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Autore: Tomi Dark angel    03/06/2014    5 recensioni
Mi chiamo John Watson e vivo a Londra. È dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di piogge torrenziali. Si trova esattamente sul meridiano della miseria. La mia città, in una parola è… solida. (...) L’unico problema sono le infestazioni: in alcuni posti hanno topi o zanzare. Noi invece abbiamo… i draghi.
Johnlock
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Ci sono momenti nella vita in cui il mondo perde ogni colore. Sfuma con lentezza, sbiadisce, perde le sue luci finché di esse non resta che ombra scura, mefitica, soffocante. Gli occhi cercano di abituarsi al buio, la gente si arrampica disperata verso il più piccolo brandello di colore, di cambiamento luminoso che sa di vita laddove la vita non è neanche contemplata.
Lentamente però, anche la gente perde i suoi colori, le sue emozioni, i suoi respiri volenterosi. Poco a poco ci si accascia, si diventa marionette dai fili recisi, come recisa sarà ogni volontà di andare avanti, di vivere ancora.
Una volta, quando era piccolo, John vide un gatto piangere accanto ai miseri resti della sua compagna, rimasta schiacciata da un’auto capovolta. L’unico sopravvissuto guardava, allungava le zampe per toccare il pelo freddo di un corpo svuotato, che non sapeva più reagire. John ricorda ancora i miagolii disperati del gatto rimasto in vita, ricorda i suoi occhi quasi umani, lucidi di lacrime vive, spezzate di dolore. Allora, quel gatto pregava, chiedeva pietà. Non per se stesso, ma per la compagna fatta a pezzi dal mondo, massacrata da una guerra senza volto. Nei giorni che seguirono, John trovò quello stesso gatto sopravvissuto ancora lì: semplicemente, si lasciò morire di stenti, ma mai abbandonò il corpo martoriato di una compagna di vita, di emozioni, di respiri non più utili.
Allora John non capiva il peso di quelle lacrime, il senso di quei lamenti distrutti, di vita lasciata a metà. Adesso sa, capisce, piange a sua volta. Si sente spezzato, abbandonato come giocattolo rotto e ormai inutilizzabile. Si è frantumato qualcosa in lui, adesso mancano dei tasselli. Non sa che farsene dei tanti frammenti lasciati in giro dal suo animo fatto a pezzi.
Ha combattuto la più grande guerra mai partorita dal mondo, ha ucciso, salvato, lottato con unghie e denti per restare in piedi. Quanti fratelli d’arme schiacciati, arsi vivi, fatti a pezzi. John guardava, piangeva, soffriva. Eppure, nessuno di quei dolori sorpassa questo. Perché allora, la sua anima perdeva soltanto minuscoli pezzettini. Perché allora, il mondo non poteva ingrigirsi: a quel tempo, John i colori veri, vivi, non li conosceva ancora. Adesso sì, e ogni riflesso di felicità, di luce… gli è stato portato via. Ha guardato mentre una bestia assassina senz’anima trascinava giù quel pezzo di serenità così difficilmente conquistato, ha guardato mentre il suo unico e vero amore moriva.
John si rannicchia su se stesso, vomita di nuovo succhi gastrici. Non mangia da due giorni, non riesce a toccare nulla di diverso a qualche goccia d’acqua da mandar giù. Se Sherlock è morto, lui merita di vivere, di nutrirsi, di respirare liberamente? È come avere il cuore strappato a metà, e John lo sente faticare ad ogni insulso battito.
Due mani calde, di giovane donna, gli afferrano la testa e gliela mantengono. Quando è arrivata Molly? Quando è tornato a casa? Quando ha raggiunto il bagno in cui vomita adesso?
-John, devi mangiare qualcosa.- dice lei preoccupata, ma John non ascolta e continua a vomitare. Affronta i suoi mali, cade in ginocchio davanti ad ogni incubo. Forse ha le allucinazioni, perché gli pare di sentirlo, di sentire la voce morbida di Sherlock che lo chiama.
Ma lui non c’è. E John si sente sostituito a quel gatto morto di stenti, a quell’anima ormai serena che per fedeltà mai abbandonò quanto di più prezioso il mondo gli concesse allora.
Intanto, poco a poco, John Watson lascia quasi inconsapevolmente che quel corpo si deteriori. Intanto, John Watson aspetta semplicemente di morire.
 
Tic tac, tic tac. C’è un orologio, da qualche parte. Ticchetta in maniera insistente, fastidiosa, martellante. Il piccolo Sherlock non lo sopporta. Quel rumore gli impedisce di pensare, di concentrarsi. Oltretutto, esso si aggiunge soltanto al mormorio cupo dei centinaia di ricordi che bussano per uscire, che urtano le lastre sicure di ogni porta sigillata.
Dopotutto, camminare tra i ricordi, è un po’ come camminare su un sentiero di fantasmi.
Li senti mormorare, muoversi, spostare oggetti di origine ignota, ma non puoi vederli. Normalmente, non potresti.
Una serratura scatta, spezza i lucchetti sicuri che la sigillano. L’uscio si schiude proprio mentre Sherlock (ancora bambino e con addosso soltanto un lungo lenzuolo avvolto intorno al corpo magro, con ali adesso accartocciate, come qualsiasi cucciolo della sua giovane età) ci passa davanti.
Fuoriesce del fumo sottile, nebuloso, morbido di volute argentate che sinuose s’attorcigliano intorno al piccolo corpo, lo solleticano, si levano intorno a lui e poco a poco, si dispongono sulle pareti rimodellandole, dilatandole, reinventandole.
Le statue emergono dal pavimento che lentamente si tinge d’oro e cristalli preziosi, abbracciato da pareti circolari percorse da un intreccio fitto di edera sconosciuta agli umani, ma da Sherlock mai dimenticata. Ha foglie trasparenti, quasi di cristallo, e steli azzurrine, che morbide s’avvolgono tra loro, sbocciando a tratti in fiori dai petali arcobaleno.
Al centro della sala c’è una statua di marmo bianco alta almeno dieci metri, raffigurante un magnifico drago seduto compostamente, fiero d’antichità e bellezza aristocratica, con una clessidra stretta nella zampa destra, sollevata davanti al muso. Sherlock ricorda bene quella statua e il significato racchiuso in essa: le ere trascorrono e preziose vanno preservate dai draghi, figli dell’antichità e del tempo.
Preservare. Non è un significato che i draghi conoscono, ormai.
Sherlock alza lo sguardo, fissa la splendida cupola di cristalli che dall’alto di una volta così gigantesca da apparire mastodontica, rilanciano sul pavimento di pietre preziose un mare di riflessi arcobaleno, dai colori sempre in movimento, sempre in continua danza tra loro.
Lungo il bordo delle pareti corrono due scale, una per lato, che salgono a collegarsi dinanzi all’accesso al secondo piano, preannunciato da un portico sporgente, sostenuto da statue di draghi che percorrono tutto il perimetro della sala. È in cima a quella scala che sta un pendolo. Decorato in volute zaffiro e rubino, con due draghi d’argento che ne sostengono la base. Dietro il pannello di cristallo, oscilla il pendolo argentato, metallico, insistente. È quella la fonte del ticchettio che infastidisce Sherlock, è quello il portatore di secondi che scorrono, volano, avanzano implacabili verso nuove ore, nuovi giorni, nuovi anni.
Sherlock si ferma, osserva il pavimento che come madre incinta, partorisce germogli di figure fumose, che poco a poco si formano, si solidificano, acquistano volumi e colori trasparenti di fantasmi ricreati dai ricordi lontani.
Sherlock quel ballo se lo ricorda bene. L’organizzò sua madre poco prima di morire in quella che era casa loro, ancora armoniosa e germogliata da natura serena, solida, che morbida s’intrecciava con ogni banale costruzione. La casa dei cristalli, così la chiamavano.
Gli altri draghi si raddrizzano, quasi inconsapevoli d’esser poco più che meri spiriti, cominciano a danzare per la sala. Si stringono in coppie, eleganti di vesti setose, drappeggiate, con maniche larghe e strascichi morbidi. Ali, code, scaglie e corna, rilanciano ai cristalli tutto intorno nuovi riflessi da assorbire, nuovi colori da germogliare e rilasciare come diamanti sui loro volti aristocratici, negli occhi brillanti di serpenti.
Ognuno di loro appare nobile, antico, prezioso più dell’oro. Eppure, Sherlock sa che quelle sono le stesse creature che a breve si trasformeranno in assassini furiosi e senz’anima.
Li guarda danzare, volteggiare con eleganza innata, quasi senza peso, e si chiede se già allora fossero così, se già allora le loro menti si preparassero a una guerra sanguinosa. Hanno artigli, zanne, corna. Sono bestie. Eppure, danzano come dei e respirano come uomini.
Dalla folla emerge una donna affascinante dai lunghi capelli viola, il viso affilato pallido come la neve e grandi occhi verde smeraldo. Si aggrappa serena al braccio del marito, un uomo corpulento con spalle larghe e due teste separate ma identiche. Ha scaglie violette e occhi dello stesso colore. Sherlock non ha bisogno di deduzioni per capire che quelli sono in realtà i genitori di Noah, gli stessi che daranno la vita per sostenere una causa persa, uccisa insieme a una freccia scagliata da un banalissimo quanto incosciente umano.
-Nevora!- esclama la dragonessa mentre un’altra donna emerge dalla calca, danzando col marito. Se cercassero di mescolarsi tra la gente, ci riuscirebbero assai poco: visti da quella prospettiva, appaiono come diamanti gettati in mezzo alla bigiotteria.
Entrambi bellissimi come dei scesi in terra, entrambi trasudanti un’eleganza aristocratica fuori dal comune anche per i parametri dei draghi. La donna è alta e slanciata, con indosso un abito dai curiosi riflessi arcobaleno che le fascia il busto sottile di giunco aggraziato, scivolando poi sulle gambe nascoste da una gonna decorata di cristalli, preziosa come abito da sposa. Sulle spalle poggia un mantello quasi trasparente che come spirito sfiora i guanti preziosi e il collo sottile, coperto di scaglie d’oscuro arcobaleno. Le ali sono nascoste, ritirate nel corpo come qualsiasi drago piuttosto controllato sappia fare, ma la coda sguscia fuori da sotto lo strascico di seta. Le corna ad anelli brillano in cima all’acconciatura sofisticata, impreziosita di diamanti.
Al suo fianco sta un uomo dal torace ampio, con indosso una lunga veste d’argento decorata anch’essa di cristalli preziosi. Ha i capelli legati in un’elegante codino impreziosito d’edera che morbida s’avvolge intorno al collo e ai polsi lasciati scoperti dalle maniche larghissime della veste.
-Healdrea, che piacere.- dice lui con voce profonda, così simile a quella di Sherlock. tende una mano la poggia su quella squamata dell’altra dragonessa in segno di saluto. Lei sorride gentile, ripete il gesto con Nevora, poi volge lo sguardo oltre le sue spalle, verso un bambino minuscolo, con ali ancora accartocciate e incapaci di spiegarsi. Non ride come gli altri, non pare divertirsi. Sta seduto in un angolo e rivolge tutta la sua attenzione al libro che poggia in grembo. Ha uno sguardo troppo intelligente, troppo sveglio per uno della sua età. Per questo, gli altri bambini si tengono alla larga, lo fissano da lontano.
-Cresce bene, vostro figlio.- sorride Healdrea.
Nevora si volta, sorride all’inconsapevole bambino ancora immerso nella lettura.
-Sì, è vero.-
-Ma non sarà giovane per sempre.-
Nevora sospira appena, stringe forte la mano del marito che silenzioso, si allontana per sparire tra la folla.
È allora che il tempo si ferma.
I ballerini si cristallizzano, splendide statue d’abiti irrigiditi e capelli rimasti abbandonati all’abbraccio dell’aria. Ogni goccia, ogni sfaccettatura di diamante, ogni battito di ciglia si blocca, resta immutato e bloccato nel suo tempo improvvisamente immobile, come bestia che trattiene il respiro prima del balzo.
Il pendolo smette d’oscillare, blocca le lancette, pone un freno all’avanzare di quei ricordi antichi, quasi dimenticati. Eppure, qualcuno a parte il giovane Sherlock si muove ancora.
-Non dovresti essere ancora qui, tesoro.- mormora Nevora, guardandolo. Non sorride più, ma il suo sguardo resta sereno, immutato. –Questa non è la strada giusta.-
Sherlock si avvicina timoroso come bambino solleva lo sguardo, la fissa negli occhi.
-Esiste una strada?- mormora, e allora Nealdrea gli tende una mano, sfodera il suo splendido sorriso.
-C’è sempre una strada. La stai soltanto evitando, ma abbi il coraggio di affrontarla. Vagare tra i ricordi t’invecchierà soltanto, perciò guarda avanti, segui la tua via e sii fiero delle scelte che compi. Io non posso aiutarti ad aprire la porta giusta, ma qualcun altro può farlo.-
-Sherlock.-
Quella voce. Sì, Sherlock la conosce bene. È nella sua testa da mesi, riempie il Mind Palace di rinnovata solidità, lo dipinge di pace e incanto.
Un uomo avanza tra i ballerini cristallizzati. Indossa un orribile maglione, zoppica appena, ma sorride di un amore incondizionato che Sherlock non ha mai visto. Non somiglia all’amore di una mamma.
Vorrebbe ricordare il nome di quell’uomo, ricondurre a un’unica parola l’immagine di quel volto sereno, gentile. Non ci riesce. Sherlock è soltanto un bambino, e i bambini non sono bravi a ricordare.
-Sherlock.- ripete l’uomo, inginocchiandosi davanti a lui. Gli sorride ancora, scosta un ricciolo scuro che osa coprire uno degli occhi brillanti di diamante.
-Chi sei?- domanda Sherlock con voce di bambino.
-Non lo ricordi?- sorride l’altro, inclinando il capo da un lato.
No. Sherlock non lo ricorda, ma vorrebbe ricordare, vorrebbe chiamarlo per nome perché sente che quell’uomo è importante.
-Come ti chiami?-
-Questo non posso dirtelo, Sherlock. Però, posso condurti dove vuoi andare. Guidarti è il mio compito.-
Gli tende una mano, lo fissa con fare fedele, innamorato, fiducioso. È amore ciò che distende quei tratti di giovane uomo. È amore ciò che lo fa sorridere, che lo fa respirare. E quell’amore… appartiene a lui, a Sherlock.
-Andiamo, Sherlock. Ti riporto a casa.-
E Sherlock finalmente tende la mano, intreccia le dita con quelle callose dell’uomo. Soldato, medico militare. Sherlock lo deduce solo adesso. Gli ricordano qualcosa, quei dati? Forse, forse no.
Ma Sherlock riconosce quella mano, quelle dita forti, sicure. E si fida ciecamente, perché quell’uomo è un angelo, perché quell’uomo è forse la strada che Sherlock deve seguire.
-Andiamo.-
L’uomo lo tira a sé, avvolge un braccio intorno alla vita sottile di bambino e lo solleva. Appena si volta, Sherlock si scopre a fissare da vicino una porta sigillata, coperta di catenacci e chiusa a chiave. Appare sgangherata, fragile, ma abbastanza forte da contenere il mostro racchiuso al suo interno.
Non vuole aprirla, non ci riesce.
-Non voglio.- dice all’improvviso, schiacciandosi contro il torace dell’uomo. Lui sorride, rafforza la stretta su di lui e gli bacia i capelli.
-Lo so. Non vorrei nemmeno io che ti esponessi a questi ricordi, ma ne hai bisogno.-
-Ho paura. Non voglio.-
-Ma non sei solo, Sherlock.-
L’uomo flette le spalle, si fa piccolo per appoggiare il mento sulla spalla di Sherlock e guardarlo da vicino con occhi brillanti, giocosi, che tentano di confortarlo.
-Ho avuto tanta pazienza con te, sai? All’inizio mi aggredivi, appendendomi a testa in giù per quelle che sembravano ore. Poi mi giravi intorno, o addirittura mi atterravi e poi scappavi via. Eri una bestia selvatica e bellissima, una creatura tanto eterea da risultate irraggiungibile. Eppure… eppure hai saputo dimostrare un’incredibile umanità. Eri caritatevole, ti lasciavi avvicinare, proteggevi anziché distruggere. Sei sempre stato un guerriero di pace, un punto luce fisso in questa guerra. Nessuno lo vedeva, ma io… io sono riuscito a farlo. E non perché lo volessi. Io ti vidi perché tu mi concedesti di guardare. E per questo, Sherlock Holmes, ti sarò eternamente riconoscente. Per questo io ho rivisto la luce, per questo io… io ti amo.-
Click. Qualcosa scatta nel cervello di Sherlock, richiama antiche voci, antichi ricordi, antichi tocchi che non avrebbe mai pensato di racchiudere in quel palazzo di così gelida logica. C’è calore adesso, c’è sole. E soltanto una persona riesce a ricondurre quella dolcezza nel suo mondo.
-John.-
John lo guarda, sorride quasi sorpreso. Si specchia negli occhi di Sherlock perché attraverso quelle iridi riesce a sentirsi nuovo, completo, bellissimo. Quelli sono occhi che sanno guardare il marciume del mondo e riconvertirlo in bene, in bellezza. E adesso John si sente riplasmato da essi, rinato in essi.
Quello è il suo posto, quella è la sua storia. Quello è il suo futuro.
-Ciao, Sherlock.-
E allora, per la prima volta, Sherlock lascia cadere il lucchetto della porta tanto temuta, spalanca di schianto porte mai conosciute, mai aperte. Ne ricorda ogni contenuto, ogni dato, ogni memoria. E a quelle memorie si abbandona, affidandosi a ciò che i suoi occhi videro e studiarono con malsana logica cose che non andrebbero capite ma semplicemente provate e basta.
Si allunga verso John che ancora lo sostiene. È un gesto che faceva la mamma con suo padre.
Gli poggia una mano sulla guancia calda di fragile carne umana. È un gesto che faceva il papà.
Adesso però, deve ricordare il dopo. Non è bravo in questo.
-Ci sono io, Sherlock. Sono solo io.- mormora John, e allora Sherlock si abbandona, lascia scivolare le labbra verso le sue finché non coincidono in un contatto gentile, quasi impacciato ma bellissimo come carezza di petali di rosa sulla pelle.
La luce esplode, la porta si spalanca di schianto mentre Sherlock cresce, si raddrizza, trascinando John con lui. D’improvviso è più alto, più forte, più vivo. Ha corna imponenti, scaglie brillanti come pezzi di cielo notturno e muscoli sviluppati d’uomo vissuto.
Avvolge un braccio intorno alla vita di John, approfondisce il bacio così come il corpo gli suggerisce, così come la logica non saprà mai consigliargli. Non ragiona più, non sa come giustificare quell’umano comportamento, ma stavolta si fida di John: Sherlock non scapperà di nuovo.
Le regole possono essere riscritte.
Le convinzioni possono cambiare, mutare, trasformarsi.
Il mondo può rinascere da un bacio, da una porta spalancata laddove la fiducia sa unire due creature diverse, figlie di cielo e terra, ma abbastanza speranzose da trovare infine sulle labbra dell’altro un reale punto d’incontro.
La porta si apre, li avvolge entrambi di luce abbagliante, ma Sherlock non lascia andare John. Lo protegge, lo stringe, abbraccia i loro corpi con le ali poderose. Sa di essere nella sua testa, sa di aver baciato un semplice ricordo. Ma non è certo che il vero John Watson lo accetti, che sappia capire ciò che lo stesso Sherlock non sa spiegarsi. Eppure, baciando anche solo quel piccolo rimasuglio di memoria, Sherlock Holmes rivoluziona la sua vita e capisce che sì, è pronto a seguire John, a ridargli ciò che gli fu tolto.
E finalmente, attraversando quella soglia mano nella mano col suo unico punto di forza, Sherlock Holmes capisce cosa deve fare.
 
Respira piano, faticosamente.
I polmoni sono schiacciati, compressi di pressione e fumo trattenuto troppo a lungo. Eppure, a dispetto di quanto si aspettasse, l’aria che respira è pulita, fresca, sgombra di fiamme e lava incandescente.
I rumori che ascolta non appartengono a un vulcano, né allo stomaco della bestia che l’ha trascinato giù, verso l’abisso della morte: da qualche parte, un gufo emette il suo verso basso e gorgogliante. Più lontano, a est, l’acqua scorre sul letto di un ruscello e gli alberi di una foresta abbastanza fitta da essere riconosciuta, mormorano la loro melodia di foglie in movimento.
Sherlock collega i rumori, il tatto che gli suggerisce d’essere adagiato su un letto di roccia appena levigata da… colpi d’artigli? Di coda? Entrambi.
Faticosamente solleva le palpebre, tossisce un grumo di sangue che malato gli scorre lungo la guancia, fino all’attacco della mandibola. La pressione all’altezza del petto aumenta, i polmoni faticano a dilatarsi per facilitare la respirazione. Da questo e da altri dolori, Sherlock capisce di avere diverse ossa incrinate o fratturate e come minimo un polmone perforato. Deve aver sbattuto contro una roccia particolarmente appuntita che gli ha perforato la carne fino all’organo. Bene o male però, è una fortuna che i draghi riescano anche a fare a meno della respirazione profonda, almeno per un po’. Ha tempo, e il tempo è ciò che gli occorre per rimettere le cose a posto.
Si guarda intorno, capisce di aver dedotto correttamente l’ubicazione della sua persona. Si trova in una grotta parecchio a nord di Londra e poco più a sud della terra appartenente ai draghi. Quelle sono terre selvagge, quel territorio è neutrale per chiunque.
Sherlock si alza a sedere con braccia che tremano e sangue che cola dalla bocca, dal naso, dalle orecchie. Non sta bene, ma non gli interessa. L’importante è che riesca a volare.
-Non muoverti troppo, Sherlock: se continui così, ti ammazzerai.-
Quella voce. Così roca, così profonda. Sherlock ha creduto di non poterla udire mai più. Eppure, paradossalmente l’ha udita pochi istanti prima.
Sposta gli occhi sulla figura alta, dalle spalle larghe e dai lunghi capelli striati d’argento. I draghi non invecchiano così velocemente. Eppure, se sottoposti a stress continuo e depressione ingente, possono appassire, affievolirsi. È ciò che è successo a quell’uomo un tempo così elegante, così bello. Adesso appare appena invecchiato, con occhi tristi e corna d’ariete sbeccate, di cui una spezzata alla punta. Le scaglie sono ricoperte di graffi profondi che le incidono di ferite non sanguinanti e il codino, una volta così ordinato, così bello, adesso è arrangiato con un nastro che un tempo sarà stato di uno splendido blu cobalto.
Sherlock quel drago lo conosce bene.
Sherlock quel drago l’ha visto sorridere.
Sherlock da bambino, quel drago l’ha abbracciato.
-Padre?-
 
Angolo dell’autrice:
Ritardo. Lo sapevo.
Sherlock: lo sapevano tutti.
No, lo sapevo soltanto io, visto che qualcuno ha cominciato a fare esperimenti sui confetti che abbiamo comprato per il matrimonio.
Sh: esagerata.
Gli sono spuntate le corna! Sembrano il patronus di Harry Potter, che cavolo!
Sh: quello è stato un piccolo incidente, ma con l’abito da sposa di tua sorella non fallirò.
Abito da sp… noilvestitonochecavolo!!!
Comunque… passiamo ai ringraziamenti prima che il prossimo capitolo venga annullato causa morte improvvisa di uno dei protagonisti. Grazie a coloro che come al solito rendono possibile il continuo di questa storia. Grazie alla pazienza che dimostrate nel leggere, nel recensire, nell’aspettare con calma i nuovi capitoli nonostante i ritardi più che irritanti. Grazie quindi a:
Kimi o Aishiteiru
FKk
Neryssa
Bbpeki
Grazie di cuore e a presto!
Tomi Dark Angel
 
 
  
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