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Autore: Clockwise    02/06/2014    3 recensioni
La maschera di un attore è così fragile, e io ho tanta paura del sipario che divide i due mondi, il palcoscenico e la platea, e uccide ogni volta quell’attore che, giù dal palco, non è niente, è solo un uomo con l’anima mutilata – perché un pezzo si incastra sempre sulle assi del palco.
Di teatro, attori e Shakespeare.
Prima classificata a pari merito al "Shakespearian quotations contest" di _juliet sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La ballata del bardo di Southwark
 
 
Perché la verità è la verità, sempre la stessa, fino all’infinito.
 
 
 
I, i
[Entra Tate.]
 
C’è silenzio, si sentono solo i nostri respiri e il battito dei nostri cuori. Siamo soltanto noi, seduti a gambe incrociate sul palco di legno, nella notte nera che si scorge dal tetto aperto. Ho voglia di saltare su e recitare, diventare un re tragico, un eroe senza tempo, un giullare saggio, uno spirito dell’aria, e so che anche Celesta lo vuole, ma non ho il coraggio. C’è silenzio, il silenzio di tutte le parole che potrebbero esserci e non ci sono, silenzio di una musica che non esiste, ma che potrebbe nascondersi ovunque; il silenzio di prima che si alzi il sipario, quando il mondo attende come un cacciatore paziente che la sua preda esca dalla grotta; il silenzio del primo giorno del mondo, quando ancora tutto doveva iniziare. Come rovinare un silenzio del genere con stupide parole? La verità si nasconde in questo silenzio.
 
 
I, ii
[Entra Celesta.]
 
Tate era… Tate. Non aveva un cognome e la sua famiglia era l’intera Southwark. Tutti lo conoscevano, perché era il bambino di tutti, essendo il figlio di nessuno.
Probabilmente, in un paio d’anni, nessuno si ricorderà di lui, se non come di quell’attore strano, con il pallino di Shakespeare, o di quella sua uscita di scena spettacolare. Probabilmente diventerà solo una storia interessante da raccontare agli amici al pub o ai nipoti. Una storia, niente più.
Io, però, ho avuto la fortuna di conoscerlo e di recitare, per un po’, accanto a lui.
 
Lo conobbi per sbaglio. Sbaglio suo, che non sarebbe dovuto essere lì. Va bene, erano le undici e tre quarti di sera, anch’io ero un pochino oltre il mio orario, ma almeno io ci recitavo, lì al Globe Theatre.
«Chi sei?»
«Tate.»
Aveva una voce musicale, chiara e decisa. Si rialzò e mise a posto le stoffe su cui era inciampato, rivelando il suo nascondiglio dietro la balconata. Si fece avanti senza tentennamenti.
«Mi piace come reciti. Sei brava.»
«Grazie.»
Qualcosa in lui mi metteva a disagio, ma non sapevo spiegarmi.
«Non dovresti essere qui.»
«Lo so. Neanche tu.»
Si avvicinò al palcoscenico e vi salì spingendo sulle braccia. Raddrizzò la schiena e si rivolse a me, piegando il capo leggermente di lato.
«Se noi ombre vi abbiamo offeso,
per poterci dare il perdono
fate conto di aver dormito,
mentre queste visioni apparivano
«Chi sei?» sussurrai, aggrottando le sopracciglia. Lui andò avanti col suo monologo, muovendosi per il palco con il passo felpato di chi cammina nella foresta.
«Sei uno dei tecnici? Costumisti?»
Lui scosse piano la testa.
«Uno di quelli che puliscono il teatro?»
Non si mosse, quindi lo presi per un sì. Continuò a recitare e, arrivato agli ultimi versi, tornò a me e tese le mani.
«Datemi la mano e siamo amici;
e Puck pagherà l’ammenda
Quasi senza riflettere, posai le mani sulle sue. Lui sorrise.
«Tate. So che non è una gran risposta, è solo un nome, ma è tutto ciò che sono. Tate.»
Erano gli ultimi giorni di aprile, poco prima dell’apertura della stagione estiva del Globe. Da quel momento, non me ne separai più.
 
 
I, iii
 
L’unica cosa che si sapeva dei suoi genitori era che erano amanti dell’arte, tanto da averlo abbandonato dentro Tate Modern avvolto in fasce. O forse se lo erano dimenticato; le ipotesi furono tante e nessuno seppe mai com’era andata. E in fondo, a nessuno importava più di tanto.
Uno dei guardiani notturni rischiò di inciampare in quel fagotto, se lo prese, lo chiamò Tate e lo portò a casa, dove viveva solo con il suo cane Puck e qualche libro di poesie.
E Tate crebbe così, alla giornata, per le vie strette di Southwark, correndo con le ginocchia sbucciate e le guance rosse, davanti a una masnada di ragazzini. La scuola… Beh, il suo nome non compariva sul registro di alcun notaio – teoricamente Tate non esisteva – quindi non è che si potesse portarlo a scuola come se niente fosse. Imparò a leggere e scrivere da Ed, il guardiano che l’aveva accolto, sui suoi libri di poesie, mentre la signora Elga, con la pescheria, gli insegnò la matematica, la signorina Dick, in biblioteca, un po’ di storia e geografia e il signor Finnegan, al pub accanto al Globe, tutto il resto, fosse letteratura, francese, astronomia o l’arte della buona cucina.
 
«Non hai una casa, una famiglia…?»
«Questa è la mia casa, la mia famiglia» rispose, allargando le braccia come a voler abbracciare tutta Londra.
«E poi la stanza al piano di sopra a casa di Ed, ma quella è un’altra storia.»
 
 
I, iv
 
Sbuffai e mi portai una mano al fianco, riprendendomi dallo spavento.
«Pensi di volerla smettere prima o poi?»
«No» sorrise, saltando su e attraversando la platea per poi issarsi sul palco, come suo solito. Mi prese il copione dalle mani e iniziò a sfogliarlo.
«Questa roba fa schifo! Perché reciti una cosa simile?» domandò, con una smorfia.
«Perché mi pagano» replicai, prendendogli il plico di mano.
«Non capisco. Hai recitato qui al Globe, sei stata Ofelia, Antigone, perché adesso fai questa robaccia moderna? È davvero pessima, banale e molto al di sotto delle tue possibilità, insomma…»
«Vuoi smetterla? A volte non puoi sceglierti il lavoro, ma l’affitto devi pagarlo!»
Mi pentii subito di aver alzato la voce, quando lo vidi abbassare gli occhi. Si sedette al bordo del palco, con i piedi penzoloni.
«Ha senso fare qualcosa che non vuoi fare?»
«Tate, qui non si tratta di volere o non volere» dissi, addolcita, avvicinandomi a lui. Sembrava addolorato, pensieroso, triste. Mi odiai per averlo gettato in quello stato.
«È una questione di… tirare avanti. Non posso permettermi di rifiutare una parte, non a questo stadio della mia carriera, e non è detto che vada male. Se recito bene, nonostante l’opera terribile, potrei comunque venire notata e ingaggiata per qualcosa di meglio. Devo solo recitare.»
Mi sedetti accanto a lui e cercai il suo sguardo, ma il suo viso era rivolto verso il cielo. Era la caratteristica più bella del Globe, l’aver mantenuto l’originaria struttura elisabettiana con il tetto aperto e solo i posti sulle balconate e il palcoscenico coperti; si poteva recitare solo d’estate, ma ne valeva la pena.
«Carriera» sbuffò fra i denti. «Se ti piace recitare non dovresti farlo per carriera e soldi, ma per il piacere di farlo.»
«Oh, certo. E posso dormire sotto i ponti, che dici?» replicai, tentando di misurare il sarcasmo.
«No, tu non…» disse, sollevando le mani, frustrato. Lo interruppi.
«Forse nel tuo mondo fantastico va bene intrufolarsi a teatro e vedersi tutte le opere che ti pare e non fare niente il resto del giorno, ma io…»
«Stai dicendo che sono un fallito?»
La sua voce bassa mi spezzò il cuore. Mi resi conto di avergli sputato addosso veleno che non si meritava. Nessuno più di lui desiderava trovarsi un buon lavoro, vivere come si deve, ma era difficile – non aveva frequentato nessuna scuola, non aveva neanche una carta d’identità.
«Scusami, non volevo…»
«Sai, a volte faccio davvero fatica a capire cosa vuoi veramente dire. Non so mai se stai fingendo o no.»
Le sue parole di vendetta colpirono a fondo, ma non lo biasimai. Me lo meritavo. 
«Sono un’attrice
«Non solo sul palcoscenico, vero?»
Mi guardò con due occhi vagamente arrabbiati, delusi ma, in fondo, amaramente rassegnati. Gettai le armi.
«Tutto il mondo è un palcoscenico» risposi, cercando di farlo sorridere; sapevo quanto amasse Shakespeare. Avevo un groppo in gola. Lui era così vicino, sembrava volesse mettermi davanti a uno specchio, distruggere tutte le bugie. Cercai di sorridere, pregandolo di non indagare, di lasciare le comode finzioni lì dov’erano.
Scosse la testa, desolato.
«Così non va, Celesta.»
Deglutii, seguendolo con gli occhi mentre saltava giù e si posizionava al centro della platea, il viso al cielo.
«Dovremmo… Recitare quell’unica parte che è fatta per noi. La nostra opera, e basta. Non cambiare continuamente, rimanere… noi stessi, per quanto possibile. Mi capisci?» chiese, una nota di disperazione nella voce che si spegneva. Io annuii piano, senza quasi rendermene conto. Lui lasciò andare un sorrisino mesto e tese una mano verso di me. Lo raggiunsi gli strinsi la mano e insieme alzammo lo sguardo verso il cielo.
A casa mia, nel paese vicino Amsterdam in cui sono cresciuta, le stelle erano tantissime. A Londra, invece, non se ne vedono mai, è sempre nero il cielo.
Quella notte, però, ce n’erano ben due.
Tate chiuse gli occhi sorridendo.
 
 
II, i
 
Di solito ero io che mi intrufolavo la notte nel teatro, usando una porta secondaria fuori uso, e recitavo sotto il cielo, e poi Tate sbucava fuori da chissà dove e saliva sul palco. Mi aiutava a provare delle scene, mi ascoltava, parlavamo. Restavamo lì fin quasi all’alba, quando cascavamo entrambi dal sonno.
Quella notte di settembre, invece, piovve.
 
Ci accampammo sul palcoscenico, guardando la pioggia che cadeva.
«L'estate sta finendo» mormorai, stringendomi le ginocchia al petto. Tate annuì, pensieroso. 
«Fra poco il Globe chiuderà per l’inverno» disse. 
«È domani la prima di quello spettacolo terribile, vero?» domandò. Io annuii. Avrei voluto provare ancora, ma quella pioggia mi aveva tolto le forze. Continuammo a parlare piano ancora un po’, finché le palpebre non si fecero pesanti. Avremmo dovuto alzarci e andarcene, ma c'era quella pioggia di fine estate sul mondo, e noi stavamo così bene sulla nostra piccola isola di assi inchiodate. Ci addormentammo lì, avvolti dalla magia dei bambini che si nascondono su una casa sull'albero.
Mi svegliai poco dopo l'alba, colpita da un raggio di sole sul viso. Mi sollevai senza far rumore e socchiusi gli occhi, ascoltando con attenzione la voce che proveniva dalla platea. 
«… E dirsi così
con un sonno che noi mettiamo fine
al crepacuore ed alle mille ingiurie
naturali, retaggio della carne!»
Tate recitava piano, volgendomi le spalle. Gattonai in silenzio fino al bordo del palco, catturata dalla sua voce, i suoi passi. Era Amleto, senza dubbio. Ogni parola, ogni gesto, ogni movimento delle spalle, lì, sotto quel cielo bianco, gridava il nome del principe di Danimarca. Come vinto dal peso delle parole che recitava, si accasciò a terra, sedendosi.
«La coscienza, così, fa tutti vili,
così il colore della decisione
al riflesso del dubbio si corrompe
e le imprese più alte e che più contano
si disviano, perdono anche il nome
dell’azione
Abbassò il capo, tornando ad essere Tate. Avevo gli occhi lucidi.
«Non avevi mai recitato così.»
Lui si volse di scatto, colto di sorpresa.
«Non volevo svegliarti, scusa.»
«Non mi hai svegliata. Sei bravissimo, Tate.»
Lui si alzò e si strinse nelle spalle sorridendo, mentre veniva verso di me.
«Grazie. Anni di spettacoli visti di nascosto servono a qualcosa.»
Fece per issarsi sul palco, ma lo bloccai, cercando i suoi occhi.
«Ti faccio conoscere il produttore del mio spettacolo. Lui ti troverà di sicuro un'audizione.»
«No, grazie.»
Rimasi stupita dal suo rifiuto.
«Come no? Se reciti così, in un paio d'anni saresti all'Apollo, al Globe, gireresti il mondo. Vieni alla prima stasera, e poi...»
«No.»
Si allontanò di qualche passo.
«Non voglio recitare, fingere in ogni momento, diventare qualcun altro, morire e resuscitare ogni sera. Non voglio, non ce la faccio. Mi tengo la mia vita meschina e mi scrivo la mia storia, da solo. Recitare… è l’unica cosa che non farei mai, perché… la maschera di un attore è così fragile, e io ho tanta paura del sipario che divide i due mondi, il palcoscenico e la platea, e uccide ogni volta quell’attore che, giù dal palco, non è niente, è solo un uomo con l’anima mutilata – perché un pezzo si incastra sempre sulle assi del palco.»
Lo guardai con gli occhi spalancati di una bambina, ammutolita, chiedendomi chi avessi davanti. Era Tate, quello? O un vecchio re con la corona nella polvere? O un povero matto in cerca di verità?
«Pensavo che ti piacesse tutto questo» mormorai, non potendo fare a meno di suonare dispiaciuta e quasi delusa.
«Se mi piace? Lo amo, sono cresciuto qua dentro, nel quartiere di Shakespeare!
Dubita che le stelle siano fuoco,
dubita che il sole si muova,
dubita che la verità sia mentitrice,
ma non dubitare mai del mio amore» recitò, gli occhi accesi.
«E allora…»
Lui sorrise mestamente, costringendomi alla resa.
«Non posso. Voglio essere me stesso e basta, sempre, e nessun altro. Non chiedermelo più, Celesta.»
Abbassai il capo, scacciando quesiti che, come pioggia, si infilavano fastidiosi sotto il colletto della mente e mi spingevano a mettere in dubbio me stessa.
Tate intanto, aveva alzato il volto al cielo.
«Anche se a volte penso che il mondo sia tutta una bugia e l’unica verità stia nelle parole di un attore, perché ti fa credere che siano vere. Tutto il resto è falso. Tutto. Non c’è ordine, giustizia, regola, normalità, non ci può essere, non c’è verità. Siamo tutti ombre.»
«Mi metti i brividi, Tate.»
Alzò gli occhi su di me – occhi esaltati, grandi, famelici, vorticosi, ebbri e infinitamente malinconici. Un sorriso sghembo curvò le sue labbra.
«Perché la verità è la verità, sempre la stessa, fino all’infinito
E io, un povero fool davanti al re folle, non potevo capirlo.
Un vero sorriso illuminò il suo volto e io vidi, sotto il sole, Tate che aveva trovato sé stesso.
 
 
II, ii
 
Venne alla prima, la sera seguente, ma non gli presentai nessuno, secondo il suo desiderio; fu lui stesso, intrufolatosi dietro le quinte come sempre, grazie alla mia conoscenza, a farsi avanti, sorridere e stringere mani.
«Pensavo non volessi tutto questo» gli dissi, una volta rimasti soli nel mio camerino, mentre sedevo davanti allo specchio. I suoi occhi incontrarono il riflesso dei miei. Erano gli occhi di un uomo stanco ma risoluto nella sua scelta disperata. Gli occhi di chi ha venduto l’anima al diavolo – e non capivo perché.
«Ho un’audizione domani. Un’operetta tedesca, niente male» disse, sollevando delle carte.
«Perché, Tate?»
Lui abbassò il capo, scuotendo le spalle.
«Ed non stava bene, l’ho dovuto portare in ospedale, stamattina. Ora è tutto a posto, era un problema di pressione. Però, mi sono reso conto che non posso continuare così, devo fare qualcosa di serio, un lavoro vero, devo diventare qualcuno, altrimenti non riuscirò mai a vivere davvero. E non posso fare altro, non sono niente, non ho nemmeno un cognome. So recitare, a quanto sembra. Non ho scelta.»
Eccolo, il suo cuore riversato sul pavimento. Il Tate che conoscevo stava pian piano scivolando dalle sue labbra, mentre le spalle cedevano. Rimase qualche istante in silenzio, lo sguardo perso, finché non alzò la testa e piantò gli occhi nei miei, costringendomi a voltarmi.
«Ma non reciterò mai. Non fingerò. Io diventerò quei personaggi, soffrirò e amerò e morirò, se necessario. Niente di meno.»
Un brivido mi scese lungo la schiena e mi giunse come un grido portato dal vento – che era inevitabile.
 
 
III, i
 
La sua carriera decollò e ascese inarrestabile. In un anno aveva già recitato in tutta Londra, in cinque opere diverse. Arrivavano produttori e scenografi tutte le sere, con le loro proposte, e poi contratti con la televisione, giornali, interviste. Altri due anni, e anche il resto del mondo lo conobbe. Andavano tutti matti per lui. Recitava come nessuno mai, vinceva premi su premi, era il pupillo della critica.
Si arricchì, andò a vivere a Belgravia, comprò una bella casa ad Ed, aiutò i suoi amici di Southwark che l’avevano cresciuto. Conobbe stelle del cinema, strinse la mano alla regina, comparve su magliette, tazze e cartoline in negozi per turisti in tutta Londra.
Il mondo sembrava non stancarsene mai.
Io continuavo a seguirlo, quando ci riuscivo. Recitammo insieme varie volte. Ma se il mondo ammirava un attore straordinario, io vedevo il relitto di un uomo.
Non sorrideva più davvero, non guardava più nessuno davvero. Era distante, lontano, più smarrito che mai.
 
«… E il sole tramonterà sulle nostre tombe» concluse con voce grave, abbassando il capo. Lo risollevò qualche istante dopo, cercandomi. Io annuii.
«Perfetto, proprio come dev’essere. Grande, Tate» dissi, salendo sul palco dov’era lui. Fece un sorriso mesto per ringraziarmi, poi provvide a togliersi il pesante mantello e a poggiarlo con cura su una sedia. Lo vidi alzare lo sguardo verso l’alto e lo seguii distrattamente, aspettandomi, come lui, di incontrare il cielo nero. Ma non eravamo più al Globe, chiuso per l’inverno, e sopra di noi c’era solo il soffitto di un altro teatro.
Lo sentii sospirare.
«Cosa c’è?» chiesi, avvicinandomi. Lui si strinse nelle spalle.
«Non… a volte sono così stanco. Sai l’intervista dell’altro giorno? L’ho letta su un giornale, ed era completamente diversa! Avevano ingigantito tutto quanto e…»
«Denunciali!»
«Cosa otterrei?» sbuffò con un sorriso amaro, infilando le mani in tasca. «Sai quella ragazza con i capelli rossi che era alla prima, ieri? Che ha parlato con me tutta la sera?» Annuii.
«Dawson-»
«Quel ragazzo che recitava con te, ieri, che faceva Paride?»
«Lui. L’ha incontrata oggi. Ha detto che non ha fatto altro che parlare male di me, dire quanto fossi strano e noioso e petulante. Era rimasta con me ieri solo perché le faceva comodo farsi vedere con un attore famoso, per venire notata da qualche giornalista.»
Mi avvicinai ancora e gli strinsi un braccio.
«Dimenticala.»
«Sai, mi sembra di cominciare adesso a conoscere l’ipocrisia, la falsità, l’invidia. Dov’erano prima? Io non… Solo adesso mi rendo conto che vivevo in un’illusione, in un mondo tutto mio.»
Gli occhi scuri che avevo visto impreziosirsi di mille emozioni erano vuoti e persi. Quanto mi faceva male vederlo così.
Mi avvicinai ancora e lo baciai perché speravo di ritrovarlo, perché lo sentivo mio dovere, perché mi sembrava la cosa giusta da fare, la scena seguente, e perché lo volevo; lui ricambiò il bacio con eroica rassegnazione, come se avesse già letto il copione, ma poi affondò la mano nei miei capelli, mi strinse a sé possessivo, come se io fossi il suo unico appiglio alla terra. Si staccò e appoggiò la fronte sulla mia, gli occhi serrati.
 
Ma era troppo tardi, e nemmeno l’amore poté ridarmi Tate: aveva sacrificato sé stesso per Re Lear e Amleto e io, che avevo causato tutto, non potevo farci niente. A Tate di sé stesso, adesso, era rimasto solo il nome.
 
 
III, ii
 
Povera Celesta – tradirò lei per non tradire me stesso, ma non ho altra scelta. Non si può più andare avanti così. Io voglio la verità.
E si avvicina l’ultima scena.
 
A mia difesa posso dire solo che ho fatto quanto potevo per evitarlo. L’ho amato come non amerò nessuno.
Ma io amavo Tate, e Tate non esisteva più.
 
«Celesta.»
 
Nessuno se ne capacitava. Il mondo visse nella confusione e l’incredulità per giorni. Nessuno voleva crederci.
 
«Sei l’unica cosa bella che mi sia rimasta.»
Le accarezzo i capelli con quanta più dolcezza posso, poco prima di salire sul palco.
«Rimani così come sei, sempre. Non recitare più.»
 
Ma, in fondo, cos’è la verità?
 
 
Al Globe Theatre mettevano in scena la sua prima opera – tre atti, cinque attori, fra cui lui. L’aveva scritta di notte, quando pensava che io dormissi. Non me ne aveva mai parlato né fatto leggere nulla, solo qualche vago accenno di tanto in tanto. Il bardo di Southwark, l’aveva intitolata.
Era la sera della prima – e dell’ultima, ma chi poteva saperlo?
 
 
Mi guardava muto gridando aiuto, pietà, perdono, ma io lo baciai e gli sorrisi.
«Fagli vedere chi sei.»
Chi sei. Gli occhi si armarono di decisione e salì sul palco. Dalle quinte, lo vidi incantare la platea, orchestrare l’opera alla perfezione. Ero così orgogliosa di lui.
Non impiegai molto a capire che era la sua storia quella sul palco: un povero matto a cui nessuno dava ascolto, che tutti volevano cambiare. Il matto diventava un commediografo sotto pseudonimo; tutti davano ascolto ai suoi versi recitati. Il matto capiva che non c’era speranza né ordine e si congedava dal mondo sul palcoscenico.
 
 
III, iii
 
Il teatro. È sempre stato lui, il sole della mia vita. La prima volta che sono salito su un palcoscenico avevo sei anni, al Globe. Ero un soldo di cacio su un palco di legno, davanti a una platea vuota – ma ero re, principe, genio, eroe. Ero me stesso, lì su quel palco.
I miei piedi sembrano fatti per quelle assi di legno, la mia voce per risuonare fra le gallerie.
Celesta mi sorride. Spero capisca, e perdoni. Ma non si può fare altrimenti – giustizia poetica, capisci cara?, quel finale ineluttabile, che non può essere diverso. Così deve andare, così ho scritto. È la mia storia, no?
Appartengo al teatro, ma non sono un attore. Sono Tate, e recito quando cammino sulla terra.
E non voglio recitare. Voglio la verità.
 
 
Panico, confusione, urla, luci troppo forti.
Tate non recitava. Mai.
[Exeunt.]
 
 
Finis.








Citazioni, nell'ordine, da Measure for Measure, A Midsummer Night's Dream, As You Like It, Hamlet. 
  
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