranzo, e che nonostante la stanchezza di sonno non ne aveva proprio più.  
Si rigirò nel letto scivolando ad intermittenza in uno stato di semincoscienza, e allora i pensieri le sfuggivano ed i colori diventavano lividi, e poi si svegliava. 
Dopo un po' si stancò di non avere sonno, e s'addormentò. 
Quando aprì gli occhi, non aveva nemmeno più il sole in faccia, tanto era tardi. 
Sentiva gli occhi gonfi, erano secchi e bruciavano. 
Dopo aver dormito di solito ci si sente riposati, Helen era semplicemente più stanca di prima. 
Aveva mal di testa, e piangere nel sonno le faceva sempre venire voglia di piangere. 
Ma cos'aveva di sbagliato?  
Si stropicciò gli occhi, sentendo la pelle tirare. 
Sbadigliò e si leccò le labbra salate. 
Il cuscino era umido sulla sua nuca. 
Sospirò, si passò le mani sul viso, poi scostò le coperte e si trascinò al bagno. 

 
Bussarono alla porta. 
«Helly?» chiamò Izac, «è pronto» 
«Arrivo!» gridò da dentro, senza la minima intenzione di precipitarsi a tavola. 
Continuò a riempirsi d'acqua le mani chiuse a coppa, per gettarla sul viso, anche se ormai il sapone era scivolato via da un pezzo. 
L'acqua fresca smorzava il bruciore degli occhi. 
«Sbrigati!» gridò sua madre dopo un po', bussando di nuovo. 
«Ho detto che arrivo!» 
I passi di Kate si allontanarono lungo il corridoio. 

 
Entrò in cucina ed emise un lamento. 
«Che c'è Hel?»  
Si sedette lentamente, continuando ad adocchiare il pranzo con una smorfia sul viso fresco di crema. 
Sua madre sbuffò, «prima di iniziare a rompere controlla bene. Il tuo piatto è questo» 
Kate le mise davanti un'enorme ciotola di spezzatino, e lei s'aprì in un sorriso a trentadue denti. 
Tutte quelle verdure nei piatti dei suoi non le avrebbe mangiate neanche morta. 
«Hel, vuoi una caramella?» 
«Sì, grazie!» 
«Izac, prima lasciale mangiare la carne, che tu l'hai già mangiata» 
Suo fratello tornò al suo posto, arrampicandosi a fatica sulla sedia perché doveva contemporaneamente tenere il sacchetto di caramelle stretto al petto. 
Jorg rise, «ricordatemi chi ha quattro anni e chi invece ne ha diciassette» 
Helen alzò gli occhi al cielo masticando con calma, mentre i suoi continuavano a prenderla in giro. 

 
Osservò con attenzione il tavolo, accertandosi per l'ennesima volta di aver preso tutto.  
Non aveva nessunissima intenzione di tornare indietro, né di alzarsi dal letto una volta che si fosse rifugiata sotto la coperta. Di nuovo. Nemmeno il pigiama si sarebbe tolta, Helen, sarebbe semplicemente tornata a dormire. 
Prese tra le braccia i vari pacchetti e bottiglie che aveva preparato, non vedeva nemmeno dove metteva i piedi, e tornò in camera. 
Con pazienza sistemò tutto sul comodino, prese un sorso di tè e si rannicchiò al caldo. 
Lasciò la tv in sottofondo perché sapeva che si sarebbe addormentata presto.  
Quando riaprì gli occhi imprecò perché c'era troppa luce nella stanza. 
Un raggio di sole pallido faceva capolino all'angolo del palazzo di fronte per finire dritto nel suo occhio. 
Si trascinò a fatica fuori dal letto, sbuffando stizzita, ed abbassò le tapparelle. 

Decisamente meglio, pensò, tornando sotto la coperta. 

 
Helen si svegliò ed era rincoglionita. 
Si stropicciò gli occhi impastati di sonno. 
Alzò il volume, mettendosi a sedere. 
Girò in fretta tra i canali, finché i colori di 
America's Next Top Model non attirarono la sua attenzione, così posò il telecomando accanto a sé, sistemò i cuscini dietro la schiena ed afferrò il pacco di biscotti al cioccolato. 
Lo sguardo le cadde per un momento sullo zaino, abbandonato a terra dietro alla porta. 
Ah, già, prima o poi doveva studiare. 

 
Aveva bisogno di comprare qualcosa. 
Sì, le ci voleva proprio. 
Helen balzò fuori dal letto e con ritrovata energia si vestì. 
Sistemò un cappello di lana sui capelli ancora perfetti ed afferrò la borsa.  
Non si sarebbe truccata. 
«Esco un po'» gridò. 
Con la maniglia già in mano ci ripensò e tornò indietro, affacciandosi in cucina. 
«Serve niente?» 
Kate alzò lo sguardo su di lei, le sorrise, «no, grazie» 
«Allora ciao» 
«Quando torni?» 
«Tra poco» rispose distrattamente mentre si richiudeva la porta d'ingresso alle spalle. 

 
In libreria non c'era nulla di nuovo.  
Niente di più oltre a quei libri che aveva già scartato la settimana prima, sapendo che non facevano al caso suo. 
Salutò la commessa che ormai la conosceva e la chiamava quando arrivava qualcosa che poteva interessarle e, in piedi sotto la pensilina della fermata dell'autobus, Helen guardò il suo fiato condensarsi nell'aria fredda, socchiudendo gli occhi al sole basso e livido. 
Sospirò di sollievo quando il tepore della biblioteca l'avvolse, ed accartocciò il cappello in borsa, «buonasera» 
La signora dietro il bancone dell'ingresso alzò gli occhi su di lei e le rivolse un sorriso cordiale. 
Con calma si sfilò i guanti e li spinse ognuno in una tasca. 
Si diresse sicura verso gli scaffali con i romanzi gotici e gli urban fantasy. 
Lesse qualche risvolto di copertina, lì in piedi in mezzo al corridoio, spostando lentamente il peso da un piede all'altro. 
Dopo poco Helen tornò all'ingresso stringendo tra le mani il libro che aveva scelto, lo ripose in borsa dopo aver lasciato la firma sul grande registro e, sulle scale, si infilò nuovamente i guanti, sistemando poi il cappello. 

 
Sì, quella di prendere l'autobus era stata decisamente un'ottima idea, pensava rigirandosi il sacchetto tra le mani, sul sedile direttamente sopra il motore del mezzo. 
In un frusciare e scrocchiare di carta sbirciò dentro, sorridendo soddisfatta dei suoi acquisti. 
Le mancava una matita di quel colore, e le serviva un nuovo mascara. 

Be', in realtà no, ma quello era ExtremeVolume. E poi era verde acido. 
Insomma, non il mascara, il contenitore era verde acido.  
Di quel colore era semplicemente impossibile perderlo. 

 
«Hel!» 
Kate la intercettò non appena richiuse la porta. 
Si affacciò in cucina, i guanti in mano, «sì?» 
«Vanno bene le polpette a cena?» 
«Sì, benissimo» scompigliò i capelli di Izac, che disegnava in ginocchio su una sedia. 
«D'accordo» 
«Ciao pa'» lo salutò prima di chiudersi in camera. 
Lasciò scivolare a terra la borsa mentre si sfilava le scarpe. 
Lanciò il cappotto sul divanetto, il cappello ed i guanti che teneva in mano volarono via, spargendosi sul pavimento. 
Recuperò la borsa e saltellò verso il tavolinetto dei trucchi, affrettandosi a prendere il sacchetto. 
Ci rovistò dentro e provò subito il mascara. 
Girando la testa a destra e a sinistra, con la solita espressione concentratissima e le labbra strette, constatò che non voluminizzava poi tanto. 
Si strinse nelle spalle sistemandolo nella ciotola dei mascara; era pur sempre verde acido. 
Disegnò un altro scarabocchio sulla mano, accanto al precedente ormai un po' sbiadito, per studiare bene il colore della matita alla luce del faretto sopra lo specchio.  
Le piaceva proprio quel colore. 
Spinse la matita tra le altre, nel bicchiere delle matite. 
Poi sbuffando si abbassò a prendere il diario dallo zaino con l'idea di studiare. 

 
«Buonanotte Helly» la salutò suo padre facendo capolino nella stanza. 
«Buonanotte» 
Sorpreso di trovarla ancora sveglia -era sempre 
ancora sveglia, ma lui ogni tanto si ritrovava  lo stesso a sperare che fosse andata a dormire presto, per una volta- entrò silenziosamente e le sfiorò la fronte con una bacio leggero. 
«Non dormi?» chiese voltandosi sulla porta. 
«Tra poco, sì» Helen riportò lo sguardo sul libro quando la richiuse. 
Aveva studiato biologia, svolto quei due esercizi inutili di matematica, aveva cenato -sentiva ancora il sapore delle polpette, tante ne aveva mangiate- e poi aveva iniziato a leggere, alla luce soffusa dell'abatjour. 
Ora, a mezzanotte passata, era quasi a metà libro. 
Che poteva farci se proprio non riusciva a smettere? 

 
Quella mattina Helen si svegliò sentendosi più riposata. 
Il libro era lì accanto a lei, aperto a faccia in giù sulla coperta. 
Non si ricordò di essersi addormentata, quindi probabilmente non se ne era nemmeno accorta. 
Il libro le era finito sul viso, pensò, e sua madre aveva spento la luce quando, andando a darle la buonanotte, l'aveva trovata in quel modo. 
Che ore erano? 
Si alzò ed allungò le braccia sopra alla testa. 
Si chinò sulla borsa, rimasta a terra, e controllò l'ora sul cellulare, lanciandolo poi sul letto. 
Allentò le tapparelle, così che un po' di luce riuscisse ad entrare, e prese il portatile dal cassetto della scrivania. 
Si sedette a gambe incrociate con la schiena su un cuscino sistemato contro la testiera, e si coprì. 
Mentre aspettava che si caricasse la schermata iniziale scrisse un SMS a Cassie; 
ci vediamo oggi?, poi lo inviò. 
Entrò su Facebook e scorse la lista delle persone in linea. 
Salutò qualche amico d'infanzia e qualche conoscente per poi dare un'occhiata distratta alle notizie nella home. 
Mentre faceva ripartire per la quarta volta un 
vine, sicura che avrebbe riso di nuovo fino alle lacrime, il cellulare vibrò accanto a lei. 
4.30 davanti all'Emporium? <3 
Sorrise, 
andata xx 

 
A Cassie non importava che Helen fosse sempre in ritardo. 
Si spazientiva ad aspettarla, sì, ma fino ad allora non era mai riuscita a prendersela davvero, nemmeno volendo. 
E non le importava nemmeno di quando la mattina la salutava a malapena, e rispondeva con grugniti acidi almeno fino all'inizio della seconda ora. 
Le voleva bene anche perché arrivava sempre in ritardo e perché la mattina salutava a malapena, che un po' faceva male, ed un po' le veniva da abbracciarla. 
Ricontrollò l'ora, poi scorse l'elenco delle chiamate effettuate e premette il tasto verde. 

 
«Ci prendiamo un panino?» chiese Helen non appena arrivò, lo sguardo alto sull'insegna dell'Emporium.  
«Mh mh» annuì la bionda, precedendola nel locale caldo. 
Helen si avvicinò al bancone, «due panini Käse, per favore» 
«Allora, cosa hai fatto ieri?» chiese Cassie sorridendole. 
«Ho dormito» le passò il suo panino; «non avevo dubbi» ridacchiò lei.  
«Poi sono andata in biblioteca, l'ho quasi finito il libro che ho preso, ed ho comprato dei trucchi nuovi» 
«Mi sembrava ti stessero per finire infatti» commentò Cassie alzando gli occhi al cielo. 
Pagarono alla cassa e poi uscirono, raggiungendo una panchina libera lungo il viale alberato gremito di gente. 
Helen addentò il suo panino, il formaggio le si sciolse in bocca, e lei sorrise. 
«Cosa hai preso?» 
«Una matita, oh!» raccolse con il dito un po' di salsa che le era finita sul labbro, «ed un mascara» 
Cassie rise; «perchè ridi?» 
«Ne avrai una ventina» riprese fiato prima di mordere il panino. 
«Lo so, ma è verde acido questo. 
La bionda sgranò gli occhi, e fu Helen a ridere. 
«Il tubetto, non il mascara dentro» 
«Ahhh» 
«Solo che l'ho perso» s'imbronciò, e gonfiò le guance mentre continuava a masticare. 
«Ma come?»  
«Non lo trovo più!» 
«Sei sempre la solita...» 
«Quando vado a casa lo cerco» assunse un'espressione determinata. 
Cassie continuava a ridere, che tanto lo sapevano tutte e due che non l'avrebbe cercato affatto. 
«Tu invece?» 
«Io cosa?» 
«Che hai fatto ieri?» 

 
Non appena mise piede in casa l'odore della cena la avvolse. 
Si affacciò in cucina, «quanto manca?» 
«È quasi pronto» Kate le rispose senza girarsi, indaffarata ai fornelli. 
Helen, di buon umore, saltellò in camera sua facendo dondolare il sacchetto di 
H&M; «ciao papà» gridò. 
Dalla camera di Izac giunse solo un mugolio indistinto. 
«Ciao puzzone!» 
La voce di suo fratello invece giunse forte e chiara, «ciao Hel!» 
Chiuse la porta e scivolò nel pigiama caldo. 

 
C'erano giorni in cui Helen si sentiva cadere a pezzi. 
Si rigirò nel letto, fuggendo dalla luce di quella domenica mattina che si faceva spazio tra le fessure delle tapparelle, e nascose il viso sotto la coperta. 
Strinse gli occhi. 
Perché non si riaddormentava? Era presto! 
Si sentiva cadere a pezzi ed aveva paura di non farcela. 
Di non farcela a tenerli insieme, non da sola. 
E a quel  pensiero i frammenti di lei, che di solito se ne stavano buoni, cominciavano ad agitarsi, ed Helen si schiantava a terra, i rottami volavano lontano. 
Era sola ed era colpa sua. 
Colpa sua, che si metteva su un sorriso e diceva di stare bene, sperando che così sarebbe stata bene davvero. 
E fingeva bene, Helen. 
Gli altri vedevano una ragazza sorridente, che scherzava sempre, e faceva ridere tutti, e prendeva la vita alla leggera. Una ragazza a cui piaceva stare in mezzo alla gente, ed era amica di tutti, era sempre pronta ad ascoltare gli altri, dispensava  consigli come caramelle. 
Le persone si sentivano rassicurate dopo una chiacchierata con lei, che rendeva tutto più semplice. Parlando con lei, dopo giorni di disperazione, si aveva l'impressione che in realtà tutto andasse bene. 
Ma non c'era niente. Nella sua testa non c'era niente che andasse bene. 
Ad Helen sarebbe piaciuto essere almeno una delle persone che gli altri pensavano che fosse,  ma lei era ben diversa. 
Lei era come la biglietteria con il vetro. Vedeva i clienti, fuori, parlava con loro attraverso il microfono. 
Ma loro non vedevano lei, e non la sentivano. 
Ed Helen aveva troppa paura di abbassare il vetro. 
Stupida stupida stupida 
Voleva solo riaddormentarsi e smettere di pensare. 
Portò le ginocchia al petto rannicchiandosi in posizione fetale, nascosta sotto la coperta. 
Cadeva a pezzi e non trovava nemmeno una ragione valida per tenersi insieme. 
A cosa serviva? 
S'addormentò. 
 

Allungò le braccia sopra alla testa sentendo tutti i muscoli, ancora intorpiditi dal sonno, tirare piacevolmente. 
Raggiunse il bagno con passo strascicato, sbadigliando sonoramente. 
«Buongiorno» la intercettò Jorg. 
Lei fece 
ciao con la mano  senza voltarsi, e chiuse la porta. 
C'era un fastidioso tarlo nella sua mente insonnolita. 
Scosse la testa e fissò assorta l'acqua che scorreva, mentre aspettava che questa si scaldasse. 
In realtà si trascinava avanti cercando di non pensare, in attesa che le cose si sistemassero da sole. 
Come poteva metterle a posto lei se non sapeva cos'era a non andare? 
Aveva soltanto paura di rimanere sola. 
Ma allora perché si ostinava a non voler chiedere aiuto? 
 

La sveglia suonò e, nonostante fosse andata a letto presto la sera prima, Helen colpì forte il cellulare, sperando di poter continuare a dormire. 
Dopo qualche minuto si trascinò fuori dalle coperte ed iniziò a prepararsi. 

 
«Ho ritrovato il mascara» esordì non appena furono fuori. 
Quelle due ore di inglese erano state sfiancanti. 
Cassie si voltò verso di lei mentre si sedevano su una delle solite panchine, prendendo le merende dallo zaino, «davvero? E dov'era?» 
Helen rise, «a posto» 
La bionda assottigliò gli occhi, «se stava a posto non l'avevi perso» 
Sventolò distrattamente una mano nella sua direzione, come a zittirla. 
Cassie sbuffò una risata, poi arrivarono anche gli altri e chiacchierarono del nulla per il resto dell'intervallo. 

 
Si massaggiò le tempie chiudendo stretti gli occhi. 
Le pagine dei libri aperti sotto di lei e tutt'intorno sul piccolo divano frusciarono mentre si abbandonava contro lo schienale. 
Cominciava ad odiare anche letteratura. 
Andiamo, un fottutissimo saggio breve sulla religiosità di Goethe? 
Lanciò a terra le penne e, spenta la tv, si sistemò nel letto ed afferrò soddisfatta il libro della biblioteca. 
Poi ci pensava a contare quante volte Goethe era solito andare in chiesa. 
 

In casa odiavano tutti quel giorno. 
Perché non cancellarlo dal calendario? 
Era davvero così  indispensabile? 
Cercò di non pensarci. 
Tutto il tempo canticchiava, riassumeva in francese la trama del libro, e poi ripeteva la lezione di storia in inglese. 
Tuttavia un pensiero la perseguitava, senza essere mai formulato.  
Lei che c'era ancora doveva alzare la testa e smetterla di farsi trascinare dalla vita. 
Sentiva di non farcela e questo le paralizzava le gambe più di quanto non fossero già inutilizzabili. 
 


But he got killed by a fanatic the same year and 
Sorrise a Cassie, senza la minima idea di cosa le avesse detto, scivolando poi tra il banco e la sedia. 
Le voci degli altri non la aiutavano affatto a concentrarsi, e così canticchiò senza voce quella canzone di cui non sapeva le parole ma la cui melodia non le usciva dalla testa. 
Annuì continuando a non prestare attenzione a quello che dicevano. 
Entrò il professore e Cassie la scosse piano. 
«Ehi, che hai?» 
Doveva essere una domanda innocente, la solita domanda che ogni tanto si rivolgevano, ma quella mattina Helen non era in vena, e si sentì mancare. 
Boccheggiò mentre le lacrime le appannavano gli occhi, e sul viso di Cassie si dipinse una maschera di panico. 
«Hel, che succede?» le sfiorò il braccio, ed Hel non trovava le parole. 
Pur volendo, non c'erano parole. 
Guardò in alto mordendosi il labbro, la fottuta forza di gravità sarebbe servita a qualcosa  no? 
Non voleva piangere. 

No, ti prego 
 

«Vieni, usciamo un attimo»  
La bionda le strinse piano il braccio tra le dita, Helen si lasciò guidare, non sentì cosa diceva al professore, e poi furono in corridoio. 

No Cassiedy, lasciami da sola, pensava, ma non riusciva a dire nemmeno quello. 
Non voleva farsi vedere così, non doveva. 
Cassie la inglobò in un abbraccio titubante, e lei la spinse via. 
«Dai, vieni qui» 
Si abbracciò il petto, chinando il viso sulle braccia. 
Cassie l'avvolse di nuovo, sospirando, «shh, è tutto ok», e stavolta strinse un po' di più. 

 
Helen tentò d'allontanarla, «è solo che» ed il resto che non sapeva nemmeno lei cosa sarebbe stato si perse in un singhiozzo. 
«Va bene così» soffiò la bionda, e non la lasciò andare. 
Helen  smise presto di spingerla via, e smise di cercare di parlare. 
Non trovava le parole, non ne aveva mai avute ed era sicura che non ce ne fossero. 
Non c'erano parole. 
Cassie la sentiva tremare tra le sue braccia e avrebbe soltanto volute portarle via tutto il dolore. 
Non sapeva di cosa si trattasse e sentiva di non aver bisogno di saperlo, ma Helen piangeva e lei voleva soltanto farla stare meglio. 
La cullò piano, spostando il peso da un piede all'altro, «shhh», sussurrava, sfregandole delicatamente la schiena con le nocche. 
Helen rimase rigida nel suo abbraccio e non smise di singhiozzare a lungo. 
Prendeva respiri profondi ed ogni volta sembrava che fosse finita, che fosse passata, ma poi il fiato le si fermava di nuovo in gola, e Cassie voleva soltanto portarla lontano da quello che sentiva dentro. 

Cosa senti lì dentro Hel? Va tutto bene, ti dico, ma in realtà dopo qualche frase tremante non aveva detto più niente. 
Tutte le parole del mondo suonavano inutili, superflue, scomode.  
Cassie non sapeva cosa fare, e allora aspettò. 
Aspettò continuando ad abbracciarla, sperando che abbracciandola Hel avrebbe capito che lei era lì. 
Non sapeva cosa avesse, né quanto male sentisse, né se poteva fare qualcosa. 
Sapeva solo che avrebbe tanto voluto poter fare qualcosa. 

 
Si tolse le scarpe, abbandonò lì davanti alla porta cartella e giaccone, e con i jeans addosso si gettò sul letto. 
Voleva solo spegnersi. 

 
Helen non pensava di meritare di essere felice. 
E allora piangeva tutte le lacrime che aveva in corpo. 
Piangeva tutto il dolore che sentiva dentro, tutto quel vuoto, e le urla.  
Piangeva quelle urla mute  che le scorrevano nelle vene, avvelenandole il sangue fino a sentire male. 
Male al petto, lì nei polmoni, e male al cuore, dove c'era quella voragine che ormai faceva parte di lei, e poi male anche alla gola, per i singhiozzi trattenuti a fatica. 
Ed Helen non si chiedeva nemmeno più perché, perché un motivo l'aveva cercato così a lungo che le faceva male anche la mente ormai, e si sentiva schiacciare dalla consapevolezza che, no, un perché non c'era. 
E allora Helen piangeva anche tutta quell'impotenza. 
Piangeva tutte quelle cose che non capiva, e quelle che non poteva cambiare. 
Soffocava nel cuscino ormai bagnato di lacrime tutte quelle cose che nessuno poteva cambiare, e soffiava lì sulla stoffa fredda quello che invece non riusciva a dire, perché il male che sentiva era più forte delle parole, e le stringeva il cuore in una morsa, e non sapeva come liberarsene, e allora lo piangeva via, respirando tra i denti. 
E quando le lacrime finivano, allora a quel punto Helen si chiedeva quando sarebbe arrivato qualcuno a farle compagnia. 
Voleva soltanto qualcuno che la lasciasse piangere, in fondo. 
Qualcuno a cui non dovesse spiegare tutto quel dolore. 
Le serviva solo di rannicchiarsi contro il suo petto, e le sue braccia l'avrebbero stretta forte, e fatta sentire al sicuro in quel letto troppo grande. 
Avrebbe pianto un po', e non si sarebbe più sentita insignificante sotto quel soffitto alto. 
E poi avrebbero fatto l'amore tutta la notte, e lei si sarebbe sentita amata. 
Non sarebbe più stata sola, non si sarebbe più dovuta guardare le spalle. 
E così Helen ricominciava a piangere, perché oltre a sentire la mancanza di chi non c'era, sentiva ormai anche la mancanza di chi non c'era mai stato. 
E non si capiva, Helen. 
E si chiedeva perché mai qualcuno avrebbe dovuto amare proprio lei, che non s'amava nemmeno da sola. 
Perché Helen non lo capiva  ancora che lei, proprio lei,  era in fondo così facile da amare. 

 
Dopo un ultimo singhiozzo residuo di quella notte spossante, Helen raddrizzò la testa davanti allo specchio ed iniziò a coprire quelle occhiaie scure. 
Lei ce l'avrebbe fatta, come ogni altra volta. 
Si stava rialzando, e si sentiva spezzata, ma sarebbe andata avanti. 
Per arrivare dove, davvero non lo sapeva. 
Era forte, Helen. 
Ma non se ne rendeva conto. 

 
Quando entrò quella mattina Helen le sorrise. 
Cassie aveva paura di chiederle come stesse, ché magari voleva essere lasciata in pace. 
Allora si limitò a stringerle per un attimo la mano, e sorriderle quando alzò gli occhi su di lei. 
Helen era distante quella mattina, ma decise che non si sarebbe lasciata spaventare. 
Cassie decise che non se ne sarebbe andata. 
Sarebbe rimasta, ed avrebbe scelto sempre lei. Con il suo far sempre tardi ed i suoi caratteristici grugniti delle otto meno cinque, avrebbe scelto sempre lei senza cambiarla con nessuno. 
L'avrebbe scelta in mezzo a decine di altre persone, perchè le voleva bene, e non l'avrebbe abbandonata.
Non l'avrebbe lasciata andare.

Cosa senti, Hel? Puoi dirmelo, che non me  ne vado 
Helen posò la testa sulla sua spalla, e sospirò.





Note
La versione che leggete è leggermente diversa da quella che avevo pubblicato in un primo momento, c'erano dei passaggi che a distanza di anni ancora non mi convincevano e alla fine non ho resistito, ho dovuto aggiustarla.
​Spero vi piaccia (:
 

  
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