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Autore: happley    13/06/2014    3 recensioni
Gli occhi azzurri, i capelli attorcigliati, il sorriso: erano le sue uniche particolarità, almeno fisiche. (...)A ben guardare, Tenma non aveva proprio niente di speciale.
Cosa parecchio snervante, perché in tutta quella ordinarietà non era certo facile trovare un motivo per cui dovesse piacergli. E gli piaceva tanto, anche.

Oneshot in cui Matatagi, Tenma, Yuuta e Shun giocano a calcio in un parco, e Matatagi è decisamente distratto da Tenma. Matatagi/Tenma ambientata dopo il Galaxy e ispirata vagamente alla canzone 'Ordinary boy' di Vanessa Carlton.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Matatagi Hayato, Matatagi Yuuta, Matsukaze Tenma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho scritto questa fic perché avevo bisogno di un po' di fluff MataTen, e anche perché l'idea di scrivere qualcosa ispirato a 'Ordinary day' di Vanessa Carlton (è una canzone che mi piace molto per questa coppia) mi frullava in testa da un po'... Spero che possa piacervi :)

*Ordinary*
(Just an ordinary boy, but he was looking to the sky.)
 
Il pallone rotolò sull’erba e si fermò contro il tronco di un albero.
“È goal.”
“No, non lo è. Ha preso l’albero.”
“Appunto.”
“Appunto. L’albero è fuori.”
“Dentro.”
“Fuori.”
Matatagi chiuse per un attimo gli occhi, sospirò, poi fissò vacuo il volto del libro di storia giapponese. Alcuni concetti proprio non gli entravano, non importava quante volte avesse riletto la stessa pagina. Aveva perso troppe spiegazioni, troppi compiti in classe, troppe domande e risposte. Non aveva avuto il tempo materiale per farlo. Prendersi cura di se stessi non è così facile come prendersi cura degli altri.
Nello specifico: dei due ragazzini che in quel preciso momento stavano battibeccando e, a giudicare dalla piega che la discussione stava prendendo, sarebbero presto passati alle mani.
“Era più fuori di un balcone.”
“Era dentro! Dentrissimo. Lo giuro sulla collezione di biglie.”
“Ah! Bella forza. Quelle biglie sono mie.”
“Non è vero.”
“Sì.”
“No.”
Prima ancora di rendersene conto, Matatagi abbandonò il libro sulla panchina del parco e si alzò in piedi. In situazioni come quelle doveva farsi valere come fratello maggiore –dopotutto, era una delle cose che faceva meglio: il fratello maggiore. Poi c’era: l’atleta; e nel sottoinsieme: il calciatore. Era più facile pensarla così, dividersi per un attimo in tante persone (insomma, fare l’appello).
Stava già preparandosi un bel discorso di rimprovero ai due bambini, ma qualcuno lo anticipò.
“Dai, non litigate! Abbiamo ancora un sacco di tempo per giocare!” esclamò Tenma, rise nervosamente.
Matatagi si voltò verso di lui.  Concentrato com’era sullo studio, e su Yuuta e Shun, si era quasi dimenticato della sua presenza, eppure passare con Tenma il venerdì pomeriggio era diventato un’abitudine. Non era mai qualcosa di organizzato, semplicemente i loro orari coincidevano: Matatagi portava lì i fratellini a giocare, Tenma andava ad allenarsi e un pomeriggio si erano incontrati e se n’erano resi conto.
Questo era il quarto venerdì.
Era stato strano abituarsi a quegli incontri sistematici e non programmati, di giorno in giorno. Per la verità la presenza di Tenma era un po’ un sollievo: Yuuta e Shun adoravano giocare a calcio e, lasciando che fosse il capitano (ex-capitano. A quell’ex non riusciva ad abituarsi) a controllarli, lui poteva dedicarsi allo studio. O a pensare cosa avrebbe cucinato per cena. Se a Tenma piacevano gli udon e, se sì, come li mangiava –come se poi fosse davvero importante. Tenma non era mai venuto a mangiare da loro, nemmeno per pranzo. Matatagi si chiese come mai, poi si rese conto che non gliel’aveva mai chiesto. Non sapeva nemmeno come fare, era troppo imbarazzante, non aveva mai avuto amici così stretti a cui poter dire una cosa del genere. E Tenma non era nemmeno un ‘amico’, a ben pensarci. Aveva smesso di esserlo nel momento in cui si erano accorti di piacersi un po’ molto di più di quanto dovrebbe piacerti un ‘amico’. Adesso erano fuori da qualcosa e dentro qualcos’altro (fuori, dentro, fuori, dentro –cosa? Non ci capiva più niente).
“Perché non facciamo una sfida ai rigori? Io posso fare il portiere, se volete,” propose Tenma, con un sorriso smagliante che si allargava fino agli occhi azzurri.
Gli occhi azzurri, i capelli attorcigliati, il sorriso: erano le sue uniche particolarità, almeno fisiche. Tenma, in fondo, era uno come tanti. Ogni tanto Matatagi si fermava ad osservarlo e mentalmente, minuziosamente, elencava le sue caratteristiche. Ad esempio, il suo viso era tondo e assolutamente ordinario. L’altezza: ordinaria. Mani e gambe: ordinarie. Il modo di vestire: ordinario. Andamento scolastico: ordinario, e così via. A ben guardare, Tenma non aveva proprio niente di speciale.
Cosa parecchio snervante, perché in tutta quella ordinarietà non era certo facile trovare un motivo per cui dovesse piacergli. E gli piaceva tanto, anche. Almeno tanto quanto lo irritava.
Lui e i suoi stupidi, banali, discorsi sull’amore e l’amicizia e la squadra e ‘ragazzi, mettiamocela tutta!’ –quanto fiato sprecato (ma per qualche strano motivo quelle parole che per lui erano sempre state vuote si erano riempite e avevano aggiustato qualcosa).   
“Matatagi! Vieni a giocare con noi? Dai, stacca un po’ dallo studio!” Tenma aveva una voce da ragazzo in crescita, improntata da una vitalità estrema, una voglia di vivere quasi terrificante.
Quando disse il suo nome –anzi, cognome; ma vabbè, in fondo lui ancora lo chiamava ‘capitano’- a Matatagi parve di focalizzarlo davvero per la prima volta in giornata, nonostante non avesse fatto altro che fissarlo.
“Nii-chan! Vieni a giocare, vieni a giocare, vieni, vieni, vieni.” Yuuta e Shun attaccarono una litania infinita. Tenma ridacchiò. Matatagi lanciò un’occhiata dubbiosa al libro e in un decimo di secondo decise cosa preferiva fare.
“Tsk. Ai rigori vi distruggo. Io sono il più forte.”
“Be’, Shun possono batterlo tutti.”
“Non è vero!”
E iniziarono a giocare. Tenma come portiere era piuttosto bravo, lui riusciva a giocare praticamente in qualunque ruolo, perché in fondo era sempre calcio e il calcio era tutto per lui, un mondo, una vita. Il calcio diventava vita, quando Tenma giocava. Matatagi non avrebbe mai capito fino in fondo la natura di quel legame così unico, esclusivo, ma era divertente e questo gli bastava. Le mani di Tenma, che bloccavano un tiro dopo l’altro con estrema facilità, erano sporche di terreno e sudaticce e callose.
Però Matatagi aveva voglia di stringerle tra le sue, mani che lo avevano trattenuto quando stava sull’orlo del baratro ad aspettare di cadere, mani che tremavano leggermente quando per sbaglio lo sfioravano.
La sfida ai rigori, com’era naturale, la vinse lui. I suoi fratellini non l’avrebbero perdonato se li avesse trattati coi guanti, e poi quella non era che l’ennesima occasione per ammirare e lodare l’amato fratello maggiore. Tenma sollevò da terra il pallone che era rimasto in ‘porta’ dopo il suo ultimo goal e lo strinse al petto mentre guardava il cielo che s’andava inscurendosi. Il suo sguardo era sempre rivolto verso il cielo, verso l’alto e il davanti e il distante. Spesso perdendo di vista la terra, inciampando, rialzandosi, tornando a guardare su. Caricandosi di speranze per il domani. Come ogni persona ordinaria.
“È già così tardi” osservò Tenma, con una sorta di misto tra rassegnazione e tristezza, “Devo tornare a casa. Allora… ci vediamo?” Lo disse con esitazione. Le sue guance si tinsero di rosa, o forse lo erano già perché era accaldato, o era solo uno scherzo della luce. Non che fosse importante.
“Sì, ci vediamo” rispose Matatagi. Si voltò verso i fratelli. “Yuuta, Shun, raccogliete le vostre cose e il mio libro. Io arrivo subito,” disse. I due ragazzini annuirono con energia e schizzarono ad obbedire.
Matatagi afferrò le mani di Tenma, il pallone senza più supporto cadde a terra e sbatté contro le loro caviglie e rotolò lontano, ma loro non ci fecero caso. Gli occhi di Tenma si chiusero d’istinto quando le labbra dell’altro ragazzo si posarono sulle sue con un respiro tremulo e frustrato.
Non appena si scostarono, Tenma piegò il volto leggermente di lato, in modo infantile. “A venerdì,” sussurrò. Suonava un po’ come una promessa. Matatagi iniziò a pensare che forse non era esattamente un non-programma, e che loro erano decisamente non-amici.
Sì. No? Sì.
Sorrise e, invece di lasciare i polsi dell’altro per permettergli di andare, li strinse e li tirò verso di sé, come per dire: ecco, adesso tocca a te essere trascinato.

“Ehi, capitano... Perché non vieni a cenare da noi?”


 

**C'era una volta una melaH...**
Buonasera! 
E' stato divertente scrivere questa fic: un mesetto fa ho trovato alcune fanart con questo allegro quartetto (MataTen + Yuuta e Shun) e ho pensato che sarebbe davvero carino se Tenma diventasse baby-sitter dei due bambini a tempo pieno! Insomma, Matatagi è un fratellone modello a parte i dubbi consigli etici, ma vabbè ma credo che ogni tanto avrebbe bisogno di 'staccare' un po' dalle sue responsabilità (il mio headcanon riguardo la scuola, per esempio, è che lui non vada molto bene, non perché non sia intelligente, quanto piuttosto perché non ha tempo materiale per studiare, dovendo occuparsi di Yuuta e Shun, della casa, ecc. ecc.). 
Questa storia si ambienta alla fine del Galaxy e Tenma e Matatagi stanno insieme ma non proprio (?) - cioè, non sono solo amici, ma non sono neanche una coppia ufficiale, ecco. Sono convinta che avrebbero molti problemi a 'stabilizzarsi' perché se Tenma, da un lato, è ancora molto infantile, Matatagi non è da meno, anzi in più risulta anche meno spontaneo perché non è abituato a relazioni sociali così 'intense'. Il fatto che proprio Tenma, un ragazzo così 'banale' e irritante, gli faccia provare certi sentimenti lo turba -non sa come reagire perché in fondo lo sa, che Tenma un po' speciale lo è. Almeno per lui.
Bacioni,
      Roby
  
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