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Autore: yayo    07/06/2014    0 recensioni
[La vita di Adele - Blue is the warmest colour]
Adele ha 36 anni, un marito che non ama e una figlia con cui ha un rapporto inconsistente. Vive la sua vita così come viene, senza farsi domande, pensa, fuma, piange, sorride poco, osserva.
Ma non dimentica, non la dimentica mai.
Mai.
Emma.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Adele spegne la sigaretta sotto la suola della scarpa. È un’abitudine strana, che ha preso senza nemmeno accorgersene.
Ha cominciato a rendersene conto quando si è trovata un mucchio di scarpe rovinate. Ma non ci ha fatto molto caso. Non ci ha mai fatto molto caso.
Così come non ha mai fatto caso ai suoi capelli, al suo modo di vestire, alla sua vita in generale.
Non ha nemmeno mai avuto una filosofia di vita, e forse questo può sembrare triste.
Le cose le ha sempre vissute senza pensarci troppo,
buttandosi in ogni situazione senza riflettere sulle conseguenze,
inebriandosi degli istanti che le scorrevano tra le dita come l’acqua del mare in un giorno d’estate, all’alba, quando ancora non c’è nessuno e l’intero mondo è solamente tuo.
Adele ha trentasei anni.
Non si sente vecchia,
almeno non il giovedì alle cinque o il sabato prima del tramonto.
Ha come l’impressione ch+e la parte migliore della sua vita sia inevitabilmente andata perduta in un vortice di anni e di scelte sbagliate.
Molte notti non riesce a dormire. E allora pensa.
Ricorda.
Progetta.
Fa lunghe passeggiate, attraversando una città deserta che a tratti le appare ostile, a tratti accogliente. A volte si spaventa, a volte si nasconde, a volte urla che vuole e può sfidare tutto e tutti. Che vincerà.
Alcune volte riesce a crederci.
Adele sorride poco, ma quando lo fa è capace di rischiarare la giornata a chi le sta vicino.
Adele piange quando è sola.
Adele non ama più da un po’ di tempo, non ha preso sistematicamente conto dei giorni passati a non amare, ma è sicura che siano molti.
Adele guarda la figlia Méloée che impara a leggere, scrivere, camminare, vivere, essere felice o disperarsi per una puntata del suo cartone preferito, e pensa che è tutto così confuso.
Non sa dare né nome né titolo a niente.
Si lascia scivolare nell’esistenza sperando che qualcosa la salvi. Ha bisogno di essere salvata, di questo ne è certa, ma non sa da cosa o da chi o perché o come o quando.
A volte scrive un diario.
A volte ride perché si dimentica di tutto quanto.
A volte parla con Louis e pensa che sì, forse qualcosa tra di loro -un tempo- c’è stato. E loro, ubbidienti, hanno lasciato che le cose andassero come dovevano andare,
ed era nata Méloée.
 
Lei e il padre letteralmente stravedevano l’uno per l’altra.
Vivevano in una sorta di simbiosi. Parlavano per ore, per quanto le conversazioni tra un quarantenne e una bambina di sei anni possano essere profonde e interessanti.
Uscivano per interi pomeriggi e tornavano con una luce negli occhi che faceva venire, ad Adele, una stretta allo stomaco.
Lei li osservava, un po’ incuriosita, un po’ arrabbiata, un po’ triste, un po’ indifferente.
Non capiva i loro messaggi in codice, i loro sguardi, i loro scherzi stupidi.
Ne sorrideva e faceva finta di comprendere ogni cosa. Faceva finta che fossero davvero una famiglia e pensava che andasse tutto bene.
In fondo, in fondo va tutto bene, si ripeteva stoicamente fumando una sigaretta dopo l’altra, sotto lo sguardo di disappunto di Louis.
Mi dispiace, ma non so cos’altro posso fare.
Mi dispiace, io ce la sto mettendo tutta, ma forse non è abbastanza.
Aveva pensato varie volte di andare da uno psicanalista, da uno psicologo, insomma da qualcuno che la ascoltasse senza riserve e le facesse pagare cento euro all’ora per una soluzione fatta e finita, chiusa in un delizioso pacchetto regalo.
Poi pensava anche che se ne sarebbe vergognata, che lei non era così, che lei non ne aveva bisogno, che lei stava bene, che loro stava bene.
Ma chissà se.
Chissà se lei stava bene.
Lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei lei.
Certi giorni scriveva il suo nome centinaia di volte su un foglio che poi bruciava, sentendosi un po’ la protagonista di un libro dell’Ottocento.
Qualsiasi cosa facesse, qualsiasi cosa pensasse, qualsiasi cosa vivesse, respirasse, mangiasse, sognasse, lei c’era sempre.
Come marcata a fuoco sulla pelle, incisa sulle sue ossa, impigliata tra i capelli o tra i vestiti.
Era il suo pensiero costante, la sua ossessione disperata, il suo bisogno soffocante e tremendo che non la faceva dormire.
Emma.
Emma.
   
 
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