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Autore: BigMistake    09/06/2014    1 recensioni
Siamo nei primi anni del 1900, sotto l'ombra della "Belle Époque". Una giovane donna si trova a percorrere un passato non suo, volendo riscoprire in un certo modo sé stessa e superare così il dolore per la perdita della propria madre.
Dal prologo: Fissò il vuoto per qualche altro secondo inspirando profondamente, sembrava sul punto di svenire. «Vieni Christine, andiamo in giardino. Sei pallida …» in quella carezza sulla gota una piaggeria forzata, spinta oltre un confine che cercava di custodire come una perla dentro il suo guscio.
Seguito della fanfiction Lumière Noire.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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CHAPITRE I: La cage.

 

La guardava, alienato da quella dichiarazione così improvvisa. Sguardo perso, bocca socchiusa, fronte aggrottata. Braccia lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti a lei in attesa che quella spiegazione si posasse su di esse. 

Smarrito. 

Si tolse il copricapo facendolo scivolare tra i guanti candidi.

Parigi. Non era mai stato argomento delle loro conversazioni. Non aveva nemmeno mai menzionato la Francia, mai un accenno a viaggi o voglia di visitarla. Soprattutto non ricordava che lei ci fosse mai stata. Perché aveva detto che doveva tornarci? Non ora che doveva essere lì per la sua famiglia ormai ridotta ad un uomo, seppur in forze, anziano e sfigurato.

Christine non parlava. Come se i pensieridell'uomo si fossero materializzati davanti ai suoi occhi si limitava a fissarlo negli occhi quasi a sfidarlo. Non aveva paura di lui, non attendeva una risposta. Non era una richiesta di permesso. Lei doveva andare a Parigi, un sentimento tanto impulsivo quanto violento che le vibrava tra le membra. Lei doveva vederla con i suoi occhi. Parigi.

Non solo la città, ma tutto quello che era avvenuto lì nel 1870.

Doveva sapere.

«C-cosa?» il silenzio venne interrotto dall’uomo. Non riusciva a capire, non avrebbe potuto. Sosteneva a malapena il suo sguardo. Christine non era una di quelle donne che pendono dalle labbra di un uomo, non si conquistava la sua fiducia facilmente, tanto meno imponendole il proprio pensieroper quanto assennato fosse. In quel momento lui temeva di camminare su di un prato di vetro. «Christine …» sospirò. Prese un respiro in più prima di calpestare a piedi nudi gli steli d’erba tanto sottili quanto appuntiti. Abbassò il viso quasi nel preludio della sconfitta. Qualsiasi cosa avrebbe proferito, poteva essergli ritorto contro. Tutto si poteva dire di quella donna, ma non che non fosse estremamente intelligente ed era questo l’aspetto più ammaliante di lei. «Christine, perché vuoi andare a Parigi proprio ora?»

Lei era così.

In cima alla montagna osservava il mondo intorno a sé. Lo giudicava.

Lo biasimava con il distacco di una superiorità che si avvertiva a pelle su di lei.

In quello sguardo, mutato nel colore di un mare in tempesta, rivedeva il genio maledetto di quell’uomo che l’aveva accolto nel piccolo gioiello europeo di Coney Island. Poteva leggerci l’orgoglio, la fermezza, la stessa stoltezza di un gesto tanto avventato quanto folle come il voler attraversare l’oceano solo per...

Dio solo poteva sapere per qual motivo lei era decisa ad andarsene.

Osservò il suo viso trasfigurarsi in un cipiglio irritato. Era evidente che le parole non le aveva soppesate abbastanza per i suoi gusti. 

Nonostante la prudenza era caduto in errore. In realtà qualsiasi fosse stato il modo in cui si fosse posto, lui avrebbe sbagliato. Non c’era un modo davvero corretto di parlarle in quel momento. La conosceva a sufficienza per sapere che non accettava l’essere contrastata. Spesso l’aveva definita dal carattere impossibile, caparbia fino all’esasperazione eppure, oltremodo, affascinante.

Si era invaghito di lei da quando aveva ottenuto quel posto nell’Orchestra del teatro di suo padre e non senza difficoltà era riuscito a ottenere quantomeno di avvicinarla. La corteggiava da tempo, ma Christine non si era mai lasciata conquistare. In fondo sapeva che un’amicizia era molto più di quello che avrebbe davvero potuto ottenere.

Nonostante provasse benevolenza nei suoi confronti ora era davanti a lui, rigida, con le braccia chiuse sul petto e lo sguardo turgido e severo. 

«Ho detto …» marcò quell’ultima parola come se fosse un imperativo «… che devo andare a Parigi, il prima possibile.»

Le parole saettarono come spilli lanciati contro il viso. Incassò il colpo. Il tono che aveva usato, il modo in cui si era posta era quello di chi non vuole l’approvazione di qualcuno. Piuttosto era una dichiarazione, o un saluto.

O un addio.

«Christine, sei sconvolta e lo capisco, ma ti prego ragiona …» la donna inspirò ferina. Sebbene fosse minuta, nel momento in cui l’ira prendeva il sopravvento il suo aspetto mutava. Il lieve rossore delle guance, gli occhi sempre più intensi e la postura quasi intimidatoria di una belva pronta ad azzzannare al collo, la dipingeva in una antica divinità della vendetta. La guardò spaesato e sconfitto, a quel punto non gli restava che giocare d’azzardo e provare persino a toccare tasti che con lei non si era mai permesso. «Vuoi lasciare tuo padre qui, da solo, alla sua età e in un momento come questo?»

Gli occhi di lei trasmutarono in un cielo grigio.

Lo mortificarono con la sola potenza muta della loro espressività.

Freddi e lapidari come la nuda pietra sepolcrale. Come solo loro sapevano essere.

Lei e suo padre avevano la stessa capacità di annichilirti senza proferire parola. Si avvicinò all’uomo, placida e impettita, mascherando quel dolore che la piegava in due.

Marciava.

E la sua bocca andò quasi a sfiorare l’orecchio dell’uomo.

«Non dovresti parlare di ciò che non sai …» il suo sibilo serpeggiava sulla lingua come quella di un serpente ingannatore che ha una conoscenza impossibile da percepire. Si scambiarono un ultimo sguardo.

La mano di lei scivolò dalla spalla di lui.

Non se ne era nemmeno accorto che fosse in quel punto che lo stesse toccando. Così leggera e così spaventosa in un certo senso.

Un brivido lo fece tremare.

Era la sua presenza a farne da padrone, in questo ancora simile all’uomo che l’aveva generata.

La sua piacevole quanto terribile presenza. Un intelletto troppo arguto rispetto alle altre sin da quando era una giovane donna e ora, con l’esperienza, ancora più astuto.

Molti la temevano.

Molti l’ammiravano.

Raramente le si avvicinavano.

E a lei questo non aveva mai dato fastidio.

In qualche modo sentiva che il mondo le doveva qualcosa: rispetto forse. Lo avvertiva nelle sue viscere come il sangue che le scorreva nelle vene.

Era come se ogni giorno cercasse una vendetta.

Ora capiva.

Se non tutto, capiva cosa la spingeva a quella rivalsa nei confronti di chi la venerava se non per le sue qualità personali, per quelle finanziarie. Nonostante fosse convinta delle sue scelte vacillava di fronte al dilemma che le era stato posto. In un momento così duro persino per lei, cercava di mascherare i suoi dubbi, ma la domanda le si ripercuoteva come una grancassa.

Potrò davvero lasciare mio padre qui, ad affrontare tutto questo da solo?

Solo uno sguardo attento e anche l’uomo che aveva di fronte avrebbe captato il dibattito interiore albergare nei suoi occhi color della giada. Forse lo sguardo attento di una madre, lo avrebbe percepito ancor prima che ella potesse davvero rendere palese.

Mon Dieux maman, porquoi?

«Ho apprezzato la tua presenza, Claude, ma è ora che tu vada.» inghiottì il suo nome con freddezza. Non sentiva alcun bisogno né, tantomeno alcun dovere nei suoi confronti. Le sue parle cozzavano con l'espressione distaccata che stava mostrando. L’uomo perse a quel punto ogni speranza che ci ripensasse. L'unicacosa che gli stava lasciando era quello strano vuoto. Non un grazie, non un abbraccio cercato con passione. Solo questo. «Ti faccio accompagnare alla porta …»

Christine era pallida e fredda davanti a lui, gli occhi stanchi e lividi di un pianto che non sfogava.

Era vicina eppure lontana infiniti passi.

E continuava a scacciarlo come se fosse solo un sasso davanti ai suoi piedi lungo la strada.

Iniziava a esser stanco. Non solo del momento, ma di tutto. Era una stanchezza insana di quelle che assorbe ogni stralcio di vitalità rimasta.

Glielo avevano detto in molti, ma, Dio! Lui non poteva credere che fosse davvero così.

«Condoglianze Christine, spero che a Parigi troverai ciò che cerchi …» fu lui a tirare un passo indietro, cercando quella distanza ormai divenuta incolmabile con poche semplici parole.

Incomprensibile, bellissima e spietata.

Così la definivano.

Dio solo sa quanto Claude ci avesse provato a comprenderla.

Per Christine non c’era posto per lui. Non c’era posto per nessuno se non per sé stessa.

Non aveva bisogno di un uomo forte al suo fianco che la guidasse, che la sorreggesse quando il suo delicato animo veniva provato. Lei non era un fragile fiore dallo stelo morbido e i petali morbidi.

Una rosa irta di spine, con un nastro nero ad adornarne lo stelo.

Bella, bellissima dal color del sangue.

Da ammirare da lontano.

Conosco la strada, dammi quell’ultimo brandello di dignità e lasciami andare via da solo …

Indietreggiò ancora. Un ultimo sguardo come se fosse una sorta di addio.

La speranza che lo fermasse.

Non lo fece e non gli rimase altro che chinare il capo in segno di ossequio, indossare il cilindro e allontanarsi definitivamente.

Incrociò una delle cameriere che si rivolse a lui con un leggero inchino. Gli occhi bassi in segno di deferenza e una pugnalata al cuore.

«Madame, il dottore …» furono le ultime parole che Claude riuscì a udire prima di giungere all’atrio. La ragazza era al servizio dei Mulheim da ormai due anni e in quel momento non ricordava nemmeno il suo nome «… chiede di voi, nello studio di vostro padre.»

 

 

Percorse di nuovo il corridoio come se i suoi piedi non toccassero terra. Le mani incrociate sul ventre.

La luce naturale penetrava con lame fitte attraverso i vetri delle finestre e le stanze, filtrata da una nebbia di polvere sottilissima.

Dal piano superiore un muto e innaturale silenzio, assordava i timpani fino a farli scoppiare.

Quella casa non era mai stato il regno del silenzio. La sua casa non poteva esserlo.

I ricordi della sua infanzia, della sua fanciullezza erano pieni di musica e di poesia.

Della vecchia cameriera mulatta, che cantava degli oramai lontani campi di cotone del Sud dove era stata segregata. 

Degli artisti, pochi eletti allievi di suo padre, i quali non facevano tacere i loro strumenti o le loro ugole.

Di suo padre stesso che, seduto al pianoforte, componeva le superbe opere. Suo padre che mai faceva tacere quelle stanze, mai. Non quando era nel pieno della sua virtù e lasciava che le note fluissero leggere da lui agli spartiti, non quando era la sua voce piena, baritonale, che riecheggiava attraverso le mura fino a sentirla nel cuore, nel ventre, nella mente.

Per chi davvero cantava? Per chi lo avrebbe fatto ora?

E quella casa era piena della voce di sua madre che leggeva ed interpretava come un’attrice la Divina Commedia di Dante, sostituta da lei stessa quando i suoi occhi erano diventati troppo affaticati per leggere.

-Basta Christine, sono stanca, puoi smettere ...-

Sua madre era orgogliosa.

Quanto le sarà costato chiedermi di leggere per lei?

Ed era come una stilettata al petto, che le squarciava il costato lungo il torace e le strappava il cuore. Christine si prendeva cura di lei fino all’inverosimile. Era diventata i suoi occhi, le sue gambe in alcune occasioni, l’accudiva come se fosse stata una bambina. Quasi le faceva piacere avere quel potere su di lei, vivere a parti invertite mentre la malattia la stava consumando.

Mentre la malattia la stava uccidendo.

Era una donna così forte, aveva tenuto testa anche ai più colti degli uomini che aveva incontrato. L'aveva sempre vista così curata e ammirata che non le sembrava vero che ora fosse davvero lei ad aver bisogno di assistenza. Eppure non aveva mai voluto l’aiuto di nessuno. In realtà nemmeno il suo.

Non le aveva mai chiesto di trattarla come una bambina.

Ad un tratto aveva solo smesso di impedirglielo.

Era iniziata con qualche colpo di tosse, un’influenza poco curata.

Poi le prime difficoltà a fare le scale, il non riuscire più a sostenere le loro lunghe passeggiate a Central Park, a preferire la propria casa all’esterno.

Un lento degrado.

Il bastone, il primo passo verso il declino. Non riusciva a camminare senza. Il cibo sembrava di pietra e le ossa iniziavano a vedersi attraverso la pelle sottile. I lunghi capelli ormai quasi del tutto canuti che non riusciva più ad intrecciarli in complicate acconciature, ma solo a raccoglierli con un fermaglio di osso dietro la nuca.

Consumata piano, piano.

Infine quell’orribile oggetto, quella disgustosa sedia con le ruote che non riusciva a spingere da sola, schiacciato contro la parete che l’attendeva anche per spostarsi dal letto al tavolino vicino alla finestra durante i suoi pasti ormai solo liquidi. Persino deglutire l’acqua era divenuto un trauma da superare.

Aveva rifiutato infermiere, dottori, a malapena si faceva assistere dal marito e dalla figlia, ma da quando le era stato precluso il semplice camminare tutto il suo corpo era diventato una gabbia.

E verso la fine rifiutava persino suo marito.

-Se lo deve fare qualcuno, preferisco che sia tu, Christine …-

Per Christine c’era solo un sadico godimento nell’essere lei stessa quella madre dolce e affettuosa che la proteggeva da bambina.

Sua madre, quella donna forte e indipendente, che aveva bisogno di lei anche per poter indossare la camicia da notte pulita. Non vedeva le mani nodose irrigidite, il sangue che tossiva quando i suoi polmoni le chiedevano di cedere, lo sguardo spento di chi questo mondo l’ha visto e vissuto abbastanza da non volerne più sentirne parlare.

In quel suo bisogno inconscio, l’aveva costretta a vivere così a lungo che le stava mancando il fiato …

Quanto ti sentivi umiliata in questo? Quanto hai resistito così, maman?

Doveva accorgersi che la stava perdendo. Doveva farlo quando le aveva donato il suo diario, quel terribile e bellissimo quaderno di pelle nera che le aveva chiesto di leggere. Era il loro segreto, era il loro segreto …

Dio perché mi fai questo? Perché mi tormenti così?

Se solo non fosse stata così piena di sé, se solo non fosse stata così crudele con sua madre avrebbe potuto vivere di più con lei quegli ultimi istanti che le erano stati concessi.

Conoscerla davvero senza il bisogno di attraversare l’Atlantico come ultima spiaggia.

Lei non c’era più.

La regina quella casa, non c’era più e quella casa sarebbe morta con lei, con la sua voce affievolita solo da vecchi ricordi.

-Se vuoi ho qualcosa da farti leggere …-

 Quella voce che le risuonava ancora nelle orecchie era scomparsa.

 Non esisteva più.

 -Resta qui, accanto a me, ma non leggere ad alta voce. Io ho solo voglia di guardare fuori dalla mia gabbia …-

La sua gabbia, non era la casa o il letto. Era quel corpo che le tratteneva lo spirito. Adesso era libera, libera da quella prigionia. La immaginava giovane e in forze in un prato fiorito vestita con una camiciola leggera, di seta bianca. Lo sguardo allegro e sarcastico, il suo sorriso a mezza bocca. No, non sarebbe più tornata. Lei, la sua guida, il suo faro. Colei che le stava dicendo quanto avesse sbagliato.

Avvrebbe potuto godersi di più gli ultimi giorni della sua vita invece di cercare di assomigliare a Lei.

Christine non era in grado di sostituirla. Christine non sarebbe mai stata come Lei.

Le girò la testa. La nausea la fece ripiegare su sé stessa, lì accanto a quelle scale sempre più mute, sorretta dalla sottile balaustra in finto stile vittoriano. Fu solo allora che riuscì a piangere. Una prima lacrima che scese lenta, mentre scivolava sotto il peso di tutto quello che le era accaduto in pochi attimi. Un macigno che la schiacciava a terra, con la spalla contro la ringhiera e le ginocchia a terra.

Il suo cuore in frantumi.

Una seconda lacrima. Bruciava più della prima sulla pelle del volto.

La giovane cameriera che la seguiva rimase per un attimo rimase colpita da quello stralcio di debolezza che la sua signora stava mostrando. Non sapeva che fare.

Si guardò attorno spaesata come se non sapesse a chi rivolgersi, se chiedere aiuto …

«Madame?» provò ad accennare incerta. Le spalle di Christine si scossero in un singulto. Poi un altro. «Madame, vi sentite bene?»

Non le rispose. Continuò a singhiozzare come una bambina e a piangere.

«Lascia stare Lily, torna a pulire la cucina …»

Christine alzò gli occhi e la vide come una luce in fondo al tunnel buio che stava attraversando. In esso proiettati i suoi pensieri le ricadevano addosso senza che lei potesse rialzarsi. Le macerie la stavano seppellendo, ma eccola: una di quelle voci che riepivano quella casa. Era la sua voce, quella che le raccontava dei campi di cotone e della schiavitù. Era quella signora giunonica, alta e dalle braccia forti che la sorvegliava in assenza di sua madre quando ancora era una semplice cameriera. Era con loro da così tanto tempo che aveva dimenticato come era entrata nella sua vita. Con la voce. Mentre la spiava nelle sue faccende, mentre l'ascoltava origliando il suo canto. 

Maryam era il nome dato dalle sue terre, dal ventre di sua madre. Mary era il nome dato lei dall’uomo bianco, quello con cui tutti la chiamavano tranne sua madre.

-Mary … qual è il tuo vero nome?-

-Mia madre mi ha chiamato Maryam …-

-Non ti spiacerà se ti chiamo anch’io così, allora.-

«Oh, Mary!» le bagnò il petto, stretta al suo vestito, cullata dal suo seno. Christine era una donna, ma si sentiva una bambina in quel momento. Confusa, arrabbiata.

E triste.

Così triste da starsene aggrappata alla sua governante mulatta, seduta a terra a piangere.

«Piangi bambina mia, piangi pure …»



Note dell'autrice: Eccomi qui! Lo so, lo so la tiro per le lunghe. Come al solito. Però ci sono dei passaggi necessari per raccontarvi un po' di più quello che riguarda Christine e la sua famiglia. Quelli che hanno letto la mia storia precedente probabilmente già avranno intuito più o meno dove voglio andare a parare eh eh, (o no?) per quelli che invece che non l'hanno fatto il prossimo capitolo sarà sicuramente più esplicativo. Comunque io spero che questa storia sia apprezzata anche da pochi ma che almeno piaccia un pochino. Se non altro se avete qualcosa da dirmi anche di negativo mi va bene qualsiasi recensione, io sono qui e accolgo tutti i vostri dubbi e i vostri apprezzamenti.

Che altro dire. Vi ringrazio comunque che mi leggiate anche se passate semplicemente di qui!

Al prossimo capitolo

I remain gentleman, your obedient servant.

BM

   
 
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