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Autore: Eylis    10/08/2008    5 recensioni
“Ora ti mangerò.”
“Ma chi sei?”
“Ha importanza?”
“Vorrei solo sapere da chi sto per essere divorato.”
“Sono solo Buno.”
“Allora adesso mi mangerai?” La pecora annuì. Il coniglio si avvicinò e le permise di inghiottirlo. Giù, giù, fin nello stomaco di quell’essere nero.
Non vedeva nulla, circondato dall’oscurità percepiva unicamente delle mani gommose e graffianti che lo sospingevano in quelle cavità improbabili quanto un tiro di schioppo. Si lisciò i baffi e socchiuse gli occhi. Ne sarebbe uscito inzaccherato, pensò con un sospiro. Odiava le ore passate a ripulire ogni singolo pelo dal catrame che lo sommergeva.
[...]

Un vecchio che sta per abbandonare la vita, i ricordi del passato, un rapporto morboso con la madre, la ricerca di Lei. Quanto di tutto questo sarà reale? Quanto solamente… un incubo dai colori sgargianti? Una corsa affamata all’interno di spazi e tempi contrastanti per arrivare ad una conclusione inevitabile quanto la morte.
Questa storia si è classificata prima al concorso "Magia di una frase" indetto da Akane sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Credits: la frase “Questo è un incubo. Già. Ora sto facendo un incubo dai colori sgargianti.” è una citazione tratta dal manga Angel Sanctuary di Kaori Yuki ed è stata la fonte d’ispirazione per questa fan fiction, ogni altro elemento è di pura e personale fantasia.

Link al concorso: Akane - Magia di una frase



Occhi di coniglio




“Ora ti mangerò.”
“Ma chi sei?”
“Ha importanza?”
“Vorrei solo sapere da chi sto per essere divorato.”
“Sono solo Buno.”
“Allora adesso mi mangerai?” La pecora annuì. Il coniglio si avvicinò e le permise di inghiottirlo. Giù, giù, fin nello stomaco di quell’essere nero.

Non vedeva nulla, circondato dall’oscurità percepiva unicamente delle mani gommose e graffianti che lo sospingevano in quelle cavità improbabili quanto un tiro di schioppo. Si lisciò i baffi e socchiuse gli occhi. Ne sarebbe uscito inzaccherato, pensò con un sospiro. Odiava le ore passate a ripulire ogni singolo pelo dal catrame che lo sommergeva. Zampettò in direzione di una superficie luminosa e si ritrovò a fissare la propria immagine riflessa. Un muso bianco, un tenero nasino rosato e fremente, lunghi baffi argentati tenuti con estrema cura, le orecchie ritte sul capo. Curioso, non ricordava d’avere un occhio rosso ed uno azzurro. Però gli donavano un certo fascino, questo era indubbio.

Si trovò di fronte ad un mobile enorme, lo doveva superare in altezza almeno di qualche decina di metri. Decise d’inerpicarsi su quella stradina liscia e legnosa. Gli ricordava davvero quel gioco che sua madre gli aveva comprato per il suo terzo compleanno. Poteva quasi ancora percepire le macchinine colorate che stringeva a lungo fra le sue mani prima di lasciarle scorrere su quella pista a zig-zag in discesa, lunga e stretta. E quando arrivavano in fondo al gioco le riprendeva, le assaggiava per gustare quel sapore di legno dipinto e ricominciava.

Era arrivato alla prima svolta, ora doveva salire nella seconda parte del gioco. Calcolò le distanze e con un balzo si aggrappò al bordo, riuscendo poi con qualche sforzo a tirarsi nuovamente in piedi su quel balocco dalle dimensioni decisamente sproporzionate. Sua madre… la ricordava molto bene. Una donna acida, eppure giovanile e tenera all’infuori di alcuni rari momenti. L’aveva amata. L’aveva anche uccisa, in verità. Le aveva storto quel fragile collo con le sue stesse mani, sorridendo gentile quando l’osso debole aveva prodotto uno scricchiolio sinistro ed aveva ceduto. Brutta malattia, le ossa deboli… Sua madre era uno splendido pettirosso. Ma era giusto che divenisse cenere nel fuoco.

Ecco, finalmente era arrivato sulla cima. Si affacciò dal punto più in alto della costruzione e vide l’oceano sotto di sé. Presto ne sarebbe stato sommerso… Forse così si sarebbe lavato da tutto quel biancore che lo angosciava. Si lasciò cadere in avanti e precipitò.
“Cosa fai?”
“Cado.”
“E perché?”
“Sono stanco.”
“Allora sei fortunato.”
“Sto per morire?”
“Sì.”
“Ti ringrazio.” Agguantò il piccolo moscerino che aveva appena dipinto un sorriso sul suo volto e lo ingoiò. Così non avrebbe più avuto freddo, al suo interno sarebbe stato al sicuro. Ripensò a sua madre. Aveva i capelli acconciati in boccoli ordinati, di un semplice castano, morbidi come seta. Amava prenderli ad uno ad uno per romperli fra le unghie. Quando i suoi occhi si erano spenti le aveva accuratamente tagliato quella matassa conservandola per il proprio diletto, ma privi della linfa vitale si erano presto ridotti ad essere paglia. Buno doveva averli mangiati presto. Buno mangiava tutto. Prima o poi avrebbe dovuto mangiare anche sé stessa, sicuramente le sarebbe stato comodo iniziare dagli zoccoli, così non le sarebbero rimasti indigesti.

Un’altra cosa che ricordava perfettamente era il giorno della propria nascita. Soleggiato ma ventoso, un pomeriggio autunnale che l’aveva salutato con un sorriso a trentadue foglie. L’avevano trascinato su quel lettino gelido e l’avevano costretto ad urlare a pieni polmoni il suo disprezzo per loro. Poi l’avevano deposto tra le braccia di Lei. Sua madre era ancora inerme, ma Lei l’aveva preso. Lei era l’estate, era un timido riccio che curioso l’aveva annusato ridendo poi caldamente per la sua espressione felice. Lei l’aveva abbandonato presto, quel giorno stesso. Ma l’aveva vista sfiorare quasi per caso l’incavo del braccio sinistro di sua madre. Per questo ogni giorno, appena sveglio, chiamava la madre e la mordeva, proprio in quel punto. Rimaneva il netto segno dei denti, era un fenomeno interessante.

Cadde nell’acqua vischiosa ed esultò nel vedere il mondo appannarsi di verde. Era precipitato nel mezzo di un banco di pesciolini guizzanti ciechi. Innumerevoli vocine cavernose lo raggiunsero.
“Chi sei?”
“Cosa fai?”
“Da dove vieni?”
“Coniglio, coniglio, coniglio!”
“Vieni da me, voglio la tua pelliccia!”
“Sei liscio? Sei molle? Sei morbido?” Osservava quegli esseri minuscoli con terrorizzata indifferenza.
“Chi siete? Cosa fate? Da dove venite? Pesci, pesci, pesci! Venite da me, voglio le vostre squame! Siete lisci? Siete molli? Siete morbidi?” Le creature tacquero a quelle parole, mostrandosi unicamente all’occhio rosso del coniglio. L’azzurro scorgeva la luna.
“Lei ti cerca, non è qui!”
“Perché?”
“Devi andare, andare, andare! Vattene coniglio, o ti divoreremo!” Il banco di pesci era diventato tanto minaccioso che il coniglio nuotò lento verso il fondo. Scavò nella sabbia fino a trovare la terra. Lì asciugò alla luce della luna e prese ad arricciarsi la barba lunga e bianca attorno alle dita vecchie e raggrinzite. Sua madre l’aveva tradito. Lasciato solo. Era morta e non l’aveva più stretto a sé. Gliel’avrebbe fatta pagare, doveva solo trovarla. Ormai non era più molto distante, lo sentiva. Ed avrebbe trovato anche Lei e l’avrebbe lanciata nell’aria perché volasse libera. Era Lei sua madre? Avrebbe dovuto esserlo. Distillare la sua essenza giorno dopo giorno dal corpo morto di quella donna non gli donava le emozioni cercate. Doveva ritrovarla. Doveva ritrovarle.

Si lasciò cadere sul prato violaceo scacciando strane bestie che saltellavano nell’erba attorno a lui. Non sopportava l’idea che potessero sfiorarlo od infilarsi nei suoi vestiti procurandogli prurito. Sicuramente quelle zampe erano sudice di felicità, l’avrebbero contagiato. Doveva ritrovarla, doveva rivederla e spezzare nuovamente quel collo troppo candido e deturpato dall’innocenza… L’avrebbe fissata con quei nuovi occhi e l’avrebbe avvolta di quei due colori opposti fino a farla bruciare nel mare di un’esistenza irreale.
“Dove sei, madre? E Tu, dove sei? Dove siete, in questo mondo grigio?”
“Siamo qui!”
“Buno.”
“Eccomi.”
“La tua essenza è stomachevole, i tuoi occhi di pece non possono confondersi con quelli di Lei.”
“E se fossi tua madre?”
“Vola e dimostramelo.”
“No.”
“Allora vattene.”
“Sei dentro di me, mi seguiresti ovunque andassi.”
“Me ne andrò io.”
“E come?”
“Ha importanza?”
“Vorrei solo sapere come intendi fare.”
“Ti mangerò.” La pecora annuì ed il coniglio iniziò ad ingerire il suo corpo. Pezzo dopo pezzo. Si avvicinava a quel cuore pulsante, oscuro come la luce. Assomigliava al motore di sua madre, quell’organo che le permetteva di spostarsi, ma non di provar dei sentimenti. E Buno divenne parte di lui. Lasciò da parte la coda, troppa lana lo turbava.

Raccolse la giovane pianta dal gambo tremulo e delicato e la portò al viso per assaggiarne l’odore. Curioso, profumava di rosa. Le piante non profumano di rosa, solo di asfalto, vernice dipinta o colla. Avrebbe dovuto correggere quell’errore. Prese carta e penna ed iniziò a descrivere l’acre odore che avrebbe dovuto appartenere al vegetale nei minimi dettagli, soffermandosi sulle emozioni che gli comunicava e su ciò che vedeva rappresentato di fronte ai suoi occhi nell’ingoiare quell’essenza. Poi si tuffò nell’inchiostro di quelle lettere che avevano iniziato a muoversi irrequiete e se ne lasciò avvolgere. Soffocare. Inghiottire. Come aveva fatto con sua madre. L’aveva resa parte di sé, ed ora la stava cercando per poterla rivedere. Lo sentiva chiaramente, era sempre più vicina. Doveva solo accorgersi della sua presenza e l’avrebbe avuta sua. L’avrebbe posseduta e venerata come un oracolo distrutto dal tempo e dal dolore. Quel giorno che era arrivato a casa e l’aveva trovata addormentata sul divano aveva pianto per la sua bellezza. Era ingiusto, quel collo rossastro così graffiato era stato lasciato scoperto alla sua vista mostrandogli il suo compito. Sì, era davvero ingiusto. Sette anni ancora aveva dovuto attendere prima di vederlo tingersi di cremisi, mentre il sangue imbrattava quelle mani bianche. O nere, non ricordava.
“Madre…” Non ebbe risposta, Buno se ne era andata. Non l’avrebbe più confuso. Scattò in avanti e corse verso l’aria squarciandola nell’impatto sul fondo di una parete.

“Eccoti.”
“Chi sei?”
“Sono tua madre.”
“Non è vero.” La donna si allungò fino a raggiungerlo e si scostò i lunghi capelli dal collo. Uno scricchiolio d’ossa. “Perché sei qui?”
“Per te.”
“Non è vero.” Questa volta la creatura gli prese le mani, gliele baciò e gliele pose sotto il proprio mento. “Cosa vuoi?”
“Mio figlio.”
“Non esiste.”
“Eppure è qui, davanti a me.”
“Pazza d’una donna, non hai mai visto un’anima scorrere fuori dal tuo corpo.”
“Davvero?”
“Davvero.”
“Allora non sono madre.”
“No.”
“Eppure tu sei mio figlio.”
“Sì.”
“Abbracciami.” La barca che li aveva raccolti oscillò pericolosamente a quel movimento improvviso, seducente ed infantile. Il vecchio strinse a sé la madre con malvagia delicatezza e penetrò le proprie unghie in quella carne debole. Odiava la sua essenza che tanto aveva cercato. La donna gli porse il braccio sinistro. “Ora mordimi.”
“No.”
“Perché?”
“Non ha più scopo.”
“Lo so.” L’uomo aprì le sue labbra e le portò a posarsi sulla pelle grigia e tesa. La morse lasciando che quegli incisivi bianchi le trafiggessero le vene. Ne succhiò l’amaro liquido verdastro.
“Ti odio.”
“Sei un bravo coniglio.”
“Ti odio.”
“Mi piacciono i tuoi occhi. Ma l’azzurro è maledetto, dovresti strapparlo.”
“Ti odio.”
“Ora vattene. Dovresti saperlo, non sono io quella che davvero stai cercando, non ho importanza per te. Va da Lei ed uccidila.” La donna sparì lasciandolo nella pece del buio più dannato dell’inferno.

“Sono rimasto solo.”
“… solo.”
“Chi c’è?”
“… c’è?”
“Vattene via!”
“… via!”
“Chi sei?”
“… sei? Il buio.”
“E cosa vuoi?”
“… vuoi? I tuoi pensieri.”
“Perché?”
“… ché? Per farne ombre.” Il coniglio raggrinzì il muso rosato e si accoccolò sulle zampe posteriori. Chiuse gli occhi per vederne i colori. Rosso. Azzurro. Il rosso della luce, l’azzurro maledetto dalla luna.
“Lei non è qui, non posso trovarla. Eppure mia madre mi ha detto di cercarla. Come posso fare?” Il buio tacque, così il vecchio continuò seguendo l’intricato filo dei pensieri che si dipanava in ogni anfratto del suo corpo. “Credo d’averla rivista. Molto tempo fa, quando ero nel fiore dei miei anni. Quando ogni cardellino accorreva per danzare sul mio petto baldanzoso ed ogni gardenia implorava la mia acqua. Ora nessuno si cura più della mia anima frantumata, sono inutile a qualsiasi occhio, inservibile a qualsiasi orecchio.”
“Dove?”
“Nel profondo di una grotta. Stava nascendo, nell’oscurità che non ti appartiene, portando una fiamma di vita nella perdizione. Ho visto i suoi occhi, si sono posati su di me e non hanno avuto il minimo sobbalzo. Hanno ricordato il mio volto, eppure se ne sono andati, accompagnati da quella divina figura.”
“Ancora una volta?”
“Ancora una volta.”
“Solo.”
“Sì.”
“Sta arrivando la luce.”
“Te ne andrai?”
“Sì.”
“E sarò nuovamente solo.”
“Sì.”
“Non mi vedrai più.”
“No.” L’oceano si illuminò d’improvviso ed il coniglio si trovò immerso in ognuno dei colori riflessi da una prisma. Sommerso da un silenzio assordante.

“Vorrei giocare con le parole
di questo disegno beffardo,
vorrei stringere a me la chiave
di questo gioco balordo,
vorrei graffiare la gabbia
di questo fato incompiuto.

Volare libero sopra il mondo
consiste unicamente nello sbattere le ali
costruite con pece e catrame di male
che si raccoglie in miniere dorate
fino ad abbattersi al suolo
esangui e dissanguati
per il troppo amore di madre.

Vorrei disegnare le frasi
di questo mondo fatato,
vorrei giocare con i frutti
di questo cielo in movimento,
vorrei sfatare le storie
di questo occhio infinito.”

Doveva trovarla e farla sua. Ucciderla lentamente, perché agonizzasse durante tutto il tragitto fino all’inferno. O al paradiso. Lei, donna di cui non conosceva nulla se non il sapore del suo sguardo, l’avrebbe reso felice, trascinato al di là dei confini dell’eternità. Ma per farlo doveva uscire da quel luogo, anche se non sapeva come. Si guardò attorno, si sentiva immerso in un arcobaleno, il suo corpo ne aveva assunto ogni colore.

Rosso.
Eterna dannazione, ciliegie appese ad ogni lato della stanza. Vuota. Si voltò e si lasciò cadere in quelle nuvole aspre che subito si affannarono a stringerlo in una morsa letale. La amava, la voleva per sé. Lei era il Rosso, passione e tormento.

Arancione.
Immerso in una plastica soffocante sentì il respiro farsi sempre più debole. Doveva essere forte? Generoso quanto Lei? Avrebbe affrontato con onore quel supplizio? Vederla spegnersi di fronte a lui… Quando l’avrebbe trovata. Lei.

Giallo.
Quella vita tanto fragile, delicata come l’effimera esistenza del calore del sole… L’avrebbe carezzata. Stretta a sé, amata. Stritolata. Lei era tanto leggera che non si sarebbe accorta di nulla, gli avrebbe solo sorriso.

Verde.
Sì, l’avrebbe trovata. Stesa nell’erba, affascinata dall’incanto di un fiore senza petali che appassisce nel crepuscolo. Era la sua speranza, il suo desiderio. Ossessiva quanto la fiducia in un’attesa infinita. Sarebbe stata la sua risorsa, Lei.

Blu.
Finalmente un respiro. Si tuffò tra le onde del lago gustando l’acqua gelida che graffiava il suo corpo in una delicata moina. Quando Lei l’aveva preso gli aveva trasmesso le medesime emozioni. Quella calma che ricercava da una vita intera…

Indaco.
Oh, certo. Aveva acquistato grande prestigio. Tutti conoscevano le sue azioni, nessuno poteva sfuggirgli. Ma Lei si era rifiutata di vedere il suo vanto, aveva solo stretto il suo corpo neonato e l’aveva trascinato su campi d’araldici colori.

Viola.
Una stoffa. Colore delle prugne, dei fiori, delle superstizioni del teatro. Se ne lasciò avvolgere e cullare dimenticando ogni ricordo legato a Lei, alla sua medesima esistenza, al suo pensiero. La metamorfosi avrebbe presto avuto inizio.

Finalmente la luce, bianca, immacolata tanto da essere pericolosa. Infida. Spalancò la bocca per ingerirne grossi fasci, aveva il sapore dell’acqua viscida di sorgente, riempita della fragranza di una serpe che cova nel sottobosco scacciando i nemici con sibili maligni. Si accese in lui la brama d’uccidere la sua stessa figura. Si levò, ruppe con un fragore lo specchio di fronte a lui e si impadronì di una lunga scheggia di quel vetro trasparente. Era affilata, graffiante ai lati e lucida come l’acqua di fonte. Si fissò nella porzione rimasta infissa sulla cornice. Quel pelo candido quanto la luce, le orecchie sempre attente, pronte a chinarsi per sfuggire alla presa, i baffi vibranti di gioia, il nasino rosato che percepiva ogni frazione di felicità. Con fredda tenerezza scuoiò ogni parte di quel coniglio imbrattandosi di cremisi e dipingendosi la barba del liquido caldo. Il rosso, l’azzurro… li prese a sé, li nascose nel proprio corpo. Avrebbero continuato a vedere, senza più cambiare forma al mutare della sua anima. Era stanco di appartenere a quella figura, così come era stanco d’essere un vecchio dalla pelle di sequoia. Ma presto, presto quella luce l’avrebbe assorbito. Sarebbe scomparso, come desiderava.

“Credo d’averla rivista. Molto tempo fa, quando ero nel fiore dei miei anni. Quando ogni fringuello accorreva per danzare sul mio petto baldanzoso ed ogni rosa implorava la mia acqua. Ora nessuno si cura più della mia anima frantumata, sono inutile a qualsiasi occhio, inservibile a qualsiasi orecchio.”
“Dove?”
“Nel profondo di una grotta. Stava nascendo, nell’oscurità dell’alba, portando una fiamma di vita nella perdizione. Ho visto i suoi occhi, si sono posati su di me e non hanno avuto il minimo sobbalzo. Hanno ricordato il mio volto, eppure se ne sono andati, accompagnati da quella divina figura.” L’eco di quella voce lontana si spense per lasciare il posto ad un nuovo timbro. Dolcemente stridente, incorporeo.
“Perché la stai cercando?”
“Perché Lei è mia madre.”
“Ma tu hai ucciso tua madre.”
“Sì.”
“Allora Lei chi è?”
“Mia madre. Colei che avrebbe dovuto essere mia madre, il mio nutrimento, la mia anima.”
“E quando la troverai?”
“Diventerà parte di me.”
“Come?”
“La ucciderò, la mangerò, la amerò con dolcezza.”
“Così Lei sparirà alla tua vista.”
“Solo a quella degli occhi, rimarrà vivida per quella del cuore.”
“Il tuo cuore è nero.”
“È il cuore di Buno, pece e catrame, bitume immondo che guarisce ogni ferita.”
“Ha divorato anche Buno.”
“Sì.”
“Eppure lei esiste ancora.”
“Dove?”
“Dentro di te.”
“Non ha importanza. Buno non mi confonderà più, non mi impedirà di cercare Lei.”
“Voleva opporsi alla tua caccia?”
“Buno voleva mia madre.”
“E tuo padre?”

Il vecchio urlò con quanto fiato aveva in corpo, assorbendo l’aria attorno per squarciare quell’etereo spazio con il suo dolore. Suo padre! Sua padre non esisteva, non era mai esistito e non sarebbe mai esistito. Nessuno poteva permettersi di nominarlo, nemmeno quella voce senza padrone. Padre, padrone, assassino. Aveva ucciso la moglie, sua madre. Le aveva tagliato la gola con una lama così poco affilata che l’aveva resa agonizzante per lunghe ore. L’aveva visto, spiato dalla cima delle scale buie. La notte in cui aveva perso ogni cosa, dove la sua anima era stata ridotta a coriandoli neri di torbido odio. Quanto tempo era passato, quanti colori aveva scorto. Si sentì invadere dalla furia più placa che mai avesse conosciuto, disegnò nell’aria quella figura che conosceva alla perfezione e la sezionò con estrema calma, pezzo per pezzo, godendo delle grida che ogni porzione emetteva prima di dissolversi nuovamente nelle molecole d’ossigeno ed azoto. Ma lui aveva già avuto ciò che meritava. Il suo viaggio si era concluso con una cascata. Fredda come la morte. Ora aveva un altro scopo, doveva arrivare a Lei. Nel profondo di una grotta.

Scavò nella sabbia, scavò a lungo alla ricerca di un cunicolo che lo portasse ai confini della terra. Ogni granello spostato lo avvicinava a Lei, e diventava parte del suo corpo. Sentiva le proprie braccia, le proprie gambe farsi sempre più spesse, pesanti, grigie. Il proprio volto nascondersi dietro una maschera di minuscoli semi di pietra, che uniti avrebbero formato un’intera catena montuosa. Una gradevole sensazione di immensa gravezza. Se ne lasciò trasportare chiudendo gli occhi, lavorando senza pensare, liberandosi da ogni idea, volto od odore. Divenne aria, acqua, esistenza incorporea senza sentimenti. E poi si fermò.

Ormai poteva contare i minuti che lo separavano da quell’incontro tanto atteso. Ventitré, per l’esattezza, come i cappellini indossati di traverso. Un’emozione per ogni minuto, un conto alla rovescia che si allungava inesorabilmente con lo scorrere sempre maggiormente rallentato del tempo. Angoscia, terrore, ansia, felicità, ira, serenità, paura, tristezza, apatia, curiosità, affettuosità, rabbia, malinconia, dolore, orrore, incredulità, inquietudine, allegria, vergogna, gelosia, speranza, rimorso, delusione. Attraversare il tempo per percorrere lo spazio e superare la vita alla ricerca dell’eternità. Di nuovo quella voce.

“Finalmente sei arrivato alla fine.”
“Cosa intendi?”
“Hai percorso ogni anfratto della tua mente fino a giungere qui.”
“Ma qui dove?”
“Al confine, qui.”
“Ed ora cosa succederà?”
“Tu cosa vorresti succedesse?”
“Rispondi alla mia domanda terminando con un punto affermativo!”
“Qui le regole le detto io, misero, non credere di poter governare le mie decisioni.”
“E allora?”
“Cosa vuoi dalla fine?”
“Voglio Lei.”
“Ma cosa vuoi?”
“Voglio trovarla.”
“Ma cosa vuoi ottenere?” Il vecchio tacque per lunghi attimi. Ancora, le ventitré emozioni lo sbatacchiarono una ad una come avevano fatto in quegli ultimi ventitré minuti. Era giunto alla resa dei conti, allora. Cosa voleva ottenere?
“Non lo so.”
“Non passerai di qui.”
“No!”
“Sarà Lei a non permettertelo.”
“Non può farlo.”
“Solo Lei può decidere della sua anima, non te la mostrerà se non saprai dirle perché la vuoi ridurre a brandelli sottili. Se la vedrai smembrerai il suo corpo e la sua mente alla ricerca del suo cuore, non credere che Lei non lo sappia.”
“Ma allora è questo che voglio?”
“No.”
“E tu sai?”
“Sì.”
“Dimmelo.”
“Non osare, sudicio verme, se hai cari i tuoi pensieri. È unicamente tuo il compito di questa scoperta.”
“Ma almeno dimmi come posso fare!”
“Cerca la tua risposta…”
“Come?”
“…risposta…”
“Dove?”
“…osta…”
“Perché?”
“…a…”
“Che tu sia maledetto!” Nessuna risposta lo raggiunse. Ascoltò il canto del vento e vi scorse parole impresse a fuoco.

“Tu, così sfuggente, così ritrosa,
tu che evadi ogni ricordo ma ricordi,
tu così tenera, a momenti rari,
tu che barcolli alle mie parole
pur tenendomi al tuo fianco.

Tu, così seducente, ammaliatrice,
tu che entri nei miei sogni la notte,
tu che mi porti nuove emozioni
e lussuria nei giorni suadente,
tu, anima candida in fuga da te.

Tu, così dolce solamente con me,
tu che sconvolgi i miei pensieri
rendendomi incapace di capire,
tu che mi trascini nel tuo mondo
da cui non mi so allontanare da solo.”

“Cos’è tutto questo? Chi sei? Non è Lei, non lo è, non lo sarà mai!” Un brusco balzo lo scaraventò lontano. Un mondo fatato, un bosco incantato, esseri svolazzanti lo circondavano cantando allegrie e colori.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“No, voi non la toccherete!” Un nuovo rumore assordante, un altro mondo. Imponenti armature lo sovrastavano e battendo il tempo con la punta delle alabarde cantavano solenni cori.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“Non la toccate! Non è vostra, non la possiederete mai!” Il scintillio di una piuma nel vento, acque torbide attorno ed esseri viscidi colore del vivo marcio che lo avvinghiarono nelle loro spire. Le loro voci sottili lo trafissero.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“Nooooo! Non ve lo permetterò! Lasciatemi!” Uno schiocco di dita improvviso, folte pellicce che gli impedivano di respirare. Un convegno di bestie mostruose e gentili, una culla in cui essere deposto. Carmi delicati.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“Lasciatela, Lei deve essere mia!” Il colpo secco di due dita sbattute con forza sul palmo di una mano avvizzita. Formiche multicolori con antenne nere di morte camminavano in cerchio attorno a lui, serrando le fila ad ogni passo, corrodendo le sue carni ad ogni sfiorar di pelle. Un inno di lode alla loro formazione.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“Perché, perché, perché?!” Uno scroscio d’acqua improvviso come la gelida pioggia mattutina. Spiriti dell’aria lo trasportarono al di sotto delle montagne in un cielo capovolto al mondo. Un incantesimo sussurrato per compiere quella magia.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“Vi prego, lasciatemi, lasciatela a me!” Una scatola si chiuse all’improvviso, un secco sfrigolio di metalli. Un mondo di miniature immobili ed inquietanti come l’occhio di un ciclone sospeso nel tempo. Solo un bisbiglio udibile al di sopra dell’uragano.
“E Lei sarà mangiata, divorata, ridotta a brandelli…”
“No…” Cadde.

“Ora sai.”
“Ora so.”
“Cosa?”
“So perché.”
“Perché cosa?”
“Perché la voglio per me.”
“Perché la vuoi per te?”
“Perché so cosa voglio.”
“Cosa vuoi?”
“Solo Lei.”
“Chi è Lei?”
“È mia madre.”
“Chi è Lei?”
“È l’estate.”
“Chi è Lei?”
“È un timido riccio.”
“Chi è Lei?”
“È Lei.”
“Allora vai.”
“Ora?”
“Sì.”
“Ma come?”
“Non ha importanza.”
“Vorrei solo sapere come devo fare.”
“Mangiami.”
“Come?”
“Divorami.”
“E poi cosa succederà?”
“Vedrai Buno.”
“Buno?”
“L’hai uccisa.”
“Sì.”
“La vedrai e ti porterà da Lei.”
“Allora adesso ti ingoierò.”
“Addio.”
“Addio.”

Iniziò ad inghiottire quella voce. Una corda, un’altra, una nota ed un’altra ancora. Un timbro, una tonalità, una musicalità ed una melodia. Ogni boccone era così acre che i suoi occhi si riempirono di lacrime amare. Se li cavò, divorò anche quelli. Prima il rosso, e venne inondato di luce. Poi l’azzurro, e fu maledetto dalla luna. Maledetto per sempre, maledetto in un’eternità che non gli sarebbe mai appartenuta, maledetto di fronte a Lei che avrebbe ripudiato ed amato. Ripercorse ogni attimo della sua esistenza, rivide quei volti. Sua madre, donna dolce ed affettuosa. Suo padre, fiero ed orgoglioso del proprio figlio. Il suo coniglio, candido, dal muso sempre curioso e gentile. Sé stesso, bambino allegro e viziato, giovane spigliato e passionale, uomo di prestigio e serio, vecchio concreto ed affamato di vita. Si abbandonò a quelle immagini che lo ninnavano in un candido sonno, permise loro di chiudergli lentamente gli occhi ciechi, liberò quella malinconia che gli strozzava la gola e pianse dolcemente. Buno si fece avanti e gli leccò il volto con grazia perché liberasse, infine, ogni emozione.

Improvvisamente capì il senso di tutto quanto lo stava circondando, di quanto aveva vissuto. Ora il suo destino era chiaro, presto sarebbe arrivato da Lei.
“Questo è un incubo. Già. Ora sto facendo un incubo dai colori sgargianti.”

Un
Ultimo
Respiro.




Ringrazio di cuore Araluna, Fuuma, LeftEye e rolly too per aver recensito questa storia e Fuuma, KIba sensei, Onigiri, rolly too e Weather/b> per averla inserita fra i preferiti!!
  
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