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Autore: Magnetic_Ginger    07/06/2014    5 recensioni
Una what if? ambientata durante days of future past, dopo che Raven ha tolto l'elmetto a Erik.
Charles guarda nella mente dell'amico e quello che vede gli fa prendere una decisione terribile. Una decisione che cambierà la vita di Erik per sempre.
-No.- La parola di Erik risultò un’implorazione, colma di disperazione e di paura, mentre la sua mente si divincolava, cercando di rompere le catene con cui Charles l’aveva avvolta per poterla controllare. –Charles, per favore. Ti prego.-
-Mi dispiace, amico mio.- disse, in un ultimo sussurro, prima di tornare a fondere la mente con quella del mutante scosso dai tremiti.

[ POSSIBILI SPOILER FILM XMEN GIORNI DI UN FUTURO PASSATO]
Genere: Angst, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dedico questa One Shot alle ragazze del Vagone, in particolare a Veronica, Viviana e Vanessa, con cui ho una guerra di feels ancora aperta. Ricordate: "Peace, was never an option"
La storia -o parte di essa- è stata ispirata a un episodio di Doctor Who con Donna Noble, anzi all'episodio con Donna che probabilmente ha distrutto i cuori di tutti noi. Chi segue la serie capirà a cosa mi riferisco leggendo.

Spero che vi piaccia.
Un bacio a tutti,
S.
“When you wake up, you won’t even remember me”

 
Charles non era pronto. Affatto. Non era neanche sicuro di essere in grado di controllare la mente di qualcuno, soprattutto se quel qualcuno era Erik. Era passato troppo tempo, troppi anni, da quando aveva provato a fare qualcosa di così grande, di così invadente.
Eppure, nell’esatto istante in cui Raven sfilò l’elmetto dalla testa dell’altro mutante, la sua mente scattò, avvolse quella di Erik, bloccandolo, per poi tuffarsi fra i suoi ricordi.
Non era mai stato così a fondo nella mente di Erik. L’unica volta che vi si era avventurato, quella fatidica notte in cui si erano conosciuti e lui si era tuffato dalla nave della Guardia Costiera per salvarlo, era stato avvolto da così tanta rabbia, così tanto dolore, che si era immediatamente ritirato all’interno dei propri confini mentali, limitandosi a inviare all’altro mutante messaggi di conforto e di tranquillità. “Non sei solo”, gli aveva detto. Ma si sbagliava. Erik era tremendamente solo. Lo aveva visto nella sua mente, in quella parte di lui che era troppo consumata dalla rabbia e dal dolore per riuscire a…
Strinse gli occhi, lasciando da parte quei pensieri, così amari da provocargli un peso all’altezza dello sterno. Si spinse invece più in profondità nella mente di Erik, scivolando fra i suoi ricordi e le sue emozioni.
Percepì la mente di Erik cercare di ribellarsi, di sottrarsi al suo controllo, di difendersi dalla sua incursione nelle sue parti più segrete, ma strinse i denti e continuò ad andare avanti.
E vide tutto.

La mente di Erik era seriamente stupefacente. Se una parte di essa sembrava completamente controllata da una furia cieca e da un dolore lancinante, vi era un’altra parte lucida, analitica, quasi insensibile. Mentre la parte emotiva di Erik gridava vendetta, quella razionale elaborava piani con lucida e crudele implacabilità. E fu in quella parte della mente di Erik che Charles vide ciò che l’amico –ormai doveva smettere di considerarlo tale, si disse – aveva già deciso per il futuro.
Nonostante la decisione di Raven, nonostante gli avvertimenti di Logan, Erik continuava a restare aggrappato all’idea che i mutanti fossero una razza superiore, che gli umani andassero sottomessi. Tutto questo al fine di proteggere i mutanti dagli umani, o almeno così si ripeteva Erik in un tentativo di auto giustificazione.
Ma sotto tutto questo, sotto l’odio, e la rabbia, sotto la disarmante e crudele lucidità di Erik, Charles vide qualcos’altro. Un desiderio, così ardente eppure così nascosto nei recessi più bui della mente dell’altro. Un desiderio che era quasi una necessità, un disperato bisogno di qualcosa che Erik non aveva mai conosciuto. Pace. Una vita tranquilla, felice, lontana da ogni tipo di odio, di violenza o di paura. Una vita che forse avrebbe potuto avere se così tanti anni fa non fossero arrivati i nazisti prima e Shaw poi. La possibilità di una vita che gli era stata strappata via così tanti anni prima e che ora gli era irraggiungibile.
Era tutto così semplice, eppure così triste. Certo, Erik voleva distruggere il mondo, far provare agli altri l’intenso dolore che aveva provato lui, ma allo stesso tempo voleva solo essere amato, compreso… Accettato.
Fu in quell’istante che Charles prese una decisione. Una decisione che mai avrebbe voluto prendere.

Obbligò Erik, la cui mente era ancora recalcitrante a piegarsi, a sollevare i detriti che gli bloccavano le gambe, e immediatamente Hank fu al suo fianco, ad aiutarlo ad alzarsi. Insieme, zoppicarono e si trascinarono fino ad Erik, ancora immobilizzato sotto il suo controllo.
Si fermò davanti a lui, faccia a faccia. Non poté trattenersi dall’ispezionare i lineamenti dell’amico, soffermandosi sui suoi occhi. Occhi che racchiudevano così tanto dolore e sofferenza da rendere quasi insopportabile sostenerne lo sguardo.
Erik sbatté lentamente le palpebre un paio di volte, mentre Charles lo sentiva lottare per riprendere il controllo sulla propria mente. Incredibile come, anche in quei momenti, Erik fosse così testardo e non intendesse rassegnarsi a sottostare a qualcuno, per una volta, e così forte da riuscire comunque a strappargli un minimo di controllo, quel poco che bastava per riuscire a parlare.
-Che stai facendo?- chiese, a fatica, come se pronunciare quelle parole gli costasse uno sforzo enorme. Le parole uscirono strane, rallentate, come se fosse sott’acqua o se parlasse attraverso un vetro.
-Quello che avrei dovuto fare molto tempo fa.-

 
Si allungò e sfiorò il viso dell’altro con la punta delle dita, prima di soffermarsi sulle sue tempie e immergersi nuovamente nella sua mente.
Probabilmente Erik poté percepire le sue intenzioni, perché i suoi occhi azzurro-grigi si spalancarono e tutto il suo corpo si irrigidì.
-No. Charles, ti prego, no…- esclamò, dopo essersi lasciato sfuggire un gemito strangolato –Ti prego Charles, non farlo. Ti prego.-
-Devo farlo.- mormorò il telepate, cercando di combattere l’improvviso impulso di abbracciare l’uomo di fronte a lui,  l’amico che sta lentamente cadendo a pezzi sotto i suoi occhi e dentro la sua mente –E’ meglio così.-
E non solo per il mondo, per gli umani, ma anche e soprattutto per Erik.
-No.- La parola di Erik risultò un’implorazione, colma di disperazione e di paura, mentre la sua mente si divincolava, cercando di rompere le catene con cui Charles l’aveva avvolta per poterla controllare. –Charles, per favore. Ti prego.-
-Mi dispiace, amico mio.- disse, in un ultimo sussurro, prima di tornare a fondere la mente con quella del mutante scosso dai tremiti.
 

La prima cosa che cancellò fu il passato di Erik. Non fu facile, perché Erik vi si aggrappò con la disperazione di un animale ferito, ma infine ci riuscì. Era da lì che proveniva tutta la rabbia di Erik, da quell’oscurità annidata nell’infanzia dell’uomo di fronte a lui. Charles cancellò il tempo trascorso nel campo, cancellò anni di torture e sfinimenti, eliminò ogni ricordo legato a Shaw.
Nonostante la stilettata di sensi di colpa che lo attraversò quando vide la luce di puro orrore negli occhi di Erik, continuò a cancellare. Eliminò i ricordi di sua madre, della sua morte. Un verso di strangolata disperazione sfuggì dalle labbra di Erik mentre i ricordi sulla donna svanivano dalla sua mente, ma Charles si obbligò a continuare. Lo faceva anche per lui, si ripeteva. Non solo per gli altri. Anche per Erik. Soprattutto per Erik.
Poi si concentrò sul futuro che Erik stava progettando. Uno dopo l’altro, selezionò i piani e i progetti di Erik e li eliminò. Idee di reclutamento di mutanti, di guerra, di supremazia, tutto svanì dopo il passaggio di Charles.

Fu a quel punto che giunse la parte più difficile. Cominciò a selezionare altri ricordi, legati alla sua vita da mutante. Emma Frost, Angel, Azazel e tutti gli altri, tutti i mutanti morti o dispersi che Erik aveva conosciuto. Uno dopo l’altro, cancellò ogni traccia di loro dalla mente del tedesco, lasciando che i loro ricordi si dissolvessero nel buio.
Quando poi iniziò a selezionare tutto ciò che riguardava il suo potere, la sua consapevolezza di essere un mutante a Erik sfuggì un urlo, come se Charles lo avesse appena pugnalato. Fino ad allora aveva solo pianto, tremando e cercando di divincolarsi, mentre le lacrime gli scorrevano silenziose sulle guance. Charles si obbligò a ignorare l’ovvio dolore che stava causando a quello che un tempo era il suo migliore amico, e continuò implacabile a cancellare ogni conoscenza che Erik aveva del suo potere, gli anni spesi per svilupparlo, spingendo le capacità magnetiche di Erik nei recessi più nascosti della sua mente e sigillandoveli, in modo che mai più tornassero in superficie.
Erik ora piangeva apertamente, tremando, i singhiozzi che gli scuotevano il corpo mentre Charles continuava a farsi strada nella sua mente, cancellando ogni traccia di Raven, di Hank e di Logan, del tempo speso a cercare insieme i mutanti o a Villa Xavier.
Poi, col cuore che gli martellava dolorosamente nel petto, iniziò a eliminare ogni traccia di sé dalla mente di Erik.
-Non te.- Erik sibilò, con la voce spezzata –Non voglio dimenticarti, ti prego, non farmi dimenticare anche te, Charles.-
Charles sbatté gli occhi ed esitò un secondo. Nonostante le lacrime che gli confondevano la vista, poteva chiaramente distinguere l’agonia sul viso di Erik, mentre cerca disperatamente di prendere fiato.
-Sssh.- mormorò, accarezzandogli appena la guancia. Poi, con un unico movimento della mente, come se strappasse un cerotto da una ferita, spazzò via dalla mente di Erik ogni traccia di Charles Francis Xavier.
 
Erik collassò fra le sue braccia come un pupazzo a cui avessero tagliato i fili e Charles gli passò una mano sulla nuca. Per un secondo si permise di restare così, a stringere l’amico, ormai incosciente. Poi, con le lacrime che gli scorrevano liberamente sulle guance, iniziò a innestare nuovi ricordi nella mente dell’altro.
Hai vissuto a lungo con la tua famiglia, i tuoi genitori sono morti di vecchiaia dopo una vita lunga e completa. Sei stato felice, con loro. Avevi una sorella minore, e un cane. Vivevate in America, lontano dalla guerra, e non avete mai conosciuto particolari sofferenze. Ti sei diplomato in ingegneria, ma poi hai deciso che preferivi vivere lontano dalle grandi città, in posti tranquilli ed isolati, dove la gente non legge i giornali ma vive tranquillamente. La domenica scendi nel paese più vicino, e vai al pub, dove giochi a scacchi o bevi un bicchiere di whiskey insieme alle altre persone del villaggio. Ti piace incontrare nuova gente, conoscere le loro storie, fare nuovi amici. Sorridi spesso e sei sempre disponibile ad aiutare chiunque. Fai un lavoro normale, tranquillo, qualcosa che ti permetta di stare a contatto con la gente.
Tacque per un secondo, prima di posare un leggero bacio sulla fronte sudata di Erik.
“E il tuo nome è Max Eisenhardt.
 
[MESI DOPO, SVIZZERA]
 
Era una tranquilla giornata di sole sulle Alpi svizzere e Max era impegnato a pulire i tavoli del piccolo bistrò dove lavorava. Si passò la mano sulla fronte, con un sospiro. Erano giorni che, a volte, la testa gli rimbombava come se qualcuno vi suonasse dei tamburi.
Tum tum tum tum. Strinse gli occhi. Tum tum tum tum.
Non sapeva cosa significassero, o perché a volte iniziassero a risuonargli nella testa. Era come qualcosa che cercasse di uscire, di venire allo scoperto. La prima volta gli era successo qualche anno prima, al pub, mentre discuteva con un collega a proposito della crisi di Cuba.
Fino a quel momento, i tamburi erano stati un sottofondo ai suoi pensieri, ma nel momento in cui l’isola era stata nominata, avevano iniziato ad aumentare sempre di più, fino ad assordarlo e a costringerlo a scusarsi e correre fuori dal locale con la testa che sembrava scoppiargli.
Non sapeva perché succedesse ma, a volte, all’improvviso, iniziavano a farsi più forti, fino a riempirgli la testa e i pensieri. Come se qualcosa li avesse innescati, come se parte del suo subconscio spingesse per venire fuori ma non riuscisse a spezzare le catene che l’imprigionavano. Poi, dopo pochi attimi, la pressione ai lati della sua coscienza svaniva e i tamburi si affievolivano sempre più, riducendosi di nuovo a un rumore di sottofondo.
Era così da tempo, e ormai aveva imparato a conviverci.
Tuttavia, da qualche giorno a quella parte, i tamburi non erano mai semplice rumore di sottofondo, ma erano sempre forti, sempre presenti, e lui davvero non sapeva cosa potesse star succedendo.

-Max-
Il suo capo gli posò una mano sulla spalla, distogliendolo dal pensiero che, forse, stava davvero impazzendo.
-Vai a prendere le ordinazioni a quel tavolo laggiù.- gli disse, in francese. –Sono americani. So quanto ti manca parlare quella lingua, ogni tanto.-
Annuì, strofinandosi le tempie e obbligandosi a spingere l’emicrania da parte. Avrebbe potuto meditare sulla necessità di uno psicologo una volta terminato il turno.
Avviandosi verso il tavolo indicato, si prese un istante per osservare i due clienti, che gli davano le spalle. Una era una donna bionda, l’altro un giovane uomo con i capelli lunghi, su una sedia a rotelle. Stavano parlottando fra loro, senza averlo notato.
 
La ragazza sollevò lo sguardo, puntandolo sulle montagne davanti a loro. Max sapeva che da quella parte doveva esserci la Germania e un inspiegabile nodo gli serrò la gola. Certo, era tedesco di origine, ma aveva lasciato quella terra per trasferirsi in America che era solo bambino. A cosa era dovuta quella nostalgia?
Tum tum tum tum. Tum tum tum tum.
Serrò di nuovo gli occhi, prendendo un respiro profondo.
-Secondo te dov’è?- domandò la donna, con un morbido accento americano, la voce tinta di malinconia e sensi di colpa.
-Non lo so.- rispose l’uomo, con accento completamente inglese. La sua voce riaccese qualcosa nello stomaco di Max, qualcosa che non sapeva classificare, mentre i tamburi si facevano quasi assordanti.
-Non posso credere che se ne sia semplicemente… andato. Sparito.-  mormorò la ragazza, agitandosi nervosamente sulla sedia. Alle sue parole, l’uomo sospirò lasciando che la sua testa crollasse in avanti, fra le mani, e che i capelli lunghi e disordinati gli coprissero il viso.
-Lo so, Raven. Lo so.-
-Ti manca mai?-
-Lo sogno tutte le notti. Okay? E non c’è giorno in cui non mi pento di quel che ho fatto, ma dovevo. Ora basta, ti prego.-
Tum tum tum tum. Tum tum tum tum.
A quelle parole, lo stomaco di Max si strinse in una strana morsa, ma il giovane si obbligò a non farci caso. Okay, i due avevano probabilmente perso un amico, ma perché la cosa sembrava toccarlo così da vicino? E perché sembrava accentuare sempre di più i tamburi che gli risuonavano implacabili fra i pensieri?
Si strinse nelle spalle e scosse la testa, per poi avvicinarsi al tavolo e stamparsi un sorriso allegro in faccia.

-Buon pomeriggio!- salutò allegramente. –Inglesi, eh? Non ne vediamo tanti, qui.-
I due si girarono di scatto e la loro espressione gli ricordò vagamente quella di un coniglio abbagliato dai fari. La donna era a bocca aperta, mentre l’uomo lo fissava come se fosse appena caduto dal cielo mentre gli angeli cantavano l’alleluja.
-Uh, sì.- La donna fu la prima fra i due a riprendersi, nonostante lo stupore e la… gioia? Fossero ancora dipinti a caratteri cubitali sui suoi lineamenti. –Voglio dire, siamo in vacanza.-
-Oh beh, allora avete davvero beccato un ottimo periodo! Il tempo è fantastico in questi giorni e sembra che verrà ancora più caldo. Dovreste andare al lago, fuori  dal paese. E’ bellissimo in questo periodo dell’anno, molto tranquillo.- Lo sguardo ancora incredulo dell’uomo gli fece realizzare che, in effetti, stava parlando a macchinetta. Era quasi più logorroico del solito. –Scusate, è solo che non ho quasi mai l’occasione di parlare inglese, qui, e mi manca.-
La donna sorrise, un sorriso dolce e divertito allo stesso tempo. Come se le sue parole gli ricordassero qualcosa a cui era affezionata.
-Sei americano?-
-Tedesco, di origine. Ma la mia famiglia si è trasferita in America quando ero bambino, quindi in un certo senso mi considero quasi più americano che tedesco.-
Mentre parlava, la sua emicrania si faceva sempre più forte, mentre la pressione all’altezza della nuca diventava quasi insopportabile. C’era qualcosa che spingeva, premeva per venire allo scoperto. Si obbligò a ignorarla e a continuare a sorridere ai due.
Tum tum tum tum. Tum tum tum tum.
-Anche io sono americana. Lui invece è inglese- continuò la donna, accennando all’uomo di fianco a lei con un movimento della testa. –Siamo dello stato di New York.-
-Oh, ci sono stato una volta. Credo. Non me lo ricordo bene.- commentò, notando come a quelle parole i due si scambiassero un’occhiata che non riuscì a comprendere. –Comunque, vi posso portare qualcosa da bere?- continuò, tornando a concentrarsi sul motivo per cui era lì.
-Oh.. uh… solo una soda per me, grazie.- rispose la ragazza, dopo qualche secondo, come se fosse distratta da qualcosa.
Max si girò verso l’uomo e, nell’attimo in cui incrociò i suoi occhi, i tamburi si fecero quasi insopportabili, così come la pressione fra le tempie. Quegli occhi…  erano così blu, ma allo stesso tempo così familiari. Come un sogno che non riuscisse a ricordare, che continuava ad avvicinarsi solo per poi scivolargli fra le dita. Tum tum tum tum.
-Un thé, grazie.-
-In arrivo, Charles.-
Tutto sembrò congelarsi per un momento, quando quel nome scivolò fuori dalle labbra di Max. La ragazza sobbalzò. L’uomo trattenne il fiato e spalancò gli occhi, come se Max l’avesse appena schiaffeggiato. Il nome gli era uscito istintivamente, dal nulla. Aprì la bocca per scusarsi, ma l’espressione sconvolta sulla faccia dell’uomo lo fece bloccare a metà parola.
-Aspetta.. .ti chiami davvero Charles? L’ho azzeccato?-
Gli occhi dell’uomo luccicarono, come se stesse cercando di trattenere le lacrime. –Sì.. Sì, mi chiamo Charles.- mormorò, con voce debole.
-Oh.- Max restò in silenzio un secondo, stupefatto, sperando anche che le guance non gli stessero andando a fuoco per l’imbarazzo. –Okay. Questo è strano. Beh, suppongo ci saremo incontrati in una vita precedente.-
Alla ragazza sfuggì un sospiro tremante, come se stesse provando una qualche emozione troppo forte per essere sopportata. L’uomo, invece, fece un sorriso triste, annuendo appena. –Una vita precedente… Suppongo di sì.-
TUM TUM TUM TUM.
La ragazza e l’uom—Charles si scambiarono una lunga occhiata, come se stessero comunicando senza parole. Improvvisamente, Max si sentì tremendamente fuori posto.
-Uh… okay. Soda e thé. In arrivo.- mormorò, velocemente, prima di allontanarsi dal tavolo più in fretta che poté. Più si avvicinava alla cucina, però, più l’emicrania che l’aveva accompagnato per tutta la conversazione si faceva insopportabile, più un nodo gli stringeva la gola, soffocandolo e costringendolo a respirare velocemente.
Quando arrivò in cucina, il cuoco –Julien- lo squadrò con aria interrogativa.
-Une soda et un thé.- rantolò, in francese, prima di scattare verso la porta che dava sul retro del locale. –J’ai besoin d’un peu d’air.-
TUM TUM TUM TUM.
 
 
Una volta fuori, si appoggiò al muro, senza fiato e con la vista che iniziava a oscurarsi. L’emicrania era quasi insopportabile e gli sembrava di non riuscire a respirare. Cosa gli stava succedendo?
Chiuse gli occhi, cercando di riprendere fiato, mentre le gambe minacciavano di cedergli.
Uno strano rumore metallico lo convinse a riaprirli e guardarsi intorno. I bidoni posizionati in fondo al vicolo tremavano, violentemente, emettendo un suono metallico che, stranamente, sembrò quasi tranquillizzarlo. Il suo respiro stava tornando normale, l’emicrania sembrava iniziare a diminuire.
Poi la sua mente esplose e tutto diventò buio.
 
 
Quando riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, era seduto nel vicolo, sempre appoggiato al muro, senza fiato.
Confuso, si guardò intorno e il suo sguardo fu attirato da una monetina da pochi centesimi, abbandonata a terra. Quasi senza sapere cosa stesse facendo, allungò la mano verso di essa. Incredibilmente, la monetina si sollevò e fluttuò fino al suo palmo, dove restò sospesa.
La osservò, in silenzio, per poi iniziare a rigirarsela fra le dita, senza toccarla.

-Max? Ca va bien là-bas?- la voce di Julien interruppe il silenzio che lo circondava, facendolo sobbalzare. Ci mise qualche secondo a ricordare che Max era lui, che il francese –l’umano- probabilmente si aspettava una risposta.
Un ghigno da predatore gli si dipinse sul volto mentre stringeva la mano sulla moneta.
Era tornato.
-Sì, sto bene. Mai stato meglio.-
   
 
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