Ready to Fly [away]
Era un angolo buio e polveroso quello in cui si trovava.
Avanzi di cibo e cartacce erano i suoi compagni di serate da ormai due
settimane. Quelle formiche, che camminavano l’una dietro l’altra come un
esercito compatto, avevano tutte un nome ormai, disegnato dalla pazzia della sua
mente.
Lanciava sguardi furtivi al letto a pochi metri dal suo
corpo rannicchiato. Era sfatto, chissà da quanto tempo. L’altro letto, invece,
quello accanto alla finestra, era perfetto. Inviolato. La sveglia lampeggiava
ancora su quel comodino: l’una e mezza passata.
Rispetto alle sue abitudini era decisamente
presto.
Si mosse di qualche metro, giusto per allontanare il naso
dagli avanzi putridi della cena del giorno prima, il cui odore nauseabondo lo
stava intontendo. I suoi muscoli intorpiditi gridavano di lasciarli in pace, e
Sasuke non voleva farselo ripetere due volte.
Quindici giorni senza la luce del sole; quindici giorni
senza il contatto con qualcuno, se non formiche; quindici giorni senza cambiarsi
i vestiti; quindici giorni senza lavarsi.
Cos’era la vita, allora, se condotta
così?
A scuola non aveva la minima intenzione di andare,
dopotutto non avrebbe fatto altro che sentire i suoi compagni ripetere tutti le
solite frasi di circostanza: «Mi dispiace.» o «Le mie più sincere condoglianze.»
o ancora «Che peccato… era proprio una brava
persona.»
Cos’erano quelle parole se non inutili sfacciataggini
accompagnate da una maschera triste che veniva levata appena svoltato il
corridoio? Come potevano permettersi quegli idioti
dei suoi compagni di scuola a sputare sentenze senza aver conosciuto il soggetto
di tali gentilezze da quattro soldi?
Era morto. Era un cadavere senza più sangue, né calore,
né spirito. Era solo un ceruleo corpo freddo, tanto importante quanto la vita di
una formica. La vita di una formica non valeva nulla per coloro che le stavano
intorno senza conoscerla, ma per il formicaio era una grande
perdita.
Itachi se n’era andato per sempre. Suo fratello aveva
lasciato quel mondo, e tutto per colpa sua.
Sasuke era sempre stato un ragazzo serio, posato,
rigoroso ed attento. Poche volte aveva commesso pazzie e in quei casi i risvolti
erano sempre stati tragici. Ma nessuno era mai morto. Nessuno fino a pochi
giorni prima.
Sasuke non aveva mai tenuto conto dell’utilità delle
strisce pedonali: attraversava dove capitava. Era bastato dimenticarsi di
guardare a sinistra per non notare l’automobile che stava sfrecciando ad una
velocità non consentita, guidata da un uomo in evidente stato di ebbrezza. Ed
era bastata la spintarella di Itachi a salvare la vita al fratellino e ad
uccidere se stesso. Non si era udito nulla se non un forte crack, e poi il sangue aveva invaso
l’asfalto.
Aveva vomitato, quella
volta.
All’arrivo dell’ambulanza era già troppo tardi: il cranio
di Itachi era ridotto ad una poltiglia rossastra e ad un ammasso di lunghi e
fluenti capelli neri.
E Sasuke dov’era? Sasuke era in bagno, a casa sua, a
rimettere l’anima, la tristezza e i ricordi intrisi di affetto di suo
fratello.
Perché tanto lui non c’era
più, ed era inutile ricordare persone che non esisteranno mai
più.
Rabbrividì, stringendosi nelle sue ginocchia, al ricordo
dell’incidente, mentre una lacrima scivolava lungo la guancia scarna e smunta,
una volta diafana e bellissima.
I piedi scalzi sfioravano le tende bianche, godendo di
quel tocco leggero e quasi impalpabile, distraendo la sua
attenzione.
Cadde nuovamente vittima del silenzio che lo circondava,
saturo di immagini che voleva dimenticare.
L’improvviso bussare alla sua porta lo destò dal torpore:
si era addormentato?
Non rispose. Non voleva che qualcuno si ricordasse ancora
della sua esistenza. Ciò che desiderava ardentemente era che tutti coloro che lo
conoscevano si dimenticassero di lui.
Perché avrebbero dovuto prestare ancora attenzione ad un
ragazzo che aveva ucciso il fratello? Se solo fosse
stato più attento, l’uomo che guidava la macchina avrebbe sbandato e si sarebbe
schiantato contro un muro. Sarebbe morto lui. Sarebbe stata la giusta punizione.
Sarebbe stata una morte più che meritata.
Ma tutti quei se erano inutili
e superflui, perché tanto Itachi non era lì per ascoltarlo. Il suo fratellone,
l’unica persona per la quale aveva un senso restare in quella famiglia, era
morto. Non deceduto, né passato a
miglior vita, né tanto meno venuto a
mancare. Morto.
Perché avrebbe dovuto utilizzare stupidi sinonimi per
descrivere la cruda realtà della vita di tutti i
giorni?
I battiti sulla porta si fecero più violenti ed
irrequieti, ma Sasuke non dava segno di voler aprire. Ai colpi si susseguirono
calci, ai calci rumorosi scossoni alla maniglia. Infine, il colpevole di tale
scompiglio si fece riconoscere.
«Apri questa dannata porta!» urlò una voce acuta,
attutita dallo spessore del muro. Sasuke spalancò gli occhi: quella voce l’aveva
già sentita da qualche parte. Probabilmente era sua madre, pensò, ormai aveva
dimenticato la voce di quella donna. E anche la sua
stessa.
Optò per prolungare il silenzio, sperando che lo
scocciatore se ne andasse presto, ma dopo quasi venti minuti non accennava a
muoversi da davanti la sua stanza.
«Che vuoi?» rispose allora, sperando che sentendo quella
voce roca e inanimata e il tono scocciato col quale aveva pronunciato quelle
parole, la donna non tornasse più.
«Sasuke! Allora sei vivo!» esclamò nuovamente quella
persona, fermando i colpi. «Sono Sakura!» aggiunse dopo pochi secondi di
indecisione, se presentarsi o meno.
Sasuke si guardò intorno, nell’oscurità di quella camera
buia e claustrofobia. Udire quel nome era stato come una pugnalata. Vedeva i
muri intorno a sé avvicinarsi, sembrava che fossero sul punto di comprimerlo tra
loro.
Conosceva una Sakura, andavano a scuola insieme. Era un
ragazza normale, che si distingueva per intelligenza e per l’assurdo colore di
capelli. Forse era anche capoclasse, ma non voleva esagerare coi
ricordi.
«Vattene.» la minacciò il ragazzo, neutro. Non si poteva
captare nessuna emozione da quella parola. Sembrava che fosse un controsenso:
nessun segno di rabbia, nessun segno di impazienza. Non esprimeva
nulla.
«Ti ho portato i compiti. Il professore voleva
assicurarsi che tu fossi vivo. Ah, dimenticavo! La
classe ti porta le sue condoglianze. Se può farti sentire meglio abbiamo fatto
un dibattito sulla guida in stato di ebbrezza e tutti hanno convenuto che la
colpa è stata del guidatore.» elencò Sakura, in ordine. Sasuke non poteva
vederla, ma teneva una mano appoggiata alla porta in legno, quasi a volerla
trapassare per poter incontrare il compagno.
Fantastico, pensò Sasuke, non solo gli erano state porte
le condoglianze, ma avevano persino parlato di Itachi in un dibattito. Cos’erano
quelle parole in confronto al reale peso dei fatti? Non gl’importava nulla del
dispiacere altrui, né di ciò che pensavano gli altri. Lui l’aveva ucciso. Lui e
basta.
«Posso entrare?» domandò la ragazza, con voce più dolce e
calma, quasi titubante alla richiesta. Il silenzio dall’altra parte le fece
intendere una risposta negativa.
«Posso raccontarti qualche novità, allora?» tentò ancora,
sperando con tutta sé stessa in un sì.
«Mh.» replicò Sasuke. Un grugnito non premeditato,
un difficilmente interpretabile assenso.
La presenza di Sakura a pochi metri da lui lo stava
calmando. Stava facendo rinascere in lui l’interesse. La presenza di Sakura gli
aveva fatto notare quanto la stanza fosse buia.
«Bene!» strepitò la rosa, cercando di frenare
l’entusiasmo. «Kurenai-sensei è, finalmente, andata in maternità! Nell’ultima
settimana le è cresciuto un pancione davvero enorme! Avresti dovuto vedere che
salti faceva Ino!» ridacchiò sommessamente. «A proposito… Shikamaru ha regalato
ad Ino un anello di fidanzamento! Dopo due anni insieme è stato davvero carino!
Però gliel’ha regalato con un mese e mezzo di ritardo dal loro secondo
anniversario, e per questo Ino si è arrabbiata! Ma sotto sotto era contenta! Non
poteva aspettarsi di meglio da Shikamaru.» fece una pausa, sperando in un
qualche cenno di vita dall’altra parte della porta, ma le sue attese non furono
che inutili utopie.
Sasuke stava ascoltando passivamente il discorso, non più
rannicchiato su se stesso, ma finalmente capace di muovere le gambe indolenzite.
Si era tirato indietro i capelli dal volto, scoprendo il pallido riflesso del
ragazzo che era stato poche settimane prima.
Sakura, nonostante il silenzio, continuò «È arrivato
anche un nuovo studente il giorno dopo che te ne sei andato! Si chiama Sai. È un
tipo a posto, a parte il comportamento apatico, il sorrisetto falso e la sua
mania per il pene di Naruto.» fece una pausa ponderata. «No, aspetta! Non
pensare male a quello che ho detto! Non è gay.
Sostiene semplicemente – ed esplicitamente – che Naruto non abbia gli
attributi!» si corresse in una fastidiosa parlantina
nervosa.
Naruto. Sasuke ricordava anche
quel nome. Si alzò dal cantuccio del quale aveva fatto la sua tana, scrollandosi
di dosso, con maniacale lentezza, le briciole dei suoi pasti a base di pane.
Rimase in ascolto.
«E… ehm…» Sakura stava
terminando gli argomenti, ma non voleva smettere di parlare. Voleva vedere
l’amico in viso, prima di andarsene. «Tenten ha regalato a Neji una delle sue
armi fatte in casa! Un pugnale! Neji, quando ha aperto il pacchetto, è rimasto
sbalordito. Mi sembra che domani escano assieme! Era ora, non trovi?» provò con
la formula della domanda, sperando di ascoltare ancora la voce di
Sasuke.
Silenzio.
Il ragazzo mosse un passo, pestando la fila di formiche
che marciava davanti a lui. Queste, in un moto frenetico, cominciarono a
scappare da tutte le parti.
«Naruto ha beccato Kiba a scrivere il nome di Hinata sul
suo diario e ha iniziato a prenderlo in giro! Quasi scoppiava una rissa durante
l’ora seguente di ginnastica! E avresti dovuto vedere Hinata! Era rossa come un
pomodoro! Continuava a gridare “Smettetela! Smettetela!”» al ricordo di
quell’avvenimento, Sakura non poté trattenere un risata. Ora Sasuke avrebbe
sicuramente dovuto risponderle: quando si trattava di risse tra Naruto e Kiba
era sempre in prima fila per demoralizzare i due.
Ma dall’altra parte rimase solo il solito, impalpabile e
fastidioso silenzio.
Sakura strinse i pugni e strizzò gli occhi, nel tentativo
di non piangere. Non sopportava quell’abbandono, quella demoralizzazione, quella
rottura interiore. Non era morto solo Itachi, quel
giorno.
«Sai cosa ti
dico, Sasuke? Forse sarebbe stato meglio che fossi morto tu, al posto di
Itachi!» sbottò improvvisamente con il tono di voce
spezzato.
Sasuke, a poco più di un metro dalla porta, si bloccò. La
mano allungata verso la maniglia rimase immobile a mezz’aria, mentre il mondo
che si era costruito in quei pochi minuti gli crollava
addosso.
Aveva pensato spesso a quell’opzione: se fosse morto lui,
a quest’ora Itachi sarebbe vivo, e nessuno dei suoi compagni di classe avrebbe
davvero sentito la sua mancanza. Ci sarebbero state le condoglianze, la
tristezza, il dispiacere, ma tutto si sarebbe risolto in un paio di settimane.
Itachi sarebbe tornato all’università, spronato da un fastidio in meno nel suo
studio.
Ritrasse la mano, abbandonandola lungo i fianchi, ed
abbassò il volto, nuovamente coperto da ciocche di capelli lunghe e scomposte.
Un lamento appena accennato fuoriuscì dalle sue labbra serrate, molto più simile
ad un singulto. Dall’oscurità di quella stanza si ergeva una figura altrettanto
offuscata, incapace di muoversi. Incapace di reggersi sulle sue stesse
gambe.
«Hai ragione.» mormorò, non curante del fatto che Sakura
potesse o non potesse sentirlo.
La ragazza non udì nulla. «Se fossi morto tu, a quest’ora
il sopravvissuto sarebbe veramente vivo.» sibilò,
adirata, tirando un pugno contro la porta ed osservando le sue nocche graffiarsi
ed irritarsi.
Sasuke si morse il labbro
inferiore.
«Guardati, Sasuke. Tu sei più morto di Itachi.» continuò
la rosa, singhiozzando. «Guardati intorno e chiediti chi è davvero morto quel giorno.»
Il ragazzo alzò il viso. Ora gli era tutto più chiaro:
sapeva esattamente cosa fare per riscattarsi, per lenire il dolore, per
guadagnare il perdono del fratello.
Avanzò di un ultimo passo, poggiò la mano sulla maniglia
e la abbassò, aprendo la porta.
Due occhi verdi ne incontrarono due neri. Uno sguardo
arrossato dalle lacrime ne incontrò uno velato dalla
morte.
La mano d’avorio di Sasuke sfiorò quella leggermente
abbronzata di Sakura, sfilandole il plico di fogli che dovevano essere i compiti
arretrati.
«Arigatou, Sakura.» soffiò, e
sorrise, per poi richiudersi la porta alle spalle, lasciando la ragazza allibita
a fissare il vuoto con le gote imporporate.
Non ripensò al volto di Sasuke, non ripensò al balzo che
il suo cuore aveva effettuato nel momento in cui le loro mani si era toccate e
non ripensò a quegli opachi pozzi di ossidiana.
Scese i due piani di scale, si fermò davanti al salotto,
dove i genitori di Sasuke stavano guardando la televisione, si inchinò
ringraziando ed uscì velocemente da quella casa
vuota.
Il sorriso che le aveva rivolto il ragazzo l’aveva
scombussolata. Il giorno dopo sarebbe tornata, e avrebbe convinto Sasuke a
tornare. Ne era sicura.
Intanto, due piani più in alto, un ragazzo appoggiò i
fogli sul proprio letto sfatto, con un sorriso macabro che gli solcava il
viso.
Sapeva cosa fare. Voleva liberarsi del peso che
l’opprimeva. Senza Sakura lì, accanto a lui, non riusciva ad impedire ai ricordi
e ai pensieri di prima di riaffiorare. Non voleva soffrire così
ancora.
Dopotutto, nessuno avrebbe sentito la sua
mancanza.
Attese la venuta della sera. Era rilassante e fresca, non
opprimente come il mattino.
Quando il cielo fu di una tinta scura, aprì la finestra
della sua stanza e guardò fuori: le macchine sfrecciavano sull’asfalto e il
vialetto di casa sua era stranamente silenzioso. Non c’erano ancora molte
stelle, ma quell’atmosfera lo rendeva più vivo. Lo rendeva quasi leggero, capace
di volare.
Si sedette sul davanzale e saltò giù. E volò libero dove
le sofferenze non lo avrebbero più raggiunto.
I vicini urlarono. I clacson delle automobili suonarono,
come impazziti.
Il vento si alzò, entrò in quella camera fredda e pesta e
fece volar via alcuni dei fogli poggiati sul letto. Uno volò proprio accanto
alla fila di formiche, tornata perfettamente in ordine. Era più spesso e
piccolo, disegnato e rifinito.
Sul biglietto vi era una scritta blu in stampatello
maiuscolo: Torna presto. Sul fondo spiccavano un gran
numero di firme di vari colori.
A/N
Ho
scritto una SasuSaku. Io. A me non piacciono (piacevano) le SasuSaku. °° Io ero una fiera Pantera Rosa
(NaruSaku). °°
Cosa
sono ora? Una Pantera Viola?
A
parte questo, ho trattato un argomento particolarmente delicato, e spero di non
aver offeso nessuno. °°
Volevo
cimentarmi in un po’ di angst, ed è uscito questo.
Naturalmente
non ho potuto fare a meno di ficcarci dentro un po’ di ShikaIno (che non fai
mai male), NejiTen e sì, anche
KibaHina.
Che
posso dire? C’est
l’amour.
La dedico, tanto per cambiare, alla Ele-sensei (e ad una sua fic), che mi ha aperto gli occhi, facendomi vedere la SasuSaku sotto una nuova luce.
Penso che tutti conosciate il significato di arigatou (grazie).
Commentate,
perché è cosa buona e giusta ù_ù.
Ja
ne.
Akami/AtegeV