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Autore: Calimon    02/06/2014    3 recensioni
Si dice che anche il semplice battito d'ali di una farfalla possa causare un uragano.
Tratto dal secondo capitolo:
Meredith si rese conto con orrore che il suo Karma faceva ancora più schifo di quanto pensasse.
Le opzioni erano due: o nella vita precedente era stata l'equivalente umano del meteorite che sterminò i dinosauri, oppure Dio, o chi per lui, aveva un becero senso dell'umorismo. [...] Per quanto aveva aspettato quel momento? Quanto aveva desiderato di poter parlare con loro e con Tomo? Aveva immaginato almeno quindici scenari diversi, tutti molto improbabili, di come sarebbero potute andare le cose, ma nemmeno nelle sue fantasie più assurde sarebbe mai riuscita a pensare ad un evento simile.
Era stata investita dai fratelli Leto, e ci aveva quasi lasciato le penne, per giunta.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Where did you go?
Where did you go?
Where did you go...?

Meredith aprì gli occhi, confusa. 
Sopra di lei penzolava un triangolo metallico. La prima cosa che la colpì e che le diede un indizio su dove si trovasse fu il forte odore di disinfettante; ma a toglierle ogni dubbio sul fatto che effettivamente fosse in ospedale furono i dolori che sentiva in quasi tutto il corpo.
Tastò il muro accanto a lei e, vicino all'interruttore della luce, trovò quello per chiamare un infermiere; non erano passati nemmeno dieci secondi da quando lo aveva premuto che una ragazza entrò in camera sua.
«Dove mi trovo?» domandò rendendosi conto con orrore che la sua voce sembrava quella di un vecchietto in punto di morte. Già, un vecchietto, perché oltre ad essere tremolante, suonava stranamente baritonale.
A quella domanda la giovane infermiera spalancò gli occhi, evidentemente preoccupata «Lei si ricorda chi è e cosa le è accaduto?» domandò avvicinandosi al suo letto.
«Si, certo. Mi chiamo Meredith Edison, ho 26 anni, e l'ultima cosa che ricordo è che, dopo essere uscita dal MoMa, una macchina ha sbandato venendo verso di me. A quanto pare mi ha investita, anche se non riesco a ricordare il momento dell'incidente.»
Il viso della ragazza si fece più rilassato, probabilmente sospettava un'amnesia. Era giovane e molto carina, con un viso dolce e due grandi occhi azzurri messi ancor più in risalto dal camice del medesimo colore; la lunga coda di cavallo bionda e le gambe lunghe contribuivano a farla sembrare più una modella che un'infermiera e Meredith si sentì improvvisamente a disagio di fronte ad una ragazza così bella.
Si diede mentalmente della stupida per quello che stava pensando e si chiese quanto dovesse essere insicura per pensare a cose del genere in una situazione come quella.
«E' comprensibile» disse lei con voce calma «Molte persone che hanno avuto un incidente tendono a dimenticare il momento dell'impatto.»
Meredith parve accorgersi solamente in quel momento che la sua gamba destra le sembrava più gonfia e pesante del normale e quando fece per alzare il lenzuolo notò che anche il suo braccio destro era quasi completamente ingessato. 
«Cosa mi è successo?» domandò indicando con la mano sinistra, libera da fasciature, la gamba e il braccio.
«Ha la tibia destra fratturata, due costole incrinate, un leggero trauma cranico e una lussazione del gomito destro. Per quest'ultima è stato necessario portarla in sala operatoria e anestetizzarla, quindi, se dovesse sentirsi intorpidita è del tutto normale.»
Si sentì girare la testa, e non era certa che fosse una conseguenza dell'anestesia. L'infermiera aveva snocciolato una serie di traumi più lunga di tutti quelli che avesse mai riportato nella sua intera vita. 
Si portò l'unica mano libera alla fronte e in quel momento il suo cuore saltò un battito: un enorme cerotto ne occupava buona parte.
«Abbiamo dovuto metterle dei punti, aveva una ferita piuttosto profonda.»
Meredith cominciò a tremare mentre la vista le si offuscava a causa delle lacrime che lottavano per rotolarle sulle guance; cercò di trattenerle, ma il tentativo fu fallimentare.
«Non si preoccupi» le disse prontamente l'infermiera «Il Dottor Andrews è molto bravo, vedrà che non si noterà quasi nulla di tutto questo quando sarà guarita» le sorrise dolcemente e lei si sentì come una bambina.
«Mi scusi, immagino che nemmeno i bambini reagiscano così. Credo che sia colpa dello spavento...» inspirò profondamente dalla bocca un paio di volte, cercando di riprendere il controllo delle sue emozioni. «Non mi ha ancora detto in quale ospedale mi trovo...» le fece notare.
«Si trova al Presbyterian. La terremo qui in osservazione alcuni giorni e poi sarà libera di tornare a casa» i modi di fare materni e rassicuranti dell’infermiera le fecero saltare alla mente un dettaglio importante.
«Avete chiamato qualcuno dopo l’incidente?» domandò entrando nel panico di nuovo
«Abbiamo provato a chiamare sua madre, ma non siamo riusciti a metterci in contatto con lei» 
«Bene. Allora ascolti» cercò di leggere il nome dell’infermiera sul suo cartellino identificativo ma la distanza glielo impedì «Come si chiama?» si arrese dopo averlo osservato per svariati secondi con gli occhi socchiusi 
«Mi chiamo Beatrice» rispose lei sorridendole 
«Che bel nome!» si lasciò sfuggire sovrappensiero, poi riprese il filo del discorso «Dicevo, ascolti Beatrice: è molto importante che non proviate più a contattare mia madre.»
«Ma avrà bisogno di una mano quando tornerà a casa…» 
«Me la caverò in qualche modo, però, dico davvero, non cercate più di chiamarla. Ora sono sveglia, sapete che mi ricordo chi sono e cosa è successo e non c’è alcun motivo per allarmarla, dico davvero.»
Beatrice sembrò perplessa e combattuta sul da farsi per qualche secondo, poi le sorrise nuovamente e dichiarò che avrebbero fatto come desiderava.

***
Meredith riaprì gli occhi, rendendosi conto di essersi addormentata nel bel mezzo della conversazione con la giovane infermiera, probabilmente a causa dell’anestetico.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma sicuramente non era più lo stesso giorno dell’incidente, dal momento che fuori dalle finestre il sole splendeva alto nel cielo e lei, a meno che non fosse più stordita di quanto pensasse, ricordava di essere stata investita nel tardo pomeriggio.
Il dolore agli arti si era fatto decisamente più acuto e la testa le pulsava; aveva come l’impressione che un picchio impazzito le tesse perforando la tempia.
«Buongiorno Miss Edison!» La voce del dottore appena entrato in camera sua fu come una lama incandescente che le si andò a conficcare nella testa, uccidendo anche il povero picchio.
«Sono il Dottor Andrews, sono stato io ad occuparmi di lei ieri, come si sente?»
«Pronta per una maratona!» provò a scherzare, attaccandosi con una mano al triangolo metallico che le penzolava sopra la testa, cercando di tirarsi un po’ su nel letto. Pessima mossa. Sentì una forte fitta al busto e alla gamba ingessata. «Ma credo che per oggi farò la pigra e resterò a poltrire a letto» aggiunse tentando di trasformare la smorfia di dolore, che era certa di avere stampata in faccia, in un sorriso.
«Questo è lo spirito migliore per guarire» le fece l’occhiolino mentre si avvicinava al letto. Il Dottor Andrews era un uomo di mezza età che assomigliava in tutto e per tutto allo stereotipo dei medici che Meredith aveva visto nei telefilm. «Mi faccia dare un’occhiata alla ferita».
L’unico problema di quel dottore, che sembrava tanto un affabile zio, era che portava gli occhiali e quando tolse il cerotto dalla fronte di Meredith, lei vide il riflesso sulle lenti della sua ferita. Pensò che doveva essere lunga almeno dieci centimetri e vederla, gonfia e ricucita, le fece quasi venire i conati di vomito.
Come aveva potuto pensare di fare il medico? Certo, quando era convinta di quest’idea aveva appena sei anni e la cosa più vicina al corpo umano che avesse mai visto era la sua bambola Cabbage Patch, e quella non sanguinava.
Il Dottor Andrews si congedò pochi minuti dopo con la promessa che, se la sua ferita avesse continuato a guarire così bene e il suo gomito non avesse dato problemi, sarebbe stata dimessa entro cinque giorni.
Cinque giorni in cui sarebbe rimasta a fissare il soffitto, probabilmente, con il trucco sfatto del giorno prima e una veste che le lasciava scoperto il sedere.
Si sentì un’ingrata per quei pensieri, infondo era ancora viva e senza alcun danno che il tempo non potesse riparare.
Le vennero i brividi pensando a quello che sarebbe potuto succederle se le cose non fossero andare in quel modo; modo che per giunta il suo cervello si rifiutava di ricordare.

***
Fortunatamente quel pomeriggio, a farla uscire dal circolo vizioso di pensieri negativi e pessimisti che la stava inghiottendo, arrivò Agness, una sua collega, nonché amica.
«Cosa non si fa pur di prendersi un po’ di riposo, eh?» le chiese scherzando quando entrò nella piccola camera d’ospedale; il suo viso tradiva, nonostante il sorriso, molta preoccupazione.
«Senza contare che questa stanza è più grande del mio appartamento» rispose prontamente Meredith.
Agness era una ragazza solare, piena di energie e coinvolgente, non c’era da stupirsi che fosse stata assunta al MoMa al primo colpo. Il suo sguardo però aveva qualcosa di diverso quel giorno «Sono morta di paura quando ho saputo dell’incidente…» ammise sedendosi sulla sedia vicina al suo letto.
«Come lo hai saputo?» domandò sperando che l’ospedale non avesse chiamato tutti i numeri salvati nella rubrica del suo iphone finché non avesse trovato qualcuno da avvertire e spaventare.
«Hai presente Daniel? Quello nuovo che lavora al desk informazioni all’entrata?» 
Meredith annuì, cercando di issarsi sui cuscini nel modo che le costasse meno fatica e dolore possibile. Altro passo falso. Oltretutto il picchio che credeva morto doveva essere resuscitate e si stava vendicando battendo ancor più insistentemente sulla sua tempia; forse stava scavando una galleria.
«Ecco, lui ha visto quasi tutto ed ha chiamato l’ambulanza. Quando è arrivata i medici hanno cercato nella tua borsa i documenti e lui ha capito che eri tu. Dio, Mere, pensavamo che saresti morta!» 
Agness sospirò profondamente e dai suoi occhioni scuri cominciarono a scendere lentamente delle lacrime. 
«Ag…Agness, per favore, calmati.» le parlò con tono conciliante cercando di allungare la mano sinistra verso di lei «Sono qui, sto bene, sono solo un po’ ammaccata…» le sorrise
«Ora lo so…ma prima…» inspirò profondamente cercando di smettere di singhiozzare «Hanno detto che eri ridotta davvero male»
Meredith sentì un brivido percorrerle la schiena a quelle parole ma cercò di cacciare via i pensieri negativi che stavano tornando a invaderle la mente. 
«Peggio di quella volta al The Doodle?» la guardò con un’espressione divertita, tentando di farla calmare «Ag, io non credo proprio. Ti ricordo che ero ubriaca, sui tacchi, ed ho quasi vomitato addosso a quel tizio carino…Per quanto fossi ridotta male ieri, niente potrà essere peggio di quella serata!»
Agness sorrise.
Quella sera era stata un delirio. Erano uscite con altre amiche per un aperitivo, che Agness aveva definito "l’unica vera terapia utile dopo una rottura". Meredith aveva appena rotto con il ragazzo con cui stava da quattro anni, colui che aveva sempre definito “l’amore della sua vita”, quello che diceva di amare più di ogni altra cosa, colui con il quale avrebbe voluto costruire una famiglia e con il quale aveva sempre superato ogni ostacolo. Questo, almeno, nel suo mondo ideale fatto di fatine e unicorni, che la realtà aveva provveduto a distruggere brutalmente. Un cocktail tirò l’altro e, a stomaco quasi vuoto, la sbronza arrivò subito, e fu micidiale. Ricordava solo alcune imbarazzanti scene di quella sera che avrebbe voluto far uscire dal suo cervellino per poi chiudere in una scatola che successivamente avrebbe bruciato e, le cui ceneri, chiuse in un’altra scatola, sarebbero state a loro volta nuovamente bruciate e poi sparse nel lontano Circolo Polare Artico.
Passarono il tempo ricordando le loro uscite più deliranti con la promessa di farne un’altra non appena Meredith si fosse ripresa. Agness se ne andò quando l’orario delle visite stava per terminare dicendole che sarebbe tornata il giorno successivo per portarle qualcosa da leggere e qualche cambio di biancheria.
Meredith stava fissando il panorama fuori dalla finestra quando la voce di un’infermiera la fece letteralmente sobbalzare, con conseguente serie di parolacce gridate mentalmente a causa del dolore che si era provocata.
«Buonasera Miss Edison!»
«Buonasera Beatrice!» salutò con un lieve sorriso la giovane infermiera conosciuta il giorno prima.
«L’orario delle visite è quasi terminato ma ci sono delle persone che vorrebbero vederla…» notò che Beatrice si stava mordendo il labbro inferiore e sembrava a disagio
«Chi sarebbero queste persone?» domandò cercando di sbirciare fuori dalla porta, invano.
«Sono…ecco, sono coloro che l’hanno investita Miss Edison. Cosa devo fare? Li faccio entrare?»
Meredith rimase raggelata da quella notizia e sentì salirle in corpo un’ondata di rabbia che improvvisamente sentì il bisogno di riversare sui responsabili dell’accaduto. Era colpa di quegli imbecilli se lei era ridotta come Gohan dopo il combattimento contro Cell.
«Erano qui anche ieri, ma ho pensato che non fosse il caso…» 
«Li faccia entrare» disse risoluta.
Mentre Beatrice usciva si sistemò meglio sui cuscini, e si ostinò a guardare fuori dalla finestra quando, dopo aver sentito bussare, rispose di entrare.
«Meredith?»
Quando si voltò per poco non le venne un infarto, e ringraziò di non essere stata attaccata ad una di quelle macchine che misurano i battiti cardiaci, altrimenti chiunque si sarebbe accorto di quanto si trovasse a disagio e in imbarazzo.
«Quindi tu sei l’idiota che mi ha investita» la sua voce suonò risoluta e lei si compiacque di come era riuscita a rispondere. 
Mentre quegli occhi azzurri come il ghiaccio la fissavano, Meredith pensò che in qualche vita passata doveva essere stata una specie di mostro che uccideva unicorni e coniglietti, perché il suo Karma faceva davvero schifo.


{ Calimon says:
Eccomi qui, a pubblicare questa nuova fanfiction, la prima che scrivo con protagonosti i 30STM :)
Di preciso non so cosa dire, sono sempre super impacciata quando si tratta di scrivere delle presentazioni, per questo ho fatto parlare prima la storia,ma se sietearrivate fino qui, beh, vuol dire che siete molto pazienti e coraggiose!
Questa storia mi è venuta in mente mentre preparavo un esame di storia dell'arte e probabilmente è stata il frutto della fusione del mio cervello causata dal troppo studio XD
Fatto sta che ho voluto provare a pubblicarla anche per sfidare me stessa: per una volta voglio terminare qualcosa che non sia una OS.
A meno che eventi catastrofici non me lo impediscano pubblicherò ogni lunedì un nuovo capitolo; fatemi sapere cosa ne pensate, se è il caso che di continuare a scrivere o se è meglio che mi dia all'ippica XD 
In ogni caso vi ringrazio nuovamente se siete arrivate fino qui :3
Xoxo
Ps: Torino si avvicina asdfgh *^*
   
 
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